Coalizione a ripetere
Senza perdere un tempo che non merita, c’è un’immagine che ritrae bene cos’è la coalizione sociale. Viene dall’assemblea nazionale di Roma: in prima fila ci sono delle sedie vuote con dei cartelli recanti nomi di fantasia italiani e stranieri (“mettiamo in prima fila chi ancora dobbiamo coinvolgere”). Dietro la fantasia, la dura realtà degli unici coinvolti: i ferri vecchi dei ceti politici e di movimento degli ultimi anni e decenni, le burocrazie sindacali, partitiche e dei centri sociali. Hanno nomi e cognomi, chi frequenta e bazzica gli ambiti politici li sa tutti o quasi, uno per uno, ne conosce storia e sconfitte. I rappresentanti di professione tentano ancora una volta di parlare in nome di rappresentati assenti, o meglio indifferenti alla coalizione sociale. Davanti le foto di chi non c’è e non ci sarà mai, dietro una foto della ristretta famigliola di sinistra, invecchiata piuttosto male.
Dopo l’assemblea, con sprezzo del ridicolo, esclamano trionfanti: uno su quattro è un under 35. Avete capito bene: uno su quattro! Dentro il ceto dirigente della mitologica Podemos forse nemmeno uno su quattro è over 35… Più che retoriche alla Renzi tra rottamatori o rottamati, qua siamo ai rottami e basta. Ecco uno dei punti: piaccia o non piaccia, lo spazio politico di Podemos qui in Italia è occupato dal M5s. Dire che non sono la stessa cosa o perfino che sono molto diversi è una banalità, perché molto diversi sono i contesti sociali e politici di Italia e Spagna: esistono delle tendenze comuni sul piano globale e ancor più nel sud Europa, ma non è la stessa cosa il livello e la temporalità con cui la crisi ha morso, non è la stessa cosa aver avuto un movimento come le acampadas oppure forme di lotte disseminate, non è la stessa cosa avere specificità di un tipo o di un altro all’interno della composizione di classe, non sono le stesse le densità delle tradizioni e genealogie politiche istituzionali e di movimento. Anche dire questo dovrebbe essere banale, ma evidentemente non lo è se a sinistra si continua a tentare l’import-export di modelli preconfezionati.
Si può comprendere cosa significa spazio politico se si guarda ai dati di sostanza e non di rappresentazione ideologica (ossia le biografie completamente diverse di Grillo e di Iglesias), se si guarda cioè ai pezzi di composizione sociale che lì trovano espressione e le forme che si danno (parti consistenti del precariato cognitivo e declassato, il forte tratto generazionale, giovani e un po’ meno giovani che non trovano corrispondenza tra titolo di studio e posizione occupata nel mercato del lavoro, riluttanza per la politica tradizionale intesa – in modo più o meno semplificato – come casta, rifiuto della corruzione del paese, una certa indifferenza all’Europa, utilizzo delle nuove tecnologie ma combinato con l’influenza dei media più classici, ecc.). Si tratta di uno spazio percorso da un tentativo di nuovo riformismo al di fuori dell’album di famiglia della sinistra e socialdemocratico. Forse se ne è accorto perfino Landini, che tenta di sostenere che “qui non si tratta di destra o sinistra”: certo, non è particolarmente credibile detto da chi a quell’album appartiene in toto, suscita lo stesso effetto di quando si sentono vecchi tromboni parlare della necessità di nuovi linguaggi.
Insomma, indipendentemente dal giudizio di valore specifico, che deve avere la capacità di tenersi alla larga da sciocche mitizzazioni e inutili posizioni ideologiche, c’è un’enorme differenza di fondo che rende incomparabili le due cose, tanto da far risultare grottesco qualsiasi paragone: Podemos è una cosa vera, la coalizione sociale un prodotto artificiale. E non bisogna essere veggenti per affermare con anticipo che farà la stessa fine dei tanti mostriciattoli da laboratorio che sono stati partoriti negli ultimi anni, sul piano municipale e nazionale. Esperimenti fallimentari di cui, però, ogni volta i proponenti (tra l’altro sempre gli stessi) fingono di dimenticarsi e di cui non serbano memoria autocritica.
Il giorno dopo l’assemblea un organo di uno dei tanti frammenti di sinistra che ha trovato casa nella nuova creatura titolava più o meno così: “la coalizione c’è, ora manca solo il conflitto”. Anche questa immagine cattura bene, seppur con un’involontaria ironia, l’idea completamente distorta e rovesciata del rapporto tra lotte e istituzioni (pardon, “orizzontalità e verticalità” per usare i lemmi della neo-lingua coalizionista), come se le prime dipendessero dalle seconde e non viceversa. Una volta si chiamava autonomia del politico, ma aveva perlomeno una maggiore solidità teorica. Per giunta tale rapporto, se posto a livello astratto e in assenza di lotte, costituisce un falso problema, che non può che condurre a posizioni opportuniste oppure dogmatiche. Quando i movimenti ci sono e sono potenti (il caso del No Tav in Val di Susa è solo uno degli esempi storici che è possibile menzionare) non si arrovellano su sterili elucubrazioni da topi di laboratorio: agiscono i rapporti di forza utilizzando anche le istituzioni come campo di battaglia e le piegano ai propri fini. Quando i movimenti non ci sono o non sono sufficientemente forti, il compito dei militanti politici dovrebbe essere quello di costruirli anziché imboccare infruttuose scorciatoie, citando in modo completamente decontestualizzato la Grecia o l’America Latina (tra l’altro, non sarebbe male chiedere ai movimenti stessi per esempio in Brasile cosa ne pensano delle magnifiche sorti dei governi progressisti…).
Ma, dicevamo all’inizio, probabilmente non vale troppo la pena di sprecare tempo nella critica di questo ennesimo tentativo di ricomposizione di burocrazie sempre più marginali: dopo la tragedia Marx si era fermato alla farsa, ora è perfino difficile trovare i nomi giusti di descrizione della storia. D’altro canto, lo stesso Landini forse sta semplicemente immaginando una piccola battagliuccia di posizione dentro la Cgil, altri una poltroncina o degli spazietti di visibilità, altri ancora l’opportunità di giustificare la riproduzione dei propri minuscoli orticelli. Se invece dovessimo prendere sul serio il grottesco, indipendentemente dal giudizio di valore sulla necessità o meno di un’impresa istituzionale (e le posizioni di chi scrive sono chiare), il punto è che la coalizione sociale è un’opzione irrealistica prima ancora che sbagliata. Ma tant’è, per chi di fronte alle difficoltà del reale preferisce la scorciatoia dell’autorassicurazione di famiglia, l’irrealismo sembra essere diventato il principio politico di questi tempi.
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