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Una macchia indelebile: l’invasione degli sponsor sulle maglie del calcio

Così, tra il 1978 e il 1981, furono profanate e rovinate per sempre le maglie delle maggiori squadre calcistiche italiane

Ve lo immaginate il nome di un marchio di jeans “da battaglia” sulle maglie del Milan? E quello di un’azienda vinicola locale a conduzione familiare sulle maglie del Toro? Non c’è bisogno di chiudere gli occhi e provare a immaginare un futuro impossibile, ma al contrari basta aprirli, sfogliare gli album Panini e tuffarsi nel passato, precisamente nella stagione 1981/82, quella che di fatto aprì alla sponsorizzazione di massa delle maglie delle squadre di calcio italiane. Alcuni club siglarono sponsorizzazioni storiche e pluriennali con veri e propri colossi economici, tanto che ad un certo punto veniva quasi automatico associare ad una maglia il nome dello sponsor o viceversa. È il caso della Roma e della pasta Barilla, che andranno a braccetto per 13 anni dal 1981 al 1994, o della Juve e di Ariston (8 anni dal 1981 al 1989).

Ma il 1981 regalò anche accoppiamenti bizzarri. Marchi semisconosciuti come la Pooh Jeans o la Barbero presero possesso rispettivamente delle maglie del Milan (una cosa impensabile solo cinque o sei anni più tardi) e del Torino. Solo per fare alcuni esempi la sconosciuta Cook O’Matic si guadagnò il petto dei giocatori del Catanzaro, la Pop 84 appose il suo nome contemporaneamente sulle maglie di Ascoli e Sambenedettese (non proprio una grande mossa considerato l’odio atavico tra le due città e le due tifoserie) e i Fratelli Dieci, con i loro macchinari agricoli, misero il nero sul bianco delle maglie del Cesena.

Ma vediamo come siamo arrivati alla stagione che per molti ha segnato il cambio di un’epoca e gettato le basi del cosiddetto “calcio moderno”.

Una cosa ben peggiore degli sponsor sulle maglie si visse negli anni ’50. Alcuni club calcistici fusero il proprio nome con aziende o prodotti dei più vari: Simmenthal Monza, Ozo Mantova, Sarom Ravenna Zenit Modena e perfino Talmone Torino, un abbinamento messo in piedi nella stagione 1958-1959 tra i Granata e l’azienda dolciaria piemontese che culminò con la prima retrocessione della loro storia, nel decimo anniversario della strage di Superga. L’esempio più fortunato e longevo rimane quello del Lanerossi Vicenza, risultato della fusione tra la squadra vicentina e l’azienda Lanerossi: la nuova società si contraddistinse subito per la caratteristica “R” blu inserita come stemma sulle maglie, a richiamare il marchio del lanificio. Questo abbinamento, nato nel 1953, proseguirà con successo fino al 1990, ben oltre la legalizzazione delle sponsorizzazioni in Italia e, dopo una pausa di quindici anni, nel 2006 la storica ‘R’ è ritornata a furor di popolo sulle maglie del Vicenza. Un matrimonio talmente storico che alla fine degli anni cinquanta, in virtù di una speciale concessione, sopravvisse anche al bando della Federazione che vietò la pratica dell’abbinamento per circa un ventennio.

Nel 1978, la Federazione creò la Promocalcio, struttura a scopo commerciale istituita per studiare e regolamentare Totocalcio, diritti TV e sponsorizzazioni che autorizzò per la prima volta l’inserimento sulle maglie da gioco di piccoli marchi commerciali: l’autorizzazione riguardava esclusivamente i fornitori tecnici, che potevavo mostrare il proprio logo per uno spazio non superiore a 12 centimetri quadrati (poi portati a 16 cm²), ma tanto bastò per segnare un’epoca, e per dare il là ad una serie di decisioni irreversibili che da lì a pochi anni cambiarono radicalmente il panorama calcistico italiano. La Juventus recepì per prima questa nuova norma, inserendo subito tra le sue strisce bianconere il logo del fornitore tecnico Kappa.
Nella stagione 1978/79, in Serie B, grazie al presidente dell’Udinese Teofilo Sanson avvenne la comparsa del primo sponsor commerciale nel calcio italiano. Sfruttando le pieghe del Regolamento delle divise da gioco – che norma esclusivamente le maglie – il Patron dei friulani, anche proprietario della Sanson Gelati, fece inserire il nome della sua azienda sui pantaloncini della squadra. La cosa suscitò un gran clamore mediatico, e la controversa interpretazione del regolamento costò all’Udinese una multa di 10 milioni di lire e la rimozione del marchio extrasettore dai pantaloncini, ma intanto la Sanson ottenne dalla cosa una notevole visibilità ed un conseguente aumento delle vendite.

La stagione successiva, precisamente il 26 agosto 1979, cadde l’ultimo tabù con l’esordio in Coppa Italia della prima maglia di calcio italiana griffata da uno sponsor, quella del Perugia. Artefice di ciò fu il presidente dei Grifoni Franco D’Attoma. Per reperire i 700 milioni necessari a portate in Umbria l’attaccante Paolo Rossi in prestito, D’Attoma si accordò col pastificio Pasta Ponte, da cui ne ottenne 400; in cambio, il nome dell’azienda sarebbe comparso sulle tute d’allenamento della squadra. La FIGC non tollerò però sull’abbigliamento tecnico la presenza di un logo diverso da quello del fornitore, multando la società perugina per 20 milioni ed imponendo la rimozione del marchio Ponte.Dato che era questa l’unica forma di sponsorizzazione allora permessa dalla Federazione, in 48 ore D’Attoma aggirò le regole federali fondando un maglificio col nome del pastificio, la Ponte Sportswear, che ora figurava ufficialmente come fornitore tecnico delle casacche, ma che de facto fu il primo vero sponsor di maglia del calcio italiano. La Federazione provò ilo goffo tentativo di raggiro e squalificò D’Attoma che però non demorse e rilanciò arrivando perfino a scrivere il nome dello sponsor Ponte sulle reti e sull’erba dello stadio Renato Curi.

Nel 1980, Cagliari, Genoa e Torino riuscirono a marchiare le tute di riserve e raccattapalle coi rispettivi marchi pubblicitari Alisarda, Seiko e Cora; l’esempio venne seguito l’anno successivo dall’Inter, che marchiò con lo sponsor Inno-Hit le tute d’allenamento di giocatori e raccattapalle, i biglietti d’ingresso e i tagliandi d’abbonamento.Il processo divenne inarrestabile, e nel 1981 FIGC e Lega si videro in pratica costrette ad approvare un documento che apriva le porte del calcio italiano agli sponsor extrasettore, permettendone un’esposizione massima di 100 cm² sulla parte anteriore delle maglie (aumentata a 144 cm² due anni dopo). Lo stesso D’Attoma, solo pochi mesi prima osteggiato dai vertici del calcio tricolore, venne messo a capo della Promocalcio.

Tito Sommartino

tratto da Senza Soste n.88 (dicembre 2013)

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