Se il tribunale porta sul banco degli imputati le donne che subiscono violenza
I fatti: un dirigente della Croce Rossa, Massimo Raccuia, viene denunciato da una collega precaria con l’accusa di averla ripetutamente molestata e aggredita sessualmente durante il lavoro. Arrestato nel 2011 con l’accusa di stalking e di mobbing, viene scarcerato pochi giorni dopo dal Gip, secondo il quale non era riscontrabile una “chiara volontà oppositiva della donna”. Durante il processo (svoltosi nel corso del 2016, a 5 anni di distanza dai fatti…) la donna ha riferito come Raccuia avesse più volte abusato di lei, ricattandola con la minaccia di farle perdere il lavoro (il suo contratto a tempo determinato era in scadenza). Nel corso delle udienze è emerso inoltre che le violenze dell’uomo – che ricopriva il ruolo di responsabile regionale dei volontari della Croce Rossa – erano state indirizzate anche contro un’altra volontaria di 19 anni ma in quel caso il giudice ha stabilito l’improcedibilità perché la ragazza non aveva sporto denuncia.
Lo scorso Febbraio l’accusa ha chiesto una condanna a 10 anni per l’uomo, che nel frattempo ha lasciato il posto in Croce Rossa. A distanza di pochi giorni la sentenza emessa dalla I sezione penale del Tribunale di Torino ha invece accolto la richiesta fatta dai legali di Raccuia, assolvendolo da ogni accusa “perché il fatto non sussiste”. Così, con un ribaltamento completo nei ruoli della vicenda, la donna si trova ora sul banco degli imputati a dover rispondere dell’accusa di calunnia nei confronti dell’uomo.
In questi giorni sono state rese note le motivazioni della sentenza, sulle quali è necessario soffermarsi: secondo i giudici, infatti, il racconto della donna che ha denunciato ripetute violenze, minacce e stupri non è verosimile perché non ha urlato per chiedere aiuto ma si è “limitata” a ripetere “Basta” più volte per dire all’uomo di fermarsi. E ancora: durante il processo l’operatrice della Croce Rossa non avrebbe “tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona” e la sua colpa sarebbe anche quella di aver continuato il turno di lavoro dopo gli abusi subìti. Tanto basta a trasformare le violenze in rapporti consenzienti e quindi ad assolvere Raccuia.
Una sentenza disgustosa che produce un’ulteriore violenza sulla donna, questa volta di stampo giuridico. Le motivazioni del Tribunale di Torino riproducono uno schema purtroppo non isolato in questi casi: a finire sotto accusa sono i comportamenti della donna, le sue reazioni, la veridicità del suo racconto e non gli abusi commessi sul suo corpo; l’obiettivo è sempre quello di arrivare a insinuare una parte di responsabilità della donna nell’accaduto, sollevandone di conseguenza il carnefice di turno.
In questa vicenda, poi, sono diversi i livelli di violenza che si sommano: quella sessuale e quella economica. Il corpo della donna veniva usato da Raccuia come merce di scambio contro il ricatto della precarietà: l’uomo approfittava della sua posizione di responsabilità e potere contro chi si trovava in una posizione di subordinazione lavorativa, minacciando licenziamenti o altre ritorsioni. Fa specie leggere come il fatto di aver continuato a lavorare anche dopo gli abusi venga rivolto contro la donna nelle motivazioni della sentenza, come se in un mondo del lavoro che ha fatto del ricatto la propria regola quella potesse essere considerata davvero una “scelta”. Non solo: come ritorsione per il suo rifiuto di sottostare agli abusi, la donna era stata mandata a lavorare nel Cie, un luogo in cui la Croce Rossa ricopre un ruolo di rilievo (non certo senza ombre) e in cui violenze e abusi di potere sono la norma, con più di un caso di stupro contro le donne migranti rinchiuse arrivato alle cronache.
Lo schifo e la rabbia di fronte a questa vicenda sono tanti: dalle strade, ai posti di lavoro, alle aule di Tribunale, la lotta contro questa cultura sessista, violenta e assolutoria ci riguarda tutti/e.
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