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Le belle bandiere?

È molto difficile, soprattutto da lontano, decifrare o almeno orientarsi in quello che sta accadendo in Ucraina in questi mesi e in questi giorni. Non proveremo a farlo qui, ci limitiamo a segnalare alcuni aspetti di sostanza e soprattutto di metodo. In generale e soprattutto in casi particolari come questo, bisogna evitare di farsi accecare dalle luci dell’ideologia anti-imperialista o dalle luci dell’ideologia insurrezionale. Seguendo i primi bagliori, chiunque non sia (momentaneamente) simpatico agli americani diventa un paladino degli oppressi. Ciò priva i soggetti di vaste aree del mondo della possibilità di combattere contro i propri regimi, pena essere considerati dei complici dell’imperialismo o addirittura sul libro paga della Cia. Seguendo i secondi, invece, le rivolte degli altri sono sempre belle e pulite, e ciò permette di sublimare l’assenza o la condanna delle rivolte di casa. Entrambe queste posizioni, per quanto opposte tra di loro, convergono in un atteggiamento che possiamo definire da tifoseria, rinunciando in partenza a comprendere similitudini e diversità rispetto alla partita che giochiamo tutti i giorni.

Al contempo, è alquanto incauto interpretare Euromaidan come un movimento per l’Europa, salvo voler dimostrare a tutti i costi delle tesi precostituite e magari poterselo spendere in vista della prossima tornata elettorale. È un movimento che si esprime in buona misura con i linguaggi del nazionalismo anti-russo, che in Ucraina hanno tradizioni e radici profonde, sia reazionarie che progressiste. Vi è, indubbiamente, una partecipazione popolare di massa, almeno negli epicentri urbani e metropolitani, che si interseca con un indubbio scontro all’interno delle elite post-sovietiche. L’insorgenza in Ucraina rivela, come in altri paesi dell’Europa orientale, lo scoppio della bolla di promesse neoliberiste che ha accompagnato il crollo del socialismo reale, palesando i tratti di una transizione irrisolta e aperta a uno spettro estremamente ampio di possibilità. Ciò si combina alle peculiarità di un contesto in cui, storicamente, le questioni locali tendono ad assumere immediatamente peso e influenze geopolitiche, determinandole e venendone determinate. Ci pare allora che, sfuggendo a interpretazioni lineari, il movimento ucraino costituisca un’ulteriore testimonianza dell’impazzimento delle bussole politiche tradizionali nel capitalismo globale e nella sua crisi.

Le ultime settimane mostrano l’ulteriore inasprimento dello scontro, che sembrerebbe assomigliare da vicino a una guerra civile. Vari compagni e gruppi militanti ucraini spiegano perché è importante stare dentro all’insorgenza, pur consci delle difficoltà di incidere sulla sua direzione prevalente e conservatrice, ma al contempo mettendo duramente a critica quell’atteggiamento di sinistra che preferisce non sporcarsi le mani in situazioni che puzzano. Le leggi speciali di recente promulgate mostrano con chiarezza la natura del regime, liberticida e corrotto, complice con Putin. E tuttavia, le indubbie ragioni di chi in prima istanza si oppone radicalmente a questo regime non consentono di sottacere i rapporti di forze esistenti dentro Euromaidan e la direzione politica da cui attualmente è guidata.

A fronte di questo scenario, ci sembra una volta di più interessante e curioso osservare l’atteggiamento nei confronti dell’insorgenza ucraina da parte di quella che possiamo chiamare “opinione pubblica di movimento”, visibile su molti siti e sui social network (qui, in particolare, la rilassatezza con cui molti compagni pensano di potersi esprimere in modo non ideologico ne mostra la loro vera ideologia). Da questa “opinione pubblica”, che ha risolutamente bollato le mobilitazioni del #9D come reazionarie e ha gridato a squarciagola al pericolo fascista, dovremmo aspettarci un giudizio analogo o meglio più duro sull’insorgenza ucraina: perché lì i gruppi nazisti presenti sono una cosa seria e militarmente organizzata, le sedi dei compagni bruciate non sono poche, le bandiere ucraine non si contano, e la sollevazione non è lontana dal prendere il potere o quantomeno incidere pesantemente su di esso. Le elite in rapporto o direttamente coinvolte con l’Euromaidan fanno apparire un impresentabile Calvani qualsiasi come una figura trasparente e imbevuta di sinceri principi

progressisti! Invece, a sorpresa, circolano eccitazione e commenti entusiastici, ancora una volta ben poco attenti alle ambivalenze, alle ambiguità e alle contraddizioni, benché in una direzione speculare e opposta rispetto al #9D: ciò che allora era senza se e senza ma r-e-a-z-i-o-n-a-r-i-o, ora diventa senza se e senza ma r-i-v-o-l-u-z-i-o-n-a-r-i-o.

Da un lato, è la solita solfa della sinistra: quando rispetto agli eventi di lotta vi è una rassicurante distanza di sicurezza (spaziale e temporale), si può esaltare tutto. Anche azioni che qui sarebbero immediatamente criminalizzate o da cui ci si sente in dovere di prendere le distanze, se avvengono a qualche migliaio di chilometri o epoca di distanza risultano giustificabili. Dall’altro lato, tali atteggiamenti nascondono una posizione di folclorizzazione dell’altro. Si possono esaltare le lotte nei paesi non occidentali nella misura in cui, in fondo, si tratta di primitivi che combattono contro regimi primitivi. Non ha neppure senso discutere più di tanto delle pratiche di conflitto o delle posizioni politiche, argomenti riservati all’“opinione pubblica di movimento” nelle aree sviluppate del mondo. I sottosviluppati non hanno consapevolezza di pratiche di conflitto e posizioni politiche, non hanno soggettività, basta che si prestino alla nostra rappresentazione (sia essa quella dei popoli anti-imperialisti o delle rivolte dalle belle bandiere, fossero anche quelle del più ambiguo nazionalismo). È bello leggere gli studiosi postcoloniali quando raccontano delle lotte spurie e contraddittorie dei contadini indiani, criticando la storiografia marxista ufficiale e la sua idolatria per il soggetto puro e astratto della classe operaia. Ma guai a provare ad adottare lo stesso metodo per leggere le lotte che ti passano sotto il naso, quelle di tutti i giorni, quelle per cui non è sufficiente tifare ma bisogna giocare la partita. In cui, cioè, bisogna prendere parte. In questi casi si tratta di anti-politica o di soggetti reazionari: il lessico della biopolitica rischia qui di confondersi con quello della biologia, e la posizione di classe con l’appartenenza razziale. In questi atteggiamenti è all’opera un’essenzializzazione della soggettività, come se questa fosse data per natura e non si formasse attraverso processi di conflitto.

Proviamo, allora, a posare le bandiere, ad abbandonare la comodità degli spalti e a giocare la partita, anche quella più difficile e tremendamente ambigua. Questo è il suggerimento che accogliamo da molti compagni ucraini, che combattendo oggi contro il regime si preparano già domani a combattere contro una parte di chi insorge nelle strade. Perché i rapporti di forza si costruiscono nella materialità dei processi, mai nell’astratta correttezza ideologica. Da dentro non è certo facile organizzare il contro, ma certamente da fuori non resta che fare, appunto, opinione pubblica. Insomma: meno like, più fight!

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