Uomini in gabbia, gli zoo umani nell’Europa bianca
La vicenda degli zoo umani è tutta interna alla storia della colonizzazione, le date delle esposizioni seguono quelle delle conquiste, i caratteri più truci sono imposti spettacolarmente alle popolazioni più fiere e soggetti di più attiva resistenza all’invasione europea. Gli zoo umani,le “esposizioni etnografiche”, esisteranno per più di 50 anni, fino al secondo conflitto mondiale, che sancirà l’inizio della fine del sistema coloniale così come sino ad allora è stato conosciuto, e non sopravvivranno alla svolta epocale della decolonizzazione.
Se, grazie all’impegno e la serietà di storici come Del Boca, Claudio Pavone o Rochat siamo venuti a conoscenza di come il colonialismo sia stato uno dei periodi più aberranti della nostra storia,poco ancora si sa su questo argomento. Questo è dovuto,principalmente, alla forte opera di rimozione storica operata su quello che fu uno tra i frutti più amari del colonialismo.
D.S
LA TRISTE STORIA DI SARTJIE BATMANN
Alla fine del settecento si diffuse la falsa notizia dell’esistenza di gruppi africani dotati di un organismo strano, che li rendeva diversi e non assimilabili agli altri gruppi umani. Si trattava degli ottentotti,considerati dagli europei “la razza più vicina alle simmie”, la donna ottentotta fu considerata dagli europei anatomicamente anomala perché dotata di una massa adiposa che dava alle natiche una forma eccessiva. Gli antropologi dell’ epoca credettero addirittura di aver trovato una “razza estranea allo stesso genere umano”, e studiarono gli ottentotti per suffragare le loro tante ipotesi razzistiche e discriminatorie, nei loro “studi” collegarono i particolari anatomici della donna ottentotta direttamente alla sessualità, che nel suo caso fu considerata, com’era negli stereotipi della donna africana, “viscerale e indomita”. L’Ottentotto divenne nell’immaginario europeo il selvaggio allo stato puro, assai vicino alla brutalità dell’animale. Per tutto il Settecento e fino ai primi decenni dell’Ottocento questo popolo suscitò un attenzione morbosa non solo da parte degli antropologi europei ma anche della gente comune,l’ ottentotto divenne nell’immaginario europeo il selvaggio allo stato puro, assai vicino alla brutalità dell’animale.
Saartjie Baartman nacque nel 1789 da una famiglia di etnia khoikhoi, nelle vicinanze del fiume Gamtoos nell’odierno Sudafrica, rimase orfana quando la sua famiglia venne uccisa da un attacco compiuto dai boeri contro il suo villaggio,ritrovata viva venne “assegnata” come schiava presso una famiglia di boeri di Città del Capo. Quando Saartjie iniziò a crescere Hendrick Cezar, fratello del suo “proprietario”, ebbe l’idea di portarla in Inghilterra e utilizzarla come fenomeno da baraccone. I due portarono la donna a Londra e la donna, che soffriva di un’anomalia genetica oggi chiamata steatopigia, una malattia molto comune tra le tribù africane come i boscimani e gli ottentotti, ribattezzata la “venere ottentotta” o la “venere nera”.
Per quattro lunghi anni si ritrovò sui palchi di numerosi teatri nel Regno Unito e in Francia in spettacoli tanto semplici quanto umilianti. Obbligata a mostrarsi agli sguardi morbosi del pubblico bianco e occidentale,oltre a essere «affittata» per «scopi scientifici». La schiavitù era stata abolita da pochi anni,e le voci degli abolizionisti non tardarono a farsi sentire,si formò un movimento di protesta volto a boicottare simili “attrazioni”. I “padroni” di Saartjie decisero allora di trasferire lo “spettacolo” a Parigi, Saartjie fu “venduta” a un domatore di animali francese che la obbligava a esibirsi legata a una catena mentre camminava a quattro zampe. Anche quel tipo di spettacolo non durò molto, così il nuovo padrone di Saartjie decise di far prostituire la donna pur di ricavarne ulteriore denaro.
Saartjie Baartman morirà di sifilide nel 1815, sul suo corpo fu eseguita un’autopsia condotta e pubblicata dall’anatomista francese Henri Marie Ducrotay de Blainville nel 1816, e ripubblicata dal naturalista Georges Cuvier nelle Memorie del Museo di Storia Naturale, nel 1817. Il suo scheletro, i suoi genitali e il suo cervello furono messi in mostra al Musée de l’Homme di Parigi fino al 1974, quando furono rimossi e conservati in un luogo privato; una copia fu ancora visibile per i due anni successivi.
(L’ultimo luogo di sepoltura di Saartjie
Baartman. Una collina sovrastante la città di
Hankey nella valle del fiume Gamtoos)
Nel 2002, grazie all’impegno di Nelson Mandela,e dopo lunghe trattative tra il governo francese e quello sudafricano, i resti di Saartjie Baartman furono consegnati al sudafrica e sepolti (con funerali di stato) nella sua terra di origine. Nella triste storia di Saartjie Baartman e nei tanti zoo umani che proliferanno in seguito diventa palese quel ragionamento che era alla base del colonialismo dell’ epoca: la presunta “inferiorità” dei popoli colonizzati “provata” dai “tratti animaleschi” “scimmieschi” del loro corpo, in questo caso (e non solo in questo) esibito in appositi spettacoli, nei quali si palesa morbosità riguardo al corpo femminile provata anche dalle numerose cartoline dell’epoca che inizieranno a circolare in Europa, con disegni e foto raffiguranti le “veneri ottentotte”, come venivano definite.
L’etnocentrismo europeo, portato all’estremo nel periodo coloniale, mostrava agli europei l’indigeno coloniale così come doveva essere percepito: dentro una gabbia, diverso e privo di caratteristiche veramente umane. In tal modo, giustificare ogni nefandezza del colonialismo sarebbe risultato più semplice. I neri venivano descritti come animaleschi, dagli istinti primordiali e voraci. La donna africana veniva fortemente erotizzata da un abile propaganda,la promessa e l’aspettativa degli incontri erotici,fino alla legittimazione dello “stupro coloniale” si erano rivelati uno strumento efficace per reclutare le truppe. Le relazioni sessuali in colonia permettevano di mettere da parte qualsiasi remora morale perché, in quanto essere inferiore, la donna nera poteva fare ciò che alla bianca era proibito nella madrepatria.
GLI ZOO UMANI
Intorno al 1874,in Germania, Karl Hagenbeck, un mercante di animali selvatici (lo zoo di Amburgo,la sua città, porta ancora il suo nome) ebbe l’idea di “esporre” nel suo giardino zoologico persone provenienti dalle colonie più remote. Hagenbeck decise di mostrare i samoani come delle popolazioni primitive. Visto il successo decise di catturare – purtroppo questo termine si deve utilizzare con riferimento alle incredibili nefandezze del periodo storico – dei nubiani, per effettuare nuove e visitate mostre. L’idea si rivelò un lucroso affare,negli anni successivi,tanto
che dopo l’enorme successo di pubblico decise di trasformare le mostre da stabili ad itineranti, per la gioia delle popolazioni di Parigi, Londra e Berlino.
(Carl Hagenbeck 1844 1913
Un poster per una mostra dei
popoli” (Völkerschau) a
Stoccarda (Germania), 1928)
In breve tempo gli zoo umani, ribattezzati “esposizioni etnografiche” avranno un successo tale da attraversare i confini dell’europa e approdare negli Stati Uniti. La logica insita negli zoo umani era la medesima dello spettacolo che mostrava l’insolito: il nano, la donna barbuta o il gigante alla quale si aggiungevano le caratteristiche di uno spettacolo di bestie selvatiche, in cui gli uomini,deportati dalle loro terre di origine, venivano mostrati chiusi nelle gabbie o nei recinti per dare l’impressione che si avesse a che fare con animali pericolosi e non con esseri umani.
Il primo contatto da parte degli abitanti delle città europee con il nero africano avvenne quindi dietro le sbarre di una gabbia, a significare la natura più animale che umana dei soggetti che si offrivano all’osservazione. Per l’europeo, il bianco, l’occidentale era pienamente accettabile e legittimo quel rapporto di estrema distanza ontologica. Il nero africano veniva considerato alla stessa stregua di un selvaggio, e poteva essere percepito come un mostro quando nello “spettacolo” veniva descritto come cannibale o come avente forze fisiche abnormi. Nell’osservare i soggetti rinchiusi nelle “esposizioni etnografiche”, lo sguardo popolare coglieva in maniera immediata un rapporto di netta superiorità fra la sua razza e quella dell’uomo nella gabbia e, quindi, gli spettatori non si rammaricavano che l’altro fosse rinchiuso o legato. La percezione dell’altro coincideva con i fatti stessi: “se sta in gabbia deve essere certamente un selvaggio”, e si ecludeva la possibilità che le cose potessero essere
diverse.
GLI ZOO UMANI: DA ATTRAZIONE A STRUMENTO DI PROPAGANDA
Nel 1877 Geoffroy de Saint-Hilaire, il direttore del Jardin zoologique d’acclimatation di Parigi, che decise di risollevarsi da una delicata situazione finanziaria organizzando nel 1877 due “spettacoli etnologici” con nubiani ed esquimesi come protagonisti,l numero dei visitatori raddoppiò e il Giardino registrò un milione di entrate a pagamento,tra il 1877 e il 1912 il Jardin zoologique d’acclimatation ospitò 30 esposizioni etnografiche,i parigini accorrevano in massa per scoprire ciò che la stampa del tempo chiamava: “branco di animali
(Ota Benga, un uomo in esposizione nel esotici accompagnati da individui non meno singolari”.1906 a Parigi, nel Jardin d’acclimatation)
In quel periodo,in Francia,aveva inizio la grande espansione coloniale della III repubblica che culminerà,nel 1910,con i tracciati definitivi delle frontiere dell’impero d’Oltremare, la propaganda a favore del colonialismo aveva favorito la diffusione di un discorso sulle cosiddette “razze inferiori” sul quale si incontravano diverse teorie (pseudo) scientifiche. Tutti i grandi mezzi di comunicazione dai giornali illustrati più popolari come Le Petit Parisien o Le Petit Journal e le principali pubblicazioni a carattere «scientifico» , come La Nature o La Science amusante, oppure riviste di viaggi ed esplorazioni, come Le Tour du Monde o il Journal des Voyages ,presentano le popolazioni esotiche (e in particolar modo quelle assoggettate) come vestigia dei primi stadi dell’umanità.
Il darwinismo sociale, divulgato e reinterpretato da Gustave Le Bon o Vacher de Lapouge alla fine del secolo, si traduce visivamente in queste esposizioni a carattere etnologico con la distinzione tra «razze primitive» e «razze civilizzate». Questi pensatori della disuguaglianza scoprono, attraverso gli zoo umani, un favoloso serbatoio di esemplari fino ad allora impensabili nella madrepatria. L’antropologia fisica, come l’antropometria nascente, che costituisce allora una grammatica dei «caratteri somatici» dei gruppi razziali (sistematizzata dal 1867 dalla Societé d’anthropologie con la creazione di un laboratorio di craniometria) e poi lo sviluppo della frenologia, legittimano lo sviluppo di queste esposizioni.
Gli zoo umani entusiasmavano anche le società di Antropologia, che studiarono da vicino gli indigeni degli zoo e ne certificavano l”autenticità’,gli studiosi, dopo le loro misurazioni e osservazioni, pubblicavano articoli su importanti riviste di Etnografia e Antropologia, gli scienziati vengono incitati a sostenere attivamente tali programmi per tre motivi pragmatici: disponibilità pratica di «materiale» umano eccezionale (per varietà, numero e rinnovo costante degli esemplari…); interesse del grande pubblico per le loro ricerche e quindi possibilità di promuovere i loro lavori sulla stampa popolare; infine la presenza fisica di questi «selvaggi», prova lampante della fondatezza degli enunciati razzisti.
Le civiltà extraeuropee, in questa percezione lineare dell’evoluzione socioculturale e nella messa in scena della vicinanza con il mondo animale, sono evidentemente considerate ritardate, ma civilizzabili, quindi colonizzabili. Così il cerchio si chiude. La coerenza di questi spettacoli diventa una prova scientifica, e al tempo stesso una dimostrazione perfetta delle teorie nascenti sulla gerarchia delle razze e un’illustrazione perfetta in situ della “missione civilizzatrice” allora in corso oltremare. Tra il 1890 e la prima guerra mondiale, tutto contribuisce a imporre un’immagine particolarmente sanguinaria del selvaggio,questi spettacoli ,inutile dirlo, senza alcuna preoccupazione per la verità etnologica, riproducono, sviluppano, aggiornano e legittimano gli stereotipi razzisti più morbosi che formano l’immaginario dell’«altro» al momento della conquista coloniale.
E’ importante rilevare che la “fornitura degli indigeni” per gli zoo umani seguiva da vicino le conquiste d’oltremare e avveniva grazie con l’accordo e il sostegno delle amministrazione coloniale, e contribuiva a sostenere esplicitamente l’impresa coloniale in Francia. Così nei mesi che seguirono la conquista francese di Timbuktu ,nel 1894 ,vennero portati a Parigi,per essere esibiti in vari luoghi della città dei tuareg fatti prigionieri,dei malgasci apparvero un anno dopo l’occupazione del Madagascar e il successo delle celebri amazzoni del regno di Abomey seguì la sconfitta molto mediatizzata di Behanzin a opera dell’esercito francese nel Dahomey. E In simili spettacoli appara volontà di degradare, umiliare, considerare l’altro come un animale ma anche di glorificare la Francia d’Oltremare mediante un nazionalismo al suo apogeo dalla sconfitta del 1870, il tutto è coadiuvato dalla stampa che mostra, di fronte ai colonizzatori, «indigeni» scatenati, crudeli, accecati dal feticismo e assetati di sangue.
Le diverse popolazioni esotiche vengono tutte presentate tendenzialmente in questa luce poco lusinghiera: si uniformano mediante caricature tutte le «razze» presentate, rendendole quasi indistinte. I «selvaggi» portati in Occidente sono senza dubbio attraenti, ma suscitano un certo timore. Le loro azioni e i loro movimenti devono essere strettamente controllati. Vengono presentati come assolutamente diversi e la messa in scena europea li obbliga a comportarsi in questo modo, poiché, fin tanto che vengono esposti, si proibisce loro qualsiasi segno di assimilazione o di occidentalizzazione. Nella maggior parte delle manifestazioni è quindi impensabile che si mescolino tra i visitatori. Truccati secondo gli stereotipi in vigore, il loro abbigliamento deve risultare il più singolare possibile. Gli indigeni esposti debbono inoltre restare all’interno di uno spazio espositivo precisamente circoscritto (a rischio di multa trattenuta sul loro magro stipendio). Si traccia così la frontiera intangibile tra il loro mondo e quello dei cittadini che li vanno a vedere, a ispezionare. Una frontiera che delimita scrupolosamente i selvaggi dai civili, la natura dalla cultura. Ciò che più colpisce in questa animalizzazione brutale dell’altro è la reazione del pubblico. Nel corso di quegli anni di quotidiane esibizioni pochissimi sono i giornalisti, politici o scienziati che s’indignano per le condizioni igieniche e di sistemazione – spesso catastrofiche – degli «indigeni»; per non parlare poi dei numerosi decessi tra popolazioni poco abituate al clima francese, come accadde agli indiani Kaliña (Galibi) nel 1892 a Parigi.
Chiaramente, se il primo intento propagandistico degli zoo umani,come ampiamente rilevato,era appunto volto a trovare,a presentare, solide giustificazioni alle imprese coloniali,a partire dal 1890 fino al 1931, essi si trasformano in spettacoli itineranti. Non verranno più chiamati “esposizioni etnografiche” ma: villaggi «negri», poi «neri» o «senegalesi» – prova di un’evoluzione semantica assai interessante all’indomani della Grande Guerra. La “conquista” coloniale era ormai avvenuta,nel 1883 con la conferenza di Berlino le principali “potenze” dell’epoca si erano spartite l’ Africa arrivava il momento di mostrare ai cittadini delle grandi città europpe i “risultati” dell’amministrazione delle colonie,emerge
nelle messinscene dei “villaggi negri” portati in giro per l’ Europa la visione del “buon selvaggio” ridiventato dolce, docile, a immagine di un Impero che si vuol far credere definitivamente pacificato sotto l’influsso «benefico» della Francia dei Lumi, della Repubblica colonizzatrice, gli «indigeni» si trovano al livello più basso della scala delle civiltà, mentre la tematica puramente razziale tende a svanire. I villaggi negri sostituiscono gli zoo umani. L’indigeno resta certo inferiore, ma è reso «docile», asservito e si scoprono in lui potenzialità di evoluzione che giustificano l’impresa imperiale. Questa nuova percezione dell’altro-indigeno si esprimerà soprattutto nell’Esposizione coloniale internazionale di Vincennes del 1931 che, estesa su centinaia di ettari, rappresenta la mutazione più perfetta dello zoo umano sotto l’apparenza di missione civilizzatrice, di buona coscienza coloniale e di apostolato repubblicano.
IN ITALIA
Anche in italia gi zoo umani ebbero un notevole successo,la presenza di missionari in Africa era significativa già dalla prima metà dell’ottocento e,difatti,furono gli stessi missionari cattolici a farsi promotori di queste dubbie iniziative propagandistiche, portando in Italia gruppi di indigeni che mostrarono al pubblico in diverse occasioni, a sostegno delle “importanti prospettive di evangelizzazione” “offerte” dal continente africano. Ricordiamo, ad esempio, l’”esposizione degli Assabesi” a Torino nel 1884, quando un gruppo di 6 cittadini africani provenienti dalla baia di Assab vennero “esibiti” al Parco del Valentino,nell’ambito dell’ Esposizione Generale Italiana. Tale novità riscosse un successo immediato, l’esposizione virò rapidamente dagli obiettivi commerciali iniziali fino ad assumere le caratteristiche di una fiera delle colonie, con l’avallo delle società coloniali di tutta Europa,anche in questo caso entra in campo il concetto di missione civilizatrice del colonialismo rappresentata dall’esposizione al pubblico dei sei poveri assabesi, come una lampante dimostrazione della possibilità di innalzamento sulla scala della civiltà: quei “selvaggi”, a contatto con la società occidentale, si erano prontamente “domesticati”, con un processo di cui l’Esposizione era stata l’improvvisato laboratorio.
Nel caso italiano non vi sarà un luogo stabile (come in Germania,con lo zoo di Amburgo oppure in Francia, con il Jardin zoologique d’acclimatation) ma si avrà un proliferare di “villaggi eritrei” e “villaggi somali” per tutta la penisola fino al 1940. Il regime fascista alimentò ancora di più il gusto verso l’esotico come elemento curioso da osservare e da valutare dall’alto della “superiore cultura” occidentale, uno degli esempi più significativi,a tal proposito, è costituito dalla Prima mostra triennale delle terre italiane d’oltremare ,organnizata a Napoli nel 1940,in cui tutti gli elementi importanti della propaganda fascista erano presenti: il richiamo alla romanità e, per antitesi, la forza innovatrice di cui si sentiva investito il regime; il nazionalismo della razza; il riferimento alle colonie come estensione del territorio nazionale; il continuo richiamo al valore e al lavoro degli italiani. In essa una delle cifre interpretative fondamentali era costituita dal nesso civiltà/barbarie: laddove il regime incarnava il nuovo, i nativi esibiti servivano, da un lato, a mostrare la loro arretratezza, dall’altro a evidenziare l’opera migliorativa prodotta su essi e sulle loro civiltà dalla moderna tecnologia fascista. I loro compatrioti presenti nei villaggi ricostruiti mostrano, come si può rilevare esaminando le fonti iconografiche, sempre la stessa immagine stereotipata.
E proprio a Napoli,con il secondo grande conflitto bellico alle porte, si conclude l’ “esperienza” degli zoo umani, una delle pagine più vergognose del colonialismo. Nonostante la scarsa disponibilità di fonti dovuta forte opera di rimozione storica operata nel corso degli anni successivi alla decolonizzazione o studio degli zoo umani costituisce a tutt’oggi un fenomeno culturale di grande rilevanza nella conoscenza delle radici del nostro rapporto con l’altro, con lo straniero, nella dinamica razzista del periodo coloniale e nelle successive rimozioni o modificazioni.
Sebbene oggi gi zoo umani siano improponibili ancora nel 2002 in Belgio fu allestita l’esposizione di un gruppo di pigmei in un parco che ricreava l’ambiente della foresta pluviale, habitat dei pigmei di etnia Baka. I pigmei furono incoraggiati ad una vera e propria esibizione etnica di canti e balli. L’iniziativa dell’esibizione era partita dall’associazione Oasis Nature e da autorità cittadine di Yvoir con la motiv azione di raccogliere fondi per migliorare la condizione dei pigmei e per poter costruire nel Camerun 17 punti di raccolta dell’acqua, 4 infermerie e 4 scuole. Furono sollevate molte polemiche e proteste da associazioni per i diritti umani come l’Mnm (Mouvement des noveaux migrants). Si rispose alla polemiche e alle accuse di razzismo sostenendo che l’iniziativa era di natura umanitaria, ma non si è spiegato perché non si fosse organizzato qualcos’altro, ad esempio un convegno o una conferenza (a cui si sarebbe data anche la parola ai diretti interessati), piuttosto che uno spettacolo circense tristemente simile a quelli degli zoo umani.
Oggi i concetti che ne erano alla base si ripropongono attraverso il “turismo etnico”,come nel caso dei viaggi organizzati da molti tour operators per “conoscere e osservare” le “donne giraffa” (le donne della tribù karen) in Thailandia, oppure andare “alla scoperta” del popolo dogon (Mali), giusto per citare due esempi. Possiamo,quindi,vedere anche oggi come le pratiche razziste non appartengono al passato. Non si è ancora compreso che non esiste nessun diritto delle razze superiori anche se per diversi secoli le autorità europee se ne sono valse ( e ancora se ne valgono) per depredare, uccidere e sottomettere. Per molto tempo il rapporto con “l’altro” è stato improntato al rifiuto, condannandolo alla miseria e al disprezzo. Miseria e disprezzo che ancora oggi discendenti delle vittime coloniali: gli immigrati vengono indirizzati ai discendenti delle vittime coloniali: gli immigrati.
BiBLIOGRAFIA
Pascal Blanchard, Nicolas Bancel, Gilles Boetsch, Zoo umani. Dalla Venere Ottentotta ai reality show, Obre Corte,
MAriono Nicoletti, Lo zoo umano delle donne giraffa, Exòrma edizioni.
Viviano Dominici, Uomini nelle gabbie: dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica, Il Saggiatore
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