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Paris Cop21, flop annunciato: il problema è politico!

In corso di svolgimento in una Parigi blindata dai postumi degli attentati del 13 novembre, dove lo stesso diritto di manifestare viene messo in discussione, l’annuale edizione della conferenza Onu non passerà certo alla storia per i risultati conseguiti ma verrà anzi presto archiviata come l’ennesimo summit in cui le elite politiche globali si incontrano periodicamente per fare il punto e attrezzare deboli risposte di governance su un pianeta sempre più strutturalmente instabile, tanto sul piano politico quanto su quello ecologico. I due livelli andrebbero infatti affrontati nel loro intreccio profondo – cosa che programmaticamente non avviene.

Parlare di “cambiamenti climatici” significa oggi già porsi di fronte all’emergenza di migrazioni umane su scala continentale, prodotte direttamente o indirettamente dall’aumento della temperatura e la conseguente desertificazione di ampie regioni del pianeta (molte guerre sono già oggi guerre dell’acqua o conseguenze di carestie e/o innalzamento del costo delle materie prime alimentari come i cereali). L’emergenza da affrontare subito implicherebbe a ritroso l’allestimento di radicali inversioni di tendenza, sul medio-lungo termine, per quel che concerne le politiche ambientali, industriali e di modello di sviluppo. Si continua invece a navigare a vista, con l’ostinato rifiuto di tutte le parti in causa di trovare soluzioni percorribili.

Un nodo particolarmente spinoso riguarda la questione del cosiddetto “debito ecologico”, formalmente riconosciuto già nelle ultime dizioni della Conferenza ma che stenta a trovare un accordo pratico concreto. I cosiddetti paesi emergenti – le attuali “fabbriche del mondo”, Cina e India, in cui si concentra, piccolo dettaglio, il 40% della popolazione mondiale – non sono disposte a rinunciare al basso costo del carbone e di altre fonti energetiche per il proprio, tanto agognato e faticato, sviluppo. Dal canto suo, l’Occidente (per semplificare) non è disposto ad assumersi le reali conseguenze che il riconoscimento politico del suddetto “debito” implicherrebbe, soprattutto in una fase storica di declino della sua egemonia, insidiati dall’incapacità di competere col basso costo della manodopera asiatica (oltreché dalla strenua difesa di livelli di “benessere” cui le popolazioni occidentali non sarebbero comunque disposte a venir meno). Da questo punto di vista, il fallimento sequenziale di round e meeting, sono il segno evidente del fallimento politico della globalizzazione, nella misura in cui gli “egoismi” nazionali (o di polo) non trovano una composizione superiore, con buona pace dei neo-neo-kantiani, europeisti e supporter fondamentalisti delle Nazioni Unite.

Più profondamente, il problema è politico, di sistema. E’ il capitalismo come sistema mondiale di accumulazione e sfruttamento che inizia a perdere colpi, impigliandosi sempre più catastroficamente nella spirale delle sue contraddizioni. Lontano ormai dal paradigma inclusivo dell’era keynesiana/”socialista”/anti-coloniale, esso riproduce ormai sé stesso contro le stesse possibilità di riproduzione di fette sempre più allargate di umanità e territorio. Al punto che la sociologa della globalizzazione Saskia Sassen invita, nel suo ultimo lavoro, a considerare l’attuale dimensione storica in cui viviamo come era delle espulsioni: di classi sociali, stati-nazioni, popolazioni, territori… la stessa biosfera.

Sul piano più strettamente “tecnico” (se così si può dire), un aspetto fondamentale da prendere in considerazione è che il costante e progressivo aumento della temperatura media mondiale non è misurabile secondo un’aritemetica dell’ddizione ma della potenza. La progressione del disastro non è tanto dell’ordine 1-2-3-4… ma più simile a quella 2-4-16-256… L’aumento innalza dunque esponenzialmente le conseguenze della sostenibilità ambientale del pianeta.  Se si calcola che gli sconvolgimenti attuali sono determinati da un aumento medio globale dei 0,6 ° centigradi, che questo aumento si è realizzato negli ultimi 50 anni; se aggiungiamo a questo che la popolazione mondiale a inizio Novecento era di 1 mld 650 milioni e nel 2011 ha ampiamento superati i 7 miliardi; se teniamo presente che i paesi cosiddetti “emergenti” (Brics e altri) racchiudono più della metà della popolazione mondiale attuale e hanno iniziato il loro sviluppo industriale nell’ultimo mezzo secolo… abbiamo di fronte tutti i numeri della catastrofe prossima ventura… e delle sfide che una politica anti-capitalista globale dovrà affrontare. Perché al netto del pessimismo realistico qui sopa tratteggiato, non bisogna dimenticare che la specie umana ha rivoluzionato infinite volte il è proprio rapporto con l’ambiente e la biosfera e che anche oggi, nel clima cupo e apocalittico che ci sovrasta, i numeri per fare altrimenti ci sarebbero: tecnologia, intelligenza collettiva, capacità produttiva… eccetera, eccetera.

 

Sul tema del ‘climate change’ abbiamo fatto un’intervista con Andrea Bianconi, professore di Fisica Sperimentale all’Università Statale di Brescia

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da: radioblackout.org

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