Ultras, quando il demone fa comodo a tutti
Signore e signori, è tornato! Ecco a voi il demone flessibile dell’italica società dello spettacolo: l’ultrà.
Rimpiazzato da ben più efficaci spauracchi, come l’emergenza “clandestini” e gli incubi della crisi permanente, confinato nel web, espropriato dei suoi gadget divenuti ormai costosi reperti da collezionismo, istituzionalizzato da tessere e carte di credito, il folks devil della fine del secondo millennio sembrava destinato a essere mummificato nei musei delle sottoculture giovanili. Invece è tornato alla ribalta durante una difficile nottata capitolina, una storiaccia che forse neanche il genio del regista Quentin Tarantino sarebbe mai riuscito a concepire. Il demone ultrà è stato resuscitato per la gioia del premier Renzi e del ministro Angelino o’ mazzulatore Alfano, che adesso possono volteggiare nei cieli italiani in divisa da superman, rassicurare vecchiette, garantire il ritorno alla normalità.
Già, la voglia di normalità: il sogno impossibile del paese Italia, quel sentimento di stizzito stupore che stimola la maggioranza perbenista a strabuzzare gli occhi in concomitanza di eventi delittuosi prevedibilissimi, eppure solo ipocritamente sorprendenti. Quella normalità che è improbabile per chi vive le periferie, inverosimile nei quartieri degradati e socialmente velenosi delle nostre città. Lo avrebbe previsto pure un bambino che prima, durante e dopo la finale di coppa Italia sarebbe potuto scoppiare un macello. Ultras romani e napoletani si scambiano dispiaceri da oltre un decennio: agguati all’arma bianca, scontri, duelli più o meno leali. Lo sanno tutti. Possibile che il signor Carlo Bonini non l’avesse previsto? Lui che è sempre informatissimo sui rapporti redatti dai servizi segreti in materia di ultras? Lui, l’autore del romanzo ACAB, il cui prologo descrive una feroce scena di caccia all’uomo tra napoletani e romanisti in autostrada? Forse Bonini no, ma i servizi segreti avevano previsto tutto, se è vero come è vero che fino a tarda notte hanno sfoderato somma prontezza nell’imbavagliare l’informazione, cancellando la verità su movente, esecutori e dinamica degli scontri avvenuti all’esterno dell’Olimpico. Chissà, forse l’avranno fatto per prevenire rappresaglie reciproche e ulteriori spargimenti di sangue. Rimane però evidente che l’efficienza da loro dimostrata, ne conferma il grado di elevata consapevolezza.
Non è semplice capire cosa sia avvenuto dietro le quinte. E sul palcoscenico? Tutti col capo cosparso di cenere, adesso. Tutti impegnati a costruire nuovi parafulmini e spaventapasseri, a spazzolare il sacrario nazionale dei servitori della nazione, a ribadire che lo Stato italiano ha trattato con chiunque (mafia, servizi segreti stranieri…), ma mai tratterà con sovversivi e ultras. “Non bisognava parlare coi tifosi”, ha dichiarato Renzi. “Nei confronti del capo ultrà del Napoli stiamo già procedendo”, ha precisato il questore di Roma. E le responsabilità? Ma è ovvio: sono tutte della maglietta “Speziale libero”. Poco importa che in carcere un ragazzo catanese continui a urlare la propria innocenza. E che il suo avvocato si stia apprestando a chiedere la revisione del processo da cui è uscito con una condanna per l’omicidio del poliziotto Raciti. In Italia certe verità istituzionali diventano atti di fede, dogmi. In quanto tali, sono indiscutibili. Pensiamo alle stragi di Ustica, piazza Fontana e i Georgofili. S’è deciso che Raciti è stato ammazzato da un ultrà. Punto e basta. Chiunque osi metterlo in discussione, sarà mandato alla gogna, punito, tacciato di essere un nemico pubblico. Anche a costo di seminare nuovo odio, di infondere quel sentimento di indignazione dinanzi all’ennesima ingiustizia perpetrata da uno Stato fondato sul principio dell’emergenza e della deroga al Diritto.
Sì, ma le responsabilità politiche di quanto è accaduto sabato scorso? “Oh, ancora con questa storia. Sembra d’essere tornati al postG8 di Genova”. Le responsabilità politiche, in Italia, sono materiale da sociologi o storici del crimine. Se ne occuperanno loro, magari tra due o trecento anni. Per il momento, è più importante arrestare un po’ di demoni, spalancare le porte catartiche delle aule di giustizia, rasserenare le famiglie, riportarle allo stadio (chissà perché poi dovrebbero andarci per forza). Il resto sono soltanto dettagli. È un dettaglio il fatto che negli ultimi venti anni è stata esercitata una forza brutale per reprimere gli ultrà. I ministri Amato, Pisanu, Maroni e Alfano hanno partorito leggi speciali degne della fase più calda degli anni settanta. Stadi trasformati in bunker, tornelli, metal detector, telecamere a circuito chiuso, trasferte vietate, obblighi di firma per decine di migliaia di persone, arresti in differita, striscioni e fumogeni vietati, superpoteri ai questori, biglietti nominativi, tessere del tifoso, pestaggi e cariche, gas intossicanti. A nessuno viene il sospetto che tutto ciò non solo non sia servito, ma abbia contribuito a inasprire la violenza intorno agli stadi, disgregando i gruppi storici, separando le nuove generazioni dalle vecchie, trasformando molte curve in centri commerciali e milizie.
Certe armi hanno sempre circolato intorno agli stadi. La vera novità sarebbe rappresentata dall’uso di una pistola. Si preferisce invece puntare l’attenzione sul capo ultrà, sulla sua maglietta galeotta, insomma su tutti tranne che sulle forze politiche ed economiche che hanno voluto smantellare le tradizionali forme del tifo organizzato. Non rimane traccia delle relazioni scritte dai servizi segreti a cavallo tra lo scorso decennio e quello odierno. Ravvisando la possibilità che il mondo delle curve potesse impegnarsi in insorgenze sociali simili a quelle che sarebbero avvenute nelle piazze della primavera araba, gli apparati di sicurezza hanno prescritto la terapia della sterilizzazione preventiva. Così, a colpi di repressione, feriti e morti ammazzati, hanno spinto i gruppi organizzati verso una deriva senza via d’uscita. Ecco perché i proiettili di sabato scorso dovrebbero fare riflettere. È vero che le armi sono sempre esistite intorno agli ultras, ma l’uso di pistole negli scontri, è una novità. E non è forse anche conseguenza della militarizzazione degli ultimi anni?
Ma ci sono responsabilità anche in basso: gli ultras potevano invertire la rotta quasi due decenni fa, dopo la tragedia di Claudio Spagnolo a Genova, magari lanciando una tregua generalizzata, e cercando nuove forme per esistere. Tuttavia, gli apparati di sicurezza dello Stato italiano hanno fatto di tutto per impedire qualsiasi sbocco “politico” del fenomeno ultrà. Non è casuale che curve come quella della Fiorentina, un tempo occupate da gruppi e soggetti che fungevano da punto di riferimento per migliaia di ragazzi, oggi appaiano in preda al disordine interno. E che curve come quelle del Napoli, in passato ingovernabili, siano invece diventate più monolitiche di certi movimenti carismatici.
E il contesto esterno agli stadi? Quello continua a essere speculare a quanto accade al loro interno. In Italia tutti diventano ultras, quando si tratta di gestire il rapporto con gli ultras. Saviano diventa ultrà della camorrologia. Vede la camorra ovunque: su Marte, nel Vesuvio, in Cina. Ci mancherebbe che non fosse pure tra gli ultras. L’ultramoderato Fassino sfodera il ditino medio nel bel mezzo di una commemorazione funebre. E Angelino o’ mazzulatore? Essendo un ultrà della polizia, si prepara ad assestare nuove mazzate, spacciandole per rimedi efficaci. In realtà, se si volesse comprendere con chiarezza quanto è accaduto a Roma intorno alla finale di coppa Italia, basterebbe dare una buona lettura a quanto scriveva Valerio Marchi nel suo libro “Il derby del bambino morto”, nel 2005, a proposito di violenza e ordine pubblico nel calcio. Nella liquidità del tempo presente, è penosamente scontato il comportamento di una folla assediata, assediante, in stato d’assedio.
Di Claudio Dionesalvi per Commonware
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