Splendore e caduta di un butronero
Dieci anni fa veniva arrestato Flako, più noto come “il Robin Hood di Vallecas”, insieme alla sua “banda delle fogne”, un gruppo di rapinatori che eseguiva espropri bancari non mediante l’utilizzo di armi e violenza ma attraverso lo studio delle mappe urbane e la tecnica del butrón, quel buco praticato normalmente su un muro che permette l’accesso ai luoghi dove le banche nascondono i propri tesori.
L’intervista che segue è stata fatta da Juan Losa e pubblicata in castigliano su Público il 22/01/2019. La fotografia di copertina è di Jario Vargas.
“La prima volta che ho visto uscire mio padre da un tombino con 23 milioni di pesetas ho capito che un giorno anch’io avrei rapinato una banca”. Quello che parla è Flako, ribattezzato anni fa il Robin Hood de Vallecas, ultimo erede di una stirpe di butroneros (“buconeri”) che ha fatto diventare le fogne di Madrid il proprio salvacondotto per il viaggio “da Vallekas al cielo”, così come è scritto nella dedica di Esa maldita pared (Quel maledetto muro – Libros del K.O., 2019). Un viaggio che, ça va sans dire, non finisce lì. Una volta portato a termine l’assalto al cielo, zeppo di banchetti e baldoria e finanziato con mazzette di banconote esentasse, sono arrivati anche il carcere e l’isolamento. La polizia ha accusato Flako di ben sette rapine. Ha scontato condanne soltanto per due di esse.
“Contrariamente a quanto pensa la maggior parte della gente, sotto la città non c’è (soltanto) merda. Nelle fogne ci sono anche le porte segrete verso l’oro”, afferma Flako. Effettivamente, dietro quel primo strato di acque fecali, resti di cibo, preservativi, scarafaggi spensierati e ratti spavaldi, si nascondeva l’Eldorado di Flako e la sua cricca. Una metodologia di esproprio bancario che è stata sintetizzata tempo fa da tale Spaggiario (massimo esponente del buconerismo francese) in una famosa scritta: “Sans arme, sans haine et sans violence” (“Senza armi, senza odio e senza violenza”), motto che Flako avrebbe seguito alla lettera nelle sue spedizioni sottoterra nelle banche del Barrio di Salamanca [il quartiere più abbiente del centro città madrileno, ndt].
“Un butrón non è altro che una rapina originale, qualcosa che va oltre al fare irruzione in un benzinaio mentre si urla con un machete in mano: ha un che di romantico…”, spiega l’ex carcerato con un mezzo sorriso. “Ha anche qualcosa di professionale – rimarca il suo editore, Emilio Sánchez – , perché necessita della conoscenza di una serie di discipline che confluiscono in quello che potremmo chiamare ‘mestiere’”. Una sorta di istruzione da istituto tecnico non regolamentato che Flako, quando era ancora un bambino, a inizio anni Novanta, ha ricevuto dal tandem formato da suo padre – il Peque di Vallecas – e il socio inseparabile Ricardo. “Si completavano a vicenda: mio padre era impulsivo e spigliato, Ricardo invece era quello che aveva la tecnica”.
Teoria e pratica del butrón
Conoscenze di meccanica, idraulica, muratura e disegno, un po’ di cultura – la cartina stradale di Madrid e la sua storia – e molta furbizia. Un piano studi che Flako ha assorbito velocemente, prima come apprendista – “ho iniziato facendo lavori di sorveglianza a poco più di 15 anni” –, poi come borsista sotto la tutela di Ricardo dopo il decesso di suo padre, e infine con il suo debutto come direttore del colpo nella filiale della banca Santander situata al civico 74 della Calle de Alcalá. Anni di teoria che sono confluiti in quell’epifania imparagonabile, quella che ti porta ad alzare un tombino dalle profondità, sporgere la testa e imbatterti faccia a faccia con il muso di Fernando Alonso nella pubblicità di un piano di risparmio a zero commissioni. “Non ci potevo credere […] Eravamo dentro alla banca”, racconta Flako in Esa maldita pared.
“La chiave di tutto è nel tombino santo”, continua l’ex butronero. “Credi che sia semplice?” – domanda Flako al giornalista – “Prova a cercare a Madrid un tombino che sia abbastanza nascosto e lontano dall’andirivieni urbano da riuscire ad entrare e uscire senza essere visti, ma che allo stesso tempo ti colleghi con il succo attraverso le fogne; cercalo, vediamo se ne trovi uno che quando lo apri non abbia 18 metri di profondità praticamente senza scale”. È chiaro che, prima dell’obiettivo da rapinare, prima ancora del percorso da seguire, bisogna trovare la porta di entrata e di uscita. “Un tombinosanto va rispettato, non si fanno cazzate. È più difficile trovare un tombino che una banca. Di banche ce ne sono tante, migliaia; tombini santi, pochi”, afferma nel libro.
Eroe del proletariato o bandito
Il soprannome gli è stato imposto. La fantasia di un qualche giornalista lo ha fatto diventare il Robin Hood di Vallecas. Un paio di riferimenti a Bárcenas e Botín durante gli scontri con gli impiegati meno collaborativi gli hanno dato un’appellativo che, secondo il suo editore, va ridimensionato: “No, Flako non è il bandito dei poveri, far credere qualcosa del genere sarebbe dare una spiegazione troppo sofisticata, credo che la sua figura vada deromantizzata. Flako ha speso il suo bottino andando a cena, viziandosi e facendo dei viaggi”.
“Io sono un milleurista, proprio adesso sono appena arrivato dal lavoro, le mie mani hanno ancora odore di resina”, indica Flako. “Il punto è che mi è sempre piaciuta questa doppia vita. Durante un periodo, quando ancora facevo magheggi per strada, andavo al mio lavoro da amministrativo con i dockers, le scarpe nautiche, la polo di qualche marca cara e nello zaino portavo 50 grammi di cocaina da vendere”. Dichiarazioni pesanti che il suo agente ci tiene a sintetizzare: “Fattorino di pesce di giorno e rapinatore di sera: Flako gioca molto con quest’idea”. Un dottor Jekyll e Mr Hyde in versione suburbana, due facce della stessa moneta che Flako usa a piacere anche grazie ad una maschera bianca a metà fra Il fantasma dell’opera e la fototerapia per l’acne. “Mi metto la maschera e sono Flako, me la tolgo e vado a prendere mia mamma all’Auchan dove sta comprando dei succhi per mio figlio”.
Al carcere con Txeroki
Flako e la sua banda vengono sorpresi mentre scappano dopo aver fatto irruzione nella succursale Bankia della Calle Marcelo Usera di Madrid e aver ricavato un bottino di 66.300 euro. Quello sarebbe stato il loro ultimo colpo. Appena due giorni dopo sarebbe nato suo figlio Danilo. Flako riceve la notizia in una cella di Cuatro Caminos, ha la bocca cucita e la testa aperta conseguenza dell’arresto, puzza di merda di fogna e di sudore. La sconfitta era completa. Il suo passaggio in carcere era garantito e, visto il polverone mediatico suscitato dalla cosiddetta “banda delle fogne”, il suo leader doveva ricevere una punizione esemplare. E così è stato. La sentenza di primo grado è stata eseguita e Flako è stato incluso nel FIES [Fichero de Internos de Especial Seguimiento, Database di Carcerati di Seguimento Speciale che comporta un regime simile al 41bis, ndt].
“Non avrei più potuto svegliarmi in mezzo alla notte, andare in frigo, prendere un brik di latte fresco o bere un bicchiere di acqua, o mangiare una fetta di affettato in piedi illuminato dalle luci del frigo”. Con queste parole descrive Flako la fine della sua libertà: prosaico a morte, azzeccato e senza artifici. Una voce narrante che si è indurita dietro alle sbarre a forza di letture consigliate. Come quella che un giorno gli ha dato Mikel Garikoitz, capo dell’ETA nel 2008 e più noto come Txeroki: “Mi ha prestato Oltre le scale di Lorrie Moore, mi chiamava ‘Flakito’ e mi aiutava ogni volta che poteva, mi chiedeva spesso delle mie avventure: porcodio Flakito, ma come ce la facevi, mi diceva”.
Altri consigli letterari sarebbero arrivati da Elías León Siminiani, regista di Cantabria con cui Flako ha stretto amicizia dal carcere, amicizia che avrebbe prodotto Apuntes para una película de atracos [Appunti per un film di rapine], pellicola che ha ricevuto il premio per miglior documentario all’ultima edizione dei Goya [premi più prestigiosi del cinema spagnolo, ndt]. Un avvicinamento alla figura di Flako di cui troviamo l’origine in quei fogli che ha iniziato a riempire in modo compulsivo nella sua cella di isolamento: “Scrivevo con rabbia […] Scrivevo senza pensare che un giorno tutto questo sarebbe stato letto da qualcuno, mi sfogavo in modo brutale e cercavo di dare forma ad una scrittura senza coda né capo”.
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