Perché gli italiani credono alle bufale su Facebook
Ma allora perché così tanti utenti di Facebook ci sono cascati? Un gruppo di ricercatori delle Università di Lucca, Lione e della Northeastern di Boston ha cercato di inquadrare il ruolo e le dinamiche delle bufale diffuse da troll sul social network di Mark Zuckerberg proprio a partire dall’esperienza del dibattito online durante le ultime elezioni politiche italiane. Analizzando un campione di 2,3 milioni di individui distribuiti in 50 pagine Facebook divise in tre categorie – media ‘mainstream’, pagine di informazione alternativa e di attivismo politico – tra il 1 settembre 2012 e il 28 febbraio 2013, gli studiosi sono giunti a diverse conclusioni interessanti.
La più sorprendente riguarda il rapporto tra verità e menzogna nel dibattito pubblico su Facebook: a scambiare più spesso la satira e le bufale diffuse dai troll politici per fatti sono i lettori che frequentano maggiormente le pagine di «controinformazione». Ovvero, proprio quelli più critici dei media tradizionali; che li ritengono cioè più corrotti, manipolati e incapaci di dare notizie affidabili. «Abbiamo scoperto», si legge nella ricerca intitolata ‘Collective Attention in the Age of (Mis)Information’ (pdf), «che la maggior parte degli utenti che interagiscono con i memi prodotti dai troll è composta principalmente da utenti che interagiscono con le pagine di informazione alternativa».
Non solo. Nello studio, proseguono Luca Rossi, Walter Quattrociocchi e colleghi, «mostriamo che i pattern dell’attenzione sono simili di fronte a contenuti diversi nonostante la differente natura qualitativa delle informazioni, il che significa che le affermazioni prive di fondamento si diffondono quanto le informazioni verificate». I dibattiti scaturiti da ogni singolo post, misurati dalla distanza temporale tra il primo e l’ultimo commento, non fanno eccezione: permangono allo stesso modo «indipendentemente dal fatto che l’argomento sia il prodotto di una fonte ufficiale o meno».
Insomma, nel campione studiato le interazioni sociali sono complesse: «diverse culture coesistono, ciascuno in competizione per l’attenzione degli utenti». Il punto è che la diffusa scarsa considerazione delle notizie prodotte dai media tradizionali fa sì che «ogni tipo di processo di persuasione» sia «molto difficile, anche se basato su informazioni più affidabili». Il dibattito prodottosi in rete durante le ultime elezioni, in altre parole, si è sviluppato a prescindere dalla bontà delle notizie sulla cui base gli utenti hanno discusso. È questo il danno prodotto a partire dal cattivo giornalismo, e perpetuato da un’opinione pubblica incapace di fare lo sforzo per separarlo dal buon giornalismo.
Se il World Economic Forum del 2013 ha sottolineato che «la disinformazione digitale di massa» è «uno dei principali rischi per la società moderna», come si legge all’inizio del paper, i ricercatori tra le conclusioni confermano, aggiungendoci un vero e proprio allarme: «I risultati del nostro studio segnalano un pericolo concreto, dato che più il numero di affermazioni prive di fondamento in circolazione è elevato, più utenti saranno tratti in inganno nella selezione dei contenuti». Perché in rete, certo, è possibile reperire – accanto alla bufala – ripetute segnalazioni del suo essere bufala. Ma se i lettori non fanno lo sforzo per capire la differenza, l’esito non pare molto diverso dalla situazione prodotta dai precedenti mezzi di comunicazione, di gran lunga meno interattivi e aperti a refutazione.
Da parte sua, il fantomatico senatore Cirenga reagisce sulla propria pagina Facebook: «Continua questa indegna campagna di disinformazione basata su questo articolo pseudo-scientifico che parla della mia presunta non-esistenza», scrive. «Prego tutti i miei elettori passati, presenti e futuri di non lasciarsi influenzare dalle maldicerie della propaganda e di continuare a votarmi». Se i ricercatori hanno ragione, qualcuno l’avrà perfino preso sul serio.
Di Fabio Chiusi per Wired
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