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Sante Notarnicola e «Il Fatto» calibro 9

Non si sceglie il periodo storico di appartenenza ma si scelgono le storie che ci appartengono. Ho conosciuto Sante Notarnicola, da lontano. Sono infatti nato alla fine di un’epoca (era il 1977), non ho mai militato in qualche organizzazione, mai stato in carcere, mai passato per Bologna, dunque mai frequentato il Mutenye di via del Pratello, gestito da Sante fino a poco tempo fa. Ho fatto la conoscenza di quest’uomo, che oggi mi onora della sua amicizia, per motivi di studio e la sua vicenda biografica è divenuta un’ucronia della mia. Studiavo Primo Levi quando incontrai il nome di Notarnicola, di cui ignoravo l’opera in versi. Dal nostro scambio di opinioni e ricordi, immagini e silenzi nacquero un saggio, pubblicato nel 2012 su «Letteratura & Società», e un volume di poesie (ma anche, se vogliamo, libro di storia), L’anima e il muro, uscito per Odradek, l’anno successivo. Ho visto Sante una volta sola, gli ho parlato spesso al telefono, lo faccio ancora. Scrivo dunque a mio nome, non ho interessi da difendere. Non ho fedi di alcun tipo, non sono un giustizialista né un perdonatore; il male per il male l’ho incontrato, ne sono stato parte lesa e nessuna giustizia ha potuto risanarmi. Nessuna retorica consolarmi. Non credo nemmeno alla Storia guaritrice, alla Storia magistra; semmai, nella necessità della contestualizzazione ed anche qui nutro qualche riserva. Per tutte queste ragioni, delle vittime innocenti io non parlo: il loro dramma mi sovrasta.

Non sembra invece dello stesso avviso il dottor Emiliano Liuzzi, del «Fatto Quotidiano», che in un articolo-intervista a Sante Notarnicola del 22 dicembre 2014 – due giorni dopo che il suo stesso giornale aveva pubblicato una chiacchierata colma di pietas con Pierluigi Concutelli – si spende in un montaggio ad arte, arricchito da una copertina che sembra uscita da un noir di Giorgio Scerbanenco (tipo, I milanesi ammazzano il sabato), per dimostrare che Notarnicola è-stato-dunque-è-ancora un feroce assassino e un pericoloso sovversivo («Irrecuperabile», direbbe lo stesso Sante). E ne parla così, come si trattasse di Totò e Aldo Fabrizi col fiatone, in Guardie e ladri.

Tuttavia, il pezzo, a un ascolto attento, centra l’obiettivo: mostrare la scarsa conoscenza della vicenda storica italiana da parte del suo autore. Eh, già. Perché le cose non sono andate esattamente come le racconta il «Fatto Quotidiano» (testata pur pregevole sotto l’aspetto del giornalismo investigativo). Perché quello alla Banda Cavallero – che non fu semplicemente espressione della “mala” ma un progetto ante litteram di lotta armata – fu uno dei primi processi mediatici non solo a quattro uomini imputati per gravi crimini ma a tutto un sentimento di dissenso sociale che di lì a pochissimo sarebbe esploso ufficialmente. Perché se esiste una bibliografia sulla “terribile” banda (che non aveva «luogotenenti», come sostiene Liuzzi), ne esiste un’altra sull’imbarazzante impostazione dello “strano processo”, messo su in otto mesi e sostanzialmente replicato negli appelli successivi. Consiglio al dottor Liuzzi – e a chi volesse – di leggersi i libri dell’avvocato (e in un certo senso della storica) dottoressa Bianca Guidetti Serra: li troverà più istruttivi e forse anche più complessi che propinare balle a lettori sprovveduti. Perché se esiste il fischio delle pallottole, esiste anche il fuoco “amico”, circostanza mai chiarita del tutto per quanto riguarda il famigerato inseguimento-sparatoria del 23 settembre 1967: entrambi producono morte ma l’uno lo chiamiamo omicidio, l’altro, effetto collaterale.

Perché poi ci fu il carcere. Parola che sintetizza un mondo ancora sconosciuto e che in sé contiene mondi. Il carcere dell’Italia appena uscita dal boom e di questo supposto boom stupefacente antitesi. Il carcere col “bugliolo” per gabinetto, le celle d’isolamento sotto terra e solo la Bibbia ammessa; di quelli in cui dovevi barattare l’ora d’aria con la possibilità di scrivere una lettera; di quelli in cui un secondino poteva venire a dipingerti lo spioncino per non farti vedere nemmeno un lembo di corridoio). E ci furono le ribellioni, il movimento dei “dannati della terra”, sulla scorta del libro di Fanon. Ci fu il ’68 e la risposta della Stato a piazza Fontana; ci fu Lotta Continua, la nascita delle BR, l’ottenimento della Riforma carceraria del ’75 (a proposito, lo sapeva, dottor Liuzzi, che la battaglia per avere il fornelletto scalda vivande costò tre detenuti carbonizzati?), ci furono i Nap, i continui trasferimenti da un carcere all’altro. Ci furono i libri di Sante: tre! (Li ha sfogliati, dottore?). Venne l’affare Moro e il carcere speciale, l’articolo 90 (oggi usiamo il nome più dolce di 41 bis) e i colloqui col vetro e la posta censurata… altro non potrei riassumere su un’esperienza limite che non ho vissuto. Trent’anni, non pochi, ne converrà. E in questi trent’anni ci furono dissociazioni e frammentazioni, repressioni e rappresaglie, spirali di violenza che sembrava infinita. Non voglio almanaccare il ventennio che va dal ’69 alla metà inoltrata degli anni ‘80, ci sono ottimi libri, dottor Liuzzi, anche scritti da storici non comunisti. Anche perché questa storia, a volerla raccontare per intero, dovrebbe partire almeno dal biennio ’43-’45. Troppo in là, anche per «Il Fatto Quotidiano», evidentemente. Da ultimo, c’è l’uscita. Non, forse, la libertà. Crede infatti davvero, dottore, che sia il caso di chiamarla tale? L’evasione è impossibile, se ci hai lasciato mezza vita e probabilmente un numero considerevole di affetti. In uno dei suoi più efficaci versi, Sante scrive: «Imprigionati qui/noi viviamo, sapete?».

Ma tutto questo nel suo articolo non c’è. I racconti che Sante le ha fatto sono stati abortiti, cestinati, censurati è il termine esatto e ironicamente consono. Perché? Ne avevate davvero bisogno, lei o la sua redazione? Quel riferimento alle BR di cui Sante, in carcere, si sarebbe “innamorato”, colpisce per inesattezza e anacronismo. Se Sante fu considerato una sorta di precursore della lotta armata – “terrorismo” non è infatti il termine che usano gli storici di quegli anni, “terroristi” con l’aggiunta di “badogliani” erano anche i gappisti per le SS di stanza a Via Tasso ma noi oggi non li chiamiamo quasi unanimemente “partigiani”? – un precursore, dicevo, nonché un veterano delle rivolte dei detenuti e inserito nella famosa lista dello scambio, non le pare risibile, dottor Liuzzi, nell’Italia di oggi, nell’Italia dei Carminati e della lunga durata dell’eversione nera legata a politici e finanzieri, tirare in ballo le Brigate Rosse? Non eravamo tutti d’accordo sulla rimozione di quella storia? Uso politico del passato: quale irresistibile tentazione! No, un articolo come questo non è frutto di inconsapevolezza come ironicamente scrivevo all’inizio. È un’operazione in malafede che non rende omaggio alle vittime né pace ai familiari. Né insegna nulla alle tanto corteggiate e insieme disconosciute nuove generazioni. Io non ho preconcetti verso di lei, dottor Liuzzi, ma mi sfugge altro movente del suo reportage bolognese che non sia quello di perpetuare la verità imposta da ogni regime, de jure e de facto. Verità che George Orwell ha profeticamente sintetizzato nella formula: «L’ignoranza è forza».

Daniele Orlandi

da Carmilla OnLine

Nota: Audio e video di alcune presentazioni di L’anima e il muro a Bologna, Pisa, Reggio Calabria, Roma, e l’introduzione di Erri De Luca alla Odradek, sono disponibili in rete.

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