Il cosiddetto “Protocollo Farfalla” non ha nulla a che  vedere con la trattativa Stato-Mafia. È stata invece una operazione di  intelligence, portata avanti in collaborazione con l’amministrazione  penitenziaria, per mettere sotto controllo le associazioni dei detenuti,  avvocati penalisti che esercitavano legittimamente la difesa dei  reclusi al 41bis e uomini appartenenti alla criminalità organizzata che  in rivendicavano i propri diritti di detenuti e protestavano contro il  carcere duro: un regime che gli organismi internazionali, e recentemente  anche Papa Bergoglio, considerano tortura.
Da un articolo del Sole 24 Ore, avente probabilmente come fonte  qualche membro del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui  servizi segreti, mentre sono in corso le audizioni proprio in merito al  “protocollo”, si apprende che la denominazione farfalla” si ispira al  nome dell’Associazione Papillon”: creata nel 1996 da un gruppo di  detenuti comuni nella casa circondariale romana di Rebibbia, con  l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie  nonviolente in collaborazione con movimenti politici sensibili alle  tematiche carcerarie, come i radicali.
Perché questa attenzione? Tutto è partito nel settembre del 2002  quando, su iniziativa della stessa Associazione Papillon, il mondo  carcerario – con la solidarietà dei movimenti libertari e partiti come i  radicali, i verdi, ed una parte di Rifondazione comunista – intraprese  una spettacolare protesta nonviolenta durata una settimana.
Nella piattaforma di protesta, condivisa da tutti i detenuti, c’era  la richiesta di indulto generalizzato di 3 anni (misura che avrebbe  consentito l’uscita dal carcere di circa 15 mila persone); il passaggio  della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale; la riforma  del codice penale; l’abolizione dell’ergastolo e la depenalizzazione dei  reati minori; l’abolizione degli articoli 4 bis e 41 bis, l’aumento  della liberazione anticipata a 4 mesi e un aumento delle misure  alternative.
Ci fu anche un’audizione parlamentare dell’allora vice presidente di  Papillon, Vittorio Antonini, detenuto politico a Rebibbia perché fece  parte delle Brigate Rosse, che diede voce in parlamento alle ragioni  della protesta.
A quella importante campagna di pressione del mondo carcerario  aderirono anche boss, come Leoluca Bagarella che con un proclama letto  in udienza denunciò la tortura del 41 Bis. Ed è qui che lo Stato  intravedeva un disegno “oscuro”, una regia unica che avrebbe collegato  l’ex terrorismo rosso (sebbene Antonini fosse il solo detenuto politico  ad aderire con forza alla protesta, mentre gli altri erano tutti reclusi  comuni) con la mafia.
Altro “campanello d allarme” fu il ritrovamento, nell’agosto del  2002, di un volantino di “Papillon Rebibbia Onlus”, al carcere di Novara  nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del  Vallo detenuto in regime di 41 bis. Tutta materia ghiotta, in teoria,  per il Sisde che ha dato vita, in collaborazione col Dap (guidato allora  da Giovanni Tinebra), alla famosa “Operazione Farfalla”.
I servizi monitoravano anche avvocati penalisti, soprattutto quelli  politicamente di sinistra, che difendevano i detenuti reclusi al 41 Bis.  Vittorio Antonini, raggiunto dal Garantista, dichiara che già all’epoca  c’era il sentore che i servizi segreti operassero, e soprattutto già  circolavano retro-pensieri su un presunto coinvolgimento della mafia.
“Si tratta di dietrologie strampalate, mosse dall’apparato repressivo  dello Stato – ci racconta Vittorio Antonini – già uscite sui giornali  nel 2002, durante un lungo e partecipato ciclo di proteste nelle carceri  promosso dalla Papillon-Rebibbia a partire dal 9 settembre e conclusosi  dopo la visita di Giovanni Paolo II in Parlamento, dove anche il Papa  tornò a denunciare la drammatica realtà delle galere”.
Poi Antonini prosegue dichiarando che “quelle dietrologie fecero  seguito alla nostra audizione davanti al comitato carceri della  commissione Giustizia della Camera, dove ribadimmo la validità della  piattaforma di lotta per la quale si stavano battendo decine di migliaia  di detenuti organizzati dalla Papillon-Rebibbia.
Una piattaforma che per la prima volta dopo dieci anni comprendeva  anche la richiesta di abolire l’ostatività sancita dall’articolo 4bis,  di abolire la pena dell’ergastolo per qualsiasi tipo di reato e di  metter fine alla situazione di tortura oggettiva che si era determinata  dopo il 1992 con 1 applicazione dell’articolo 41 bis a migliaia di  detenuti”.
Antonini spiega poi che “gli autori di quella geniale pensata  dietrologica erano evidentemente incapaci di comprendere le drammatiche  ragioni di fondo che avevano portato più di ventimila detenuti a seguire  le indicazioni di protesta della Papillon-Rebibbia.
E ancor meno compresero perché, già dai primi passi della protesta la  Papillon-Rebibbia denunciò e prese le distanze dai gruppi promotori del  movimento dei girotondi che per il 14 settembre del 2002 organizzarono  una grande manifestazione nazionale a Roma su contenuti che noi  definimmo una cultura tipica del populismo giustizialista  nazionalpopolare, nonostante la scellerata adesione a quei girotondi di  tanta parte dell’associazionismo e della sinistra sociale e politica,  compresa quella extraparlamentare e antagonista di molti centri sociali  delle principali città”.
Poi Antonini ironizza: “Visto che eravamo in compagnia degli amici  del partito Radicale e della stessa Chiesa cattolica, i dietrologi  potrebbero sempre divertirsi a cercare un qualche Grande Vecchio tra  l’amico Pannella, oppure Giovanni Paolo II o al limite Papa Francesco,  visto che ha avuto l’ardire di abolire l’ergastolo nel codice penale del  Vaticano e di denunciare la condizione delle nostre galere, compresa la  tortura oggettiva del 41bis”.
E conclude amaramente: “Siamo solo dispiaciuti che a dodici anni di  distanza quegli obiettivi di civiltà necessitano ancora  dell’organizzazione e della lotta, dentro e fuori dalle galere, dentro e  fuori dalle Istituzioni, per essere finalmente posti all’ordine del  giorno di un Parlamento e di un Governo che su questi temi sembrano  essere maestri in politiche palliative.
Ognuno deve fare la sua parte in questo tipo di battaglie, e per quel  che ci riguarda continueremo ad adoperarci affinché quei temi rientrino  nelle agende parlamentari e soprattutto entrino all’interno delle  piattaforme di lotta dei grandi movimenti sociali di protesta che oggi  si stanno piacevolmente risvegliando e riempiendo le piazze”.
Ad ogni modo il richiamo di Antonini al concetto di “dietrologia”  trova conferma dallo stesso sottosegretario Marco Minniti, così come  dall’ambasciatore Giampiero Massolo, i quali hanno assicurato al Copasir  che “l’operazione Farfalla” non portò a nessun risultato. Non trovarono  nulla. Rimane il fatto che però è stata condotta un’operazione di  spionaggio nei confronti di chi, alla luce del sole, intraprendeva delle  lotte o svolgeva il proprio lavoro come gli avvocati penalisti. Tutto  ammissibile in uno stato che consideriamo “di diritto”?
Un’altra domanda però è legittima. Se oggi è in corso un’altra  operazione di intelligence simile, visto che la lotta contro la  detenzione di tortura è ripresa e partecipano anche tanti ergastolani  ostativi, metteranno sotto controllo anche Papa Bergoglio perché si è  dichiarato contro il 41 bis?
“Protocollo farfalla”: salta audizione Tinebra
Il Copasir oggi non sentirà Giovanni Tinebra, capo del Dipartimento  dell’amministrazione penitenziaria dal 2001 al 2006. L’audizione,  saltata per problemi di salute dello stesso Tinebra, rientrava tra  quelle calendarizzate nell’ambito dell’indagine del Comitato sul  cosiddetto “protocollo farfalla”, accordo sottoscritto proprio in quegli  anni da Dap e Sisde per acquisire informazioni da detenuti al 41bis.
Oggi a palazzo San Macuto, nell’ambito della stessa indagine che si  concluderà con una relazione alle Camere, sono stati ascoltati per circa  tre ore i pm romani Erminio Amelio e Maria Monteleone, che proprio nel  2006 indagarono Salvatore Leopardi, capo del servizio ispettivo del Dap,  accusato di avere girato ai servizi – tagliando fuori l’autorità  giudiziaria – informazioni avute da un pentito della camorra.
Il processo (ancora al primo grado, e a rischio di parziale  prescrizione) va avanti – hanno spiegato i due magistrati – e la  prossima udienza è fissata per il 12 dicembre, giorno in cui dovrebbe  essere dato spazio ad alcuni testi della difesa. Giovedì il Copasir  sentirà intanto l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, e il  generale Pasquale Angelosanto, già collaboratore di Mori al Ros mentre  deve essere ancora stabilita la data dell’audizione del procuratore capo  di Roma, Giuseppe Pignatone.
 Damiano Aliprandi da Il Garantista