Piazza della Loggia:40 anni di strage di Stato
La censura e i depistaggi. L’amnesia della città. Il mix tra fascisti, criminalità, carabinieri e Stato. Una nuova inchiesta a fumetti di Barilli e Fenoglio
Da Popoff di Checchino Antonini
«…ordiva fucilazioni e ordiva spietate repressioni… oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò nell’arco costituzionale. A Milano…». Il boato, qualcuno capì disse “la” bomba. La bomba fascista era esplosa proprio mentre il sindacalista aveva tracciato un ritratto di Almirante, leader del Msi proveniente dal governo repubblichino, ora statista a pieno titolo nel Pantheon delle larghe intese. Ma allora non era così: a livello di massa era chiaro che era un fascista e che i fascisti erano il nemico dei lavoratori e i complici ideali del padronato, legati a doppio filo alla criminalità organizzata e agli apparati dello Stato, a partire dai Carabinieri e dai servizi segreti.
Era così chiaro che per stroncare le aspirazioni a una vita più giusta per milioni di donne e uomini che vivevano solo del proprio lavoro fu messa in atto una guerra a bassa intensità che passerà alla storia come strategia della tensione: seminare terrore per legittimare la svolta autoritaria.
E il 28 maggio ’74, in Piazza della Loggia, a Brescia, andò in scena una di quelle stragi contro un’imponente manifestazione di lavoratori che scioperavano contro lo stillicidio di attentati fascisti. Alle 10.12 “la” bomba uccideva otto persone e ne feriva più di 100. Erano militanti politici appartenenti a diverse strutture organizzate dell’epoca (dai sindacati confederali ai gruppi extraparlamentari) scesi in piazza, quella mattina, con diversi cortei, tutti confluiti nella piazza principale della città per il comizio organizzato dai sindacati confederali e dal Comitato Antifascista. Il vice questore ordinò di lavare la piazza cancellando così la possibilità di raccogliere prove e quell’impasto tra ambienti neofascisti, imprenditoriali, istituzionali e militari sarebbe stata una costante di quarant’anni di processi.
La strage fu rivendicata da Ordine nuovo e, sebbene siano state incapaci di trovare i colpevoli, tutte le sentenze che si sono succedute dicono di una strage compiuta da settori del neofascismo che hanno potuto godere di salde collaborazioni da parte degli apparati di sicurezza e delle forze armate e di complicità istituzionali. Una strage di Stato da sempre governato dal Pd, pardon dalla Dc. La Cassazione ha appena stabilito che si debba ripartire dal via.
Il complicato excursus giudiziario, dodici processi vanificati dai depistaggi, è al centro della seconda parte dell’inchiesta a fumetti appena pubblicata di Francesco Barilli (mediattivista e collaboratore anche di Popoff) e Matteo Fenoglio, uno dei migliori esponenti della ligne claire italiana, della linea chiara mutuata dalla tradizione franco belga e applicata a questo genere di giornalismo. Anche il secondo volume di “Piazza della Loggia. In nome del popolo italiano” (BeccoGiallo 2014) è uno scavo sulle carte che si intreccia con il reportage sul campo, ricerche d’archivio e raccolta di voci che restituiscono con un racconto appassionato l’urgenza di verità e giustizia anche quando il processo sembra un processo ai fantasmi, ai rottami del passato. Come il primo volume, “Piazza della Loggia. No è di maggio”, l’inchiesta a fumetti è corredata di schede, note e cronologia rivelando la maturità del genere e della coppia di autori protagonista di un lavoro analogo su Piazza Fontana.
Tra i nomi dei personaggi coinvolti c’è un pezzo di storia d’Italia anche recentissima: dal generale Delfino a Ignazio La Russa, da Concutelli e Tuti a Ermanno Buzzi e Carlo Maria Maggi, fino alla fonte Tritone, ossia Maurizio Tramonte, unico imputato rimasto. E Pino Rauti, e il presidente di allora, Leone che venne cacciato dalla piazza il giorno dei funerali, da decine di migliaia di persone che ruppero il silenzio con lunghissimi fischi restituiti alla memoria collettiva dall’indimenticabile film di Silvano Agosti. I fischi laceranti, insistiti, venivano anche dalle vie laterali alla piazza invasa da polizia e gonfaloni e talmente piena che si faticava a respirare, coprirono le parole del sindaco della città, accolsero il presidente del Consiglio Rumor, il capo dello Stato eletto coi voti determinanti del Msi, e accompagnano gli esponenti dei partiti di governo durante l’intero tragitto da piazza della Loggia al cimitero. A fischiare furono gli operai della Pirelli, dell’Alfa Romeo, della Sit-Siemens, di una serie innumerevole di officine della Lombardia, del Piemonte, del Veneto e dell’Emilia. Ma scomparvero dai resoconti televisivi. Il revisionismo storico iniziò con questa censura e fu parallelo ai depistaggi.
«Abbiano cercato di sottrarre la strage a quell’alone di “mistero italiano” irrisolto e irrisolvibile in cui molti cercano di confinarla – scrivono gli autori nella loro postfazione – volevamo raccontare ciò che di certo è emerso negli anni; che non è tutto, ma è comunque molto. E cioè che, al di là degli esiti sul piano delle responsabilità personali, il dibattimento bresciano ha delineato come contesto storico un impianto inquietante e ricorrente,: un nucleo operativo dell’eversione neofascista, l’intesa con uomini dei servizi segreti. E soprattutto la copertura di apparati politici e militari».
Quarant’anni dopo, mentre si dipana il canovaccio delle celebrazioni ufficiali, spuntano i dati di un’indagine del Censis (commissionata e condotta grazie al supporto di Casa della Memoria, Ufficio Scolastico Provinciale, Cgil, Cisl e Uil) sulla memoria della città, della sua parte più giovane: ebbene, per il 37% degli studenti bresciani di 23 istituti superiori quella strage fu opera della criminalità mafiosa, il 29% crede sia una faccenda di terrorismo rosso e solo il 26% ipotizza la pista nera. Tutto ciò mentre dei 7mila studenti-campione, il 55% conosca l’anno della strage e la metà ricordi anche il numero esatto delle vittime.
E’ la bocciatura di massa di decenni di commemorazioni ufficiali fatte di parole vuote e del revisionismo storico delle classi dirigenti. La gestione ufficiale della memoria, a Brescia, è saldamente appannaggio del Pd. «Non a caso, oggi più che mai, il discorso costruito nel tempo dalle Istituzioni promotrici del calendario delle commemorazioni ufficiali tende ad eliminare il carattere conflittuale di questi avvenimenti storici – spiega la convocazione del corteo antagonista che, stamattina, s’è svolto in alternativa e in polemica con le commemorazioni ufficiali e ha raggiunto la piazza pochi minuti prima degli 8 rintocchi di campana – gli interventi che negli anni si sono susseguiti dai palchi dei vari incontri sul tema e della commemorazione in piazza ci hanno rappresentato un’ipocrita memoria condivisa, fatta di riconciliazione e di pacificazione, sostenendo che “i morti sono tutti uguali” e che di fronte a queste tragedie non possono esistere divisioni. Questa lettura è, invero, in continuità con la stessa strategia della tensione. Questa narrazione genera mistificazione e confusione sul piano storico-culturale, gettando nell’unico calderone del terrorismo e delle sue vittime fenomeni sociali radicalmente differenti come il terrorismo fascista, lo stragismo di stato e la lotta armata di sinistra. Una costruzione che ha trasformato le commemorazioni in liturgie, in una ritualità passiva utile a riprodurre immaginari e comportamenti compatibili. Compatibili con l’esistente governato da chi come Renzi, tra Jobsact e non-Piano casa, mentre smantella servizi e diritti sociali finge di restituire dignità alla memoria storica rendendo pubblici documenti di archivio che, in realtà, erano già accessibili alla magistratura».
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