
Uno spread tutto elettorale

Ma per Monti, se lo spread continua inesorabilmente a salire, la colpa  non è delle sue politiche recessive che, in tandem con quelle imposte  alla Grecia e alla Spagna, stanno creando le condizioni per la fine  dell’euro. La colpa è sempre di qualcun altro (chi vi ricorda?): una  volta della “instabilità politica italiana” (leggi, i partiti della  strana maggioranza troppo litigiosi); un’altra di Squinzi, il presidente  di Confindustria che critica la politica del governo.   
 Questa volta, «la salita dello spread non dipende dall’Italia, ma dai  dubbi sull’applicabilità dello scudo», sostiene il premier. Ma come? Non  ci avevano detto a caratteri cubitali che al vertice europeo del 29  giugno la linea Monti era passata alla grande? Che Merkel era stata  sconfitta? «La zona euro ne esce rafforzata»; «La soddisfazione per  l’Italia è duplice» esultava il premier. Scherzava? Quasi un mese dopo,  scopriamo che era tutta aria fritta e, a quanto pare, lo ha scoperto  pure Monti.   
 Il quale, però, anziché ammettere che quella roba non è la terapia  giusta, resta fermo sulla sua posizione chiedendo di varare subito lo  scudo anti-spread. E non si capisce nemmeno bene con quale convinzione,  visto il pasticcio di ieri: ad un certo punto del pomeriggio si era  diffusa la notizia di un appello congiunto di Spagna, Francia e Italia  affinché si desse subito attuazione alle decisioni prese nel vertice di  fine giugno. Salvo poi scoprire che si era trattato di un’iniziativa  autonoma di Madrid subito sconfessata da Roma e Parigi.   
 Da Monti, invece, silenzio sulle cose più ovvie da fare – e sulle  quali il premier dovrebbe mettere tutte le proprie energie – cioè quella  di permettere alla Banca centrale europea di stampare moneta e  acquistare i titoli statali e quella di vietare l’acquisto di titoli  allo scoperto da parte degli investitori privati: allora sì che la  speculazione non troverebbe più pane per i suoi denti. Ma poi chi glielo  dice ai signori (e cari amici) della finanza?   
 Ovviamente, sul banco degli imputati, nella visione di Monti (e del  suo principale sponsor al Colle) ci sono sempre le «incertezze del  quadro politico» italiano. Ed è per questo che con Napolitano il premier  sta prendendo in seria considerazione l’ipotesi di elezioni anticipate  (visto che in Europa non si muove paglia e Pd, Pdl e Udc hanno sempre  più difficoltà ad appoggiare misure antipopolari che non sortiscono  alcun effetto). Ma in un quadro ben preciso: e cioè quello di una crisi  pilotata, il cui scopo dovrebbe essere quello, manco a dirlo, di dare in  fretta ai mercati un “segnale di stabilità”. Tradotto: l’ideale sarebbe  un Monti bis, questa volta con un esecutivo tutto politico e investito  di pieno mandato popolare.   
 Siccome però le crisi si sa come si aprono ma nessuno sa mai come si  chiudono, da Napolitano arriva il pressing a cambiare prima la legge  elettorale. Il presidente della Repubblica chiede una nuova legge non  solo perché il Porcellum si è dimostrato un disastro, ma soprattutto  perché occorre creare le condizioni per favorire un eventuale governo di  grande coalizione. Non a caso, l’accordo tra A, B e C – al di là dei  particolari ancora da definire e su cui la sintesi ancora non c’è – si  orienta su un sistema di voto che salvi il bipolarismo, ma  all’occorrenza non chiuda la porta ad un governo di larghe intese:  sbarramento al 5 per cento, premio di maggioranza al 10/15 per cento.  Perché, bellezza, i mercati chiedono stabilità e vogliono sapere in  anticipo chi vincerà le elezioni. Poi lo spread continuerà a salire e  l’economia ad andare a rotoli, ma avremo un governo molto stimato in  Europa: vuoi mettere?
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