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Renzi si inchina ai frustatori di Riyadh

«Una volta che l’Italia è ripartita, il nostro obiettivo è renderla più solida nel mondo». Matteo Renzi usa il cantiere della nuova metropolitana di Riyadh per riproporre il ritornello dell’uscita dalla crisi. La visita ufficiale del primo ministro – accompagnato, guarda caso, dall’ad di Eni Descalzi e da quello di Finmeccanica Moretti – a re Salman ha un forte valore simbolico: se l’Italia è in cerca del suo posto al sole nel mondo, uno dei più proficui è sicuramente l’Arabia saudita. Un paese con cui – dice l’entourage del premier – discutere di business su gas e greggio, investimenti in infrastrutture e lotta al terrorismo.

Già, la sempreverde lotta al terrorismo. Quale terrorismo, però? L’Arabia saudita con cui Roma preme per fare affari è il paese campione della violazione dei diritti civili, sociali e politici basilari; il paese che condanna a decapitazione e crocifissione manifestanti anti-governativi e a mille frustrate blogger dissidenti (Ali al-Nimr e Raif Badawi, per cui Renzi ieri ha chiesto a re Salman la grazia); il paese al terzo posto nel mondo per condanne a morte – 151 dall’inizio dell’anno, il bilancio più alto dal 1995 – e quello in cui le donne non conoscono diritti.

È il paese accusato da anni di infiammare l’instabilità mediorientale foraggiando gruppi estremisti e quello che da marzo ha lanciato una guerra a senso unico contro lo Yemen. Lasciandolo in macerie: quello che Riyadh considera il proprio cortile di casa è un paese allo stremo. Oltre 5.600 morti, di cui la maggior parte civili, e 20mila feriti; un milione e mezzo di sfollati interni e centinaia di migliaia di rifugiati all’estero; 20 milioni di civili (l’80% della popolazione) senza accesso regolare ad acqua e cibo; ricchezze architettoniche uniche rase al suolo. Con l’aiuto fondamentale dell’Occidente che non solo ha benedetto a parole l’operazione militare, ma fornisce le armi necessarie al massacro. Armi statunitensi, europee e anche italiane: a denunciare l’invio di bombe tricolore a Riyadh sono Rete Disarmo, Amnesty International e Osservatorio Permanente sulle armi leggere (Opal).

Il 29 ottobre sarebbero partite tonnellate di munizioni e bombe dall’aeroporto di Cagliari e arrivate nella base militare di Taif. Tra queste, dice Giorgio Beretta di Opal, anche bombe Mk84 e Blu109, ritrovate in aree dello Yemen colpite dall’aviazione di Riyad. Non certo una novità: l’Arabia saudita è tra i principali compratori di armi italiane, così come gli Emirati Arabi, anche loro impegnati in Yemen e anche loro destinatari di armi italiane utilizzate poi nel paese. La “Tempesta Decisiva” scatenata da Riyadh aveva un obiettivo: frammentare lo Yemen per ribadire la propria supremazia, in contrasto con l’asse sciita guidato dall’Iran. In realtà, questa guerra per procura non ha mai visto l’intervento di Teheran: accusata di finanziare il movimento Houthi, contro la cui avanzata verso sud è stata lanciata una coalizione regionale, la Repubblica Islamica non ha mai voluto entrare nel conflitto. Dopo anni di rapporti non ottimi con gli sciiti Houthi, Teheran ha preferito rimanere in un angolo e vestire i panni del mediatore, chiamando più volte al dialogo proposto dalle Nazioni Unite e sempre rigettato dall’Arabia saudita per bocca del governo ufficiale del presidente Hadi, da Riyadh difeso.

E oggi? L’Arabia saudita si ritrova impantanata. Dopo aver costretto gli Houthi a ritirarsi da 5 province meridionali (tra cui la strategica Aden, città costiera che controlla lo stretto di Bab al Mandeb, collegamento tra il Golfo e Suez), i ribelli stanno tornando. Nel fine settimana hanno ripreso la collina sopra la base aerea di al-Anad e la città di Damt. Intanto continua, terribile, la battaglia di Taiz, da mesi teatro di massacri: sabato e domenica sono morte 50 persone, tra cui un’intera famiglia. Una città tanto strategica da far dire al premier yemenita Bahah, dall’esilio in cui il governo si è auto-recluso, che i tanto attesi negoziati partiranno proprio dopo la sua liberazione: «Siederemo al tavolo del dialogo con loro dopo la battaglia di Taiz».

Nelle stesse ore, però, il ministro degli Esteri Riad Yassin accusava gli Houthi di mancanza di serietà rispetto ai negoziati di Ginevra sponsorizzati dalle Nazioni Unite. Eppure sono ormai settimane che i ribelli si dicono pronti ad accettare la risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza Onu (ritiro dalle zone occupate e abbandono delle armi), ma a chiudere loro la porta in faccia è Riyad che non vuole alcun accordo. Vuole lo Yemen, quello che da decenni amministra e gestisce e che non intende dividere con nessuno: per questa ragione il governo e l’Arabia saudita non hanno mai aperto alle legittime richieste della comunità Houthi di maggiore inclusione politica. Hanno preferito devastare il paese.

 

Chiara Cruciati –  il Manifesto

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