SMETTO QUANDO VOGLIO di Sydney Sibilia, 2014
Alleluia! diremmo se fossimo credenti. Finalmente un piccolo film italiano, di un giovane regista, che non si presenta con un film d’autore, ma con una commedia, senza pretese artistiche e sociologiche, senza attori alla moda, e soprattutto senza “giovani”.
Sì, perché Smetto quando voglio parla di quelli che oggi hanno 40 anni, che hanno sempre studiato, che hanno sempre in qualche modo lavorato, ma che non possiedono nulla, oltre ai debiti. Quelli a cui il futuro è stato rubato vent’anni fa. E bisognerebbe chiedersi come mai abbiamo dovuto attendere l’arrivo di regista trentenne perché si raccontasse la loro storia. Che non è solo quella dei call-center, perché la realtà dello sfruttamento è sempre più complessa di quanto vorrebbero le anime belle.
La trama del film è semplice: un gruppo di laureati, geniali ma assolutamente “sfigati”, chi in cerca di lavoro, chi appena licenziato, chi costretto a vivere di espedienti, chi sottopagato, si riunisce e decide di dare una svolta alla propria esistenza. Grazie alle competenze scientifiche di un paio di loro, viene sintetizzata la formula della “miglior smart-drug mai realizzata”. Una vera “bomba”. Il gruppo inizia così a produrre e spacciare lo stupefacente in varie discoteche romane. La voce si sparge. Tutti vogliono quella pasticca, e la “banda”, in breve tempo, diventa ricca e “famosa”. Tutto sembra andare per il meglio, finché a un certo punto, com’è ovvio, le cose prendono un’altra piega.
La scelta è forte. Spacciare droga e creare dipendenza, per fare soldi, è una di quelle cose che non si possono che condannare. E su questo piano, il film non lascia dubbi. Anzi, è persino sorprendente nella presa di posizione. Eppure, nonostante questo, nel corso della visione, non si può che parteggiare per questi improbabili criminali. Perché è chiaro sin da subito che il discorso è un altro. Il discorso è che non si può andare avanti facendo la vita che la banda conduceva prima di iniziare a spacciare. Non si può vivere tutta la vita con 500 euro al mese.
C’è una sequenza in cui il protagonista del film, Pietro, e la sua compagna, cenano con la pasta al pomodoro nel loro appartamento. Quello che vediamo messo in scena è un breve dialogo su una lavastoviglie. La cosa che ci ha colpito è stata la scenografia. Magari non era nemmeno così centrale per gli autori, ma quell’appartamento, quella tavola apparecchiata, quegli arredamenti, esprimevano dignità. Vi si trovava tutto l’indispensabile, l’essenziale, il minimo che una persona o una coppia potrebbero desiderare. Ma quel poco era valorizzato, vivacizzato, impreziosito dalla cura che abbiamo immaginato gli riservasse la coppia: quella casa ci sembrava più bella e più grande di quello che era in realtà.
Qual’è il punto? Il punto è che la scena ci fa capire che quel minimo, quell’essenziale e indispensabile è il massimo a cui è oggi ci è consentito aspirare. L’altro punto è che quella dignità, il minimo a cui ognuno avrebbe semplicemente diritto, è precaria, debole, fragile. Un contratto non rinnovato, una spesa imprevista, e tutto crolla. La miseria e l’indigenza sono lì, dietro l’angolo, reali e concrete.
E’ solo un dettaglio della scenografia, la ricostruzione di un ambiente, ma è significativo. E’ lo sfondo su cui poggia la narrazione, e ciò che la rende credibile. Quelli che in altri film è contorno, qui è sostanza. Il regista, per una volta, pare raccontare qualcosa che conosce.
Ritrovare tutto questo dentro alla commedia di un esordiente, che a differenza dei tanti tromboni sponsorizzati dall’establishment “culturale” ha dichiarato che il suo obiettivo era solo quello di farci divertire, non è poco. Chi ha smesso di credere alle favole, non farà fatica ad identificarsi con la condizione umana rappresentata sullo schermo. E ridendo, sorridendo, e un po’ pensando, potrà riflettere sulla propria.
Due parole sulla scelta degli attori. Nessun nome di “garanzia”, nessuna stellina lanciata dalla tv, nessun idolo dei teenagers (ok, c’è Neri Marcorè, che è famoso, ma fa giusto una particina). Eppure il film commercialmente sta funzionando. Fra i molti motivi, anche perché sostanzialmente è ben recitato. Fra gli attori, oltre a Edoardo Leo (che interpreta Pietro-Il neurobiologo) e Stefano Fresi (Alberto-Il chimico) non possiamo non citare Libero De Rienzo, il miglior attore italiano della sua generazione, un talento puro, che anche questa volta, nel ruolo di Bartolomeo-L’economista, non delude.
Smetto quando voglio è dunque un felice esordio, perché si mostra per quello che è, e perché dimostra che sotto la superficie del racconto, se si ha qualcosa da dire, la complessità può emergere.
In forma semplice, ma onesta. Segno che il regista e gli sceneggiatori hanno saputo guardarsi intorno, oltre che dentro sé stessi, con quel po’ di umiltà, oltre che lucidità, che raramente è presente in altre ben più costose e celebrate commedie cinematografiche italiane.
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