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Dalle scuole occupate di Roma

Ripubblichiamo l’approfondito documento politico dell’Assemblea degli occupanti del Liceo scientifico statale Morgagni di Roma originariamente diffuso dal Collettivo Autorganizzato Reset

Ⅰ. INTRODUZIONE

Oggi, giorno 8 Dicembre 2024, noi studentesse e studenti del liceo Morgagni abbiamo deciso di occupare la nostra scuola.

Ciò che ha portato l’assemblea degli occupanti alla realizzazione di un atto forte come questo è la convinzione che, tramite esso, possiamo essere in grado di esprimere il nostro dissenso e il nostro disagio nella modalità migliore.

Comprendiamo pienamente la natura fortemente conflittuale di questo gesto e proprio per questo lo riteniamo il mezzo di lotta più efficace e adeguato per esprimere a gran voce le nostre rivendicazioni, sollevate da un’esigenza collettiva che comprende la maggioranza della componente degli studenti.

Pertanto specifichiamo che, nonostante l’interruzione forzata della nostra attività didattica, l’assemblea provvederà allo svolgimento di corsi alternativi, volti ad affrontare e approfondire i temi espressi da questo documento politico. Vogliamo chiarire che la nostra protesta non nasce dalla necessità di colpevolizzare il corpo docenti e la dirigenza,  ma anzi speriamo che questi ultimi possano rivedersi nei nostri ideali.

Ci teniamo infine a specificare che, durante il periodo all’interno del quale si svolgerà questo atto di protesta, ci impegneremo per la tutela e sicurezza di tutti i partecipanti, nonché per la cura e riqualifica della totalità degli spazi all’interno del perimetro dell’istituto. 

A fronte delle mobilitazioni che hanno caratterizzato questo autunno, questa occupazione intende rilanciare un percorso di lotta concreto, compatto ed efficace. Questo documento vuole far emergere le contraddizioni dell’attuale governo, attraverso l’analisi approfondita dei temi e le rivendicazioni affrontate di seguito,  in risposta al dilagante individualismo, all’indifferenza e alla sterilità politica.

Le rivendicazioni e le problematiche per le quali chiediamo soluzioni vanno al di là di ‘interno’ o ‘esterno’ al contesto scolastico, in quanto seppur noi volessimo vederle come problematiche puramente interne finiremo comunque con un’analisi critica del sistema per esteso contro il quale stiamo rivolgendo la nostra lotta. 

Ⅱ. IL VOLTO DELLA SICUREZZA: TRA CONTROLLO E REPRESSIONE

Lo scorso 18 Settembre il Decreto “Sicurezza” è stato approvato con larga maggioranza alla camera.

Presentato come un insieme di misure volte a garantire sicurezza e ordine pubblico, il disegno di legge si rivela, nella sua sostanza, uno strumento destinato a trasformare il tessuto sociale e politico del paese, spingendolo verso una configurazione repressiva e autoritaria.

Le sue implicazioni non riguardano semplicemente l’applicazione del diritto penale, ma colpiscono direttamente il cuore delle libertà individuali e collettive, stravolgendo il rapporto tra cittadini e istituzioni.

Il DDL 1660 non è un’iniziativa isolata di un governo di estrema destra, ma il culmine di un percorso fatto di una lunga serie di decreti sicurezza iniziato da governi di centro-sinistra (D’Alema, Renzi-Lupi, Minniti, Minniti-Orlando), proseguito dal governo “giallo-verde” con i pacchetti sicurezza di Salvini e portato avanti anche dal governo Meloni stesso con il decreto anti-rave e il decreto Caivano.

Questo disegno di legge si inserisce in un panorama segnato da crisi economiche, politiche e sociali che da decenni scuotono le società occidentali. In Italia, come altrove, queste crisi vengono affrontate con misure che puntano non a risolverne le cause profonde, ma a reprimere i loro effetti visibili quali la marginalità sociale, le proteste, le lotte per i diritti e la giustizia, che vengono trattate non come sintomi di un disagio che richiede soluzioni, ma come minacce da eliminare.

Questa repressione è funzionale a un progetto più ampio, quello di consolidare un sistema di controllo che rafforzi lo stato di polizia. La militarizzazione del fronte interno, già evidente da anni, trova nel DDL un ulteriore sviluppo: le risorse pubbliche vengono dirottate dalla spesa sociale verso l’apparato repressivo, mentre il potere delle forze dell’ordine si amplia in maniera sproporzionata, trasformandole in una casta privilegiata, esente da vincoli e responsabilità.

Il DDL 1660 infatti introduce una divisione netta tra amici e nemici dello Stato, operando attraverso due logiche principali: il “diritto penale dell’amico” e il “diritto penale del nemico”.

Il primo si traduce in un regime di privilegi riservati alle forze dell’ordine e alle forze armate, che diventano non solo strumenti di repressione, ma parti integranti di un sistema elitario.

Tra i privilegi previsti vi sono: la possibilità di portare armi senza licenza (Art. 28), trasformando gli agenti in una sorta di “giustizieri della notte”, la copertura legale fino a 40.000 euro per gli agenti imputati per abusi

durante il servizio (Art. 22 e 23), eliminando di fatto ogni rischio personale anche in caso di comportamenti eccessivi o illegali, il potenziamento dei servizi segreti (Art. 31), autorizzati a infiltrare, guidare e finanziare associazioni criminali o terroristiche senza incorrere in sanzioni.

Il “diritto penale del nemico”, invece, colpisce chiunque venga considerato una minaccia per l’ordine costituito, e questo include non solo criminali tradizionali, ma anche dissidenti politici, attivisti sociali, marginali e occupanti.

Il dissenso viene così criminalizzato attraverso nuove fattispecie di reato e l’inasprimento delle pene esistenti: l’occupazione di immobili (Art. 10) diventa un reato severamente punito, colpendo tanto chi occupa per necessità quanto chi supporta queste azioni con atti di solidarietà, la reintroduzione del reato di blocco stradale (Art. 14) criminalizza pratiche di lotta fondamentali per i movimenti sindacali e ambientalisti, le manifestazioni pubbliche vengono represse con nuove aggravanti e pene più dure, rendendo più rischiosa ogni forma di protesta.

Tra queste: attivismo ambientalista, sciopero dei lavoratori, proteste contro le grandi opere, occupazioni abitative, lotte studentesche, rivolte nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), sommosse nelle carceri da parte dei detenuti che protestano per condizioni disumane e persino persone che manifestano solidarietà con queste lotte.

Questa definizione allargata del dissidente è funzionale a una strategia politica precisa: eliminare ogni forma di dissenso e ridurre la società a un corpo docile e controllabile. In questa logica, i dissidenti sono rappresentati come una minaccia non solo per l’ordine pubblico, ma per la sicurezza nazionale, giustificando così l’uso di misure estreme per la loro neutralizzazione. Un aspetto fondamentale del DDL 1660 è la sua guerra alla marginalità sociale. Il decreto non si limita a reprimere il dissenso politico, ma colpisce anche le fasce più vulnerabili della popolazione. Il DDL 1660 non è solo un insieme di norme, ma un progetto politico per trasformare l’Italia in una società caserma, in cui il controllo sociale è totale e ogni forma di libertà è subordinata agli interessi dell’élite dominante. In questa società, il conflitto sociale è bandito, il dissenso è criminalizzato e la marginalità è nascosta o eliminata. Questo disegno di legge rappresenta una minaccia non solo per i diritti individuali, ma per l’idea stessa di democrazia. La sua approvazione segnerebbe un passo decisivo verso un futuro in cui la giustizia non è più un valore universale, ma uno strumento al servizio del potere.

Ⅲ. PALESTINA: IL SILENZIO DELLA GIUSTIZIA

Il conflitto israelo-palestinese è uno dei conflitti più complessi e prolungati della storia moderna. Al contrario di come affermano alcune forze reazionarie, non ha inizio il 7 ottobre 2023 ma affonda le sue radici al periodo del mandato britannico in palestina tra il 1917 e il 1948, anno nel quale è iniziata fattualmente l’occupazione e la colonizzazione  israeliana dei territori palestinesi. Le risoluzioni ONU votate nel 1947 prevedono la separazione del territorio dello stato palestinese in due porzioni, il 56,47% per la creazione dello Stato di Israele e la restante parte allo stato palestinese, con capitale Gerusalemme considerata territorio internazionale, anche se attualmente l’autorità palestinese controlla solo il 22% del territorio. Dal 7 ottobre stiamo assistendo a un incremento della violenza dell’attacco da parte dello stato di Israele che sta perpetrando un vero e proprio genocidio ai danni del popolo palestinese: raid, bombardamenti e attacchi alle infrastrutture generano, di conseguenza, un incremento della visibilità di tale situazione.

Ciò che sta avvenendo attualmente in Palestina è da inserire in un quadro più ampio. L’allargamento dei conflitti in Medio Oriente, lo scoppio della guerra in Ucraina, le crescenti tensioni e la corsa agli armamenti ai quali stiamo assistendo in questo periodo storico sono il frutto di un processo che trova le sue origini nella natura stessa del sistema economico nel quale viviamo. Da anni Israele, come la NATO e tutte le più grandi potenze economiche mondiali, portano avanti politiche

imperialiste, ai danni delle nazioni ritenute più deboli e povere, trovando la loro fonte di guadagno in questi conflitti e nella distruzione di intere città, aree industriali, porti e basi militari che bisognerà ricostruire da zero. Questo neocolonialismo economico è volto ad espandere le sfere di influenza per accaparrarsi zone commercialmente strategiche o ricche di risorse naturali indebitando e sottomettendo intere popolazioni che, dalla guerra, non guadagneranno nulla, anzi, pagheranno un caro prezzo.

Per questo motivo non bisogna fare l’errore di prendere le parti dell’una o dell’altra potenza imperialista coinvolta in questi conflitti né tantomeno considerare i governi dei paesi membri della NATO, primo tra tutti quello italiano, come estranei a queste dinamiche. Ma al contrario bisogna sostenere attivamente il diritto alla difesa dei popoli oppressi. Non dobbiamo pensare che il sostegno e il contributo dell’Italia in tali questioni non siano concreti e non ricadano su noi studenti. Il coinvolgimento degli atenei italiani nei piani imperialisti della NATO avviene tramite legami e accordi con il governo israeliano e le più grandi multinazionali del settore bellico, come la Leonardo e la MBDA (multinazionale produttrice di missili e sistemi d’arma di cui la Leonardo detiene il 25%). La Sapienza, prima tra tutte le università per quanto riguarda il finanziamento di Israele, che continua a proporre stage e tirocini in queste industrie mirati alla formazione di figure professionali adatte alle finalità produttive del settore bellico. Inoltre lo Stato italiano è obbligato, in quanto stato membro della NATO, a impiegare il 2% del PIL (che equivale a 45 miliardi di euro), in armamenti, obiettivo attualmente impossibile ma al quale l’attuale governo, come i governi precedenti, si sta impegnando a raggiungere. La coperta però è corta, i 32 miliardi previsti per le spese belliche nel 2025 implicano ulteriori tagli alle spese pubbliche come la sanità, le infrastrutture e l’istruzione. Riguardo quest’ultima si evidenziano tagli di notevoli dimensioni: la dotazione organica complessiva sarà ridotta di 5660 posti dell’organico del corpo docenti; inoltre “si procede alla revisione dei criteri e dei parametri previsti per la definizione delle dotazioni organiche del personale amministrativo, tecnico e ausiliario della scuola”, gli ATA, in modo da conseguire una riduzione nel numero dei posti pari a 2.174 unità.  A tutto ciò si aggiunge, inoltre, la mancanza e, se presenti, la settorializzazione dei fondi tramite il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, capitale a noi in prestito dalla UE, che deve essere speso obbligatoriamente in settori da loro decisi). Sono troppo le scuole che versano in condizioni fatiscenti e pericolose, mancanti dei più basilari servizi e degli spazi didattici essenziali, come laboratori e palestre, specialmente negli istituti di periferia. Sono più di vent’anni che vengono tagliati fondi alla scuola a danno dell’edilizia dei singoli istutiti, per questo pretendiamo strutture adeguate al compimento di un apprendimento consono.

Ciò si riversa anche sulla nostra scuola, considerata di ”serie A”, che cade a pezzi: infiltrazioni nei tetti delle aule, porte dei bagni o inesistenti o rotte o risalenti alla costruzione dell’istituto, la chiusura dello sportello d’ascolto, la chiusura dell’aula musica (per motivazioni a noi studenti sconosciute e resa un magazzino).

Inoltre evidenziamo come l’attuale governo Meloni sia responsabile dei tagli ai fondi universitari. Così si evince leggendo la bozza del decreto con cui il ministero dell’Università e della Ricerca stabilisce come deve essere ripartito il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), che serve per coprire le spese istituzionali, tra cui i costi del personale e del funzionamento per gli atenei statali, per il 2024.

Il MUR parla di un aumento, quest’anno, del 21% dei fondi in relazione al periodo pre-pandemico. In generale, quest’anno non c’è stato alcun aumento, ma sono stati fatti dei tagli, di 173 milioni di euro (da 9,2 mld a 9,03, tuttavia, tiene a farci sapere che non sono stati così drammatici da farli tornare ai livelli pre-covid, più bassi.

In realtà si tratta di tagli ingenti (1,85%) e, soprattutto, dei primi tagli fatti al FFO dal 2013. Molte università si ritrovano con tagli superiori al 3%, con la media dei tagli per singolo ateneo al 2,12% e con solo 6 atenei

che riescono a non vedere diminuita la loro quota di fondi.

Con questo anche i salari verranno ulteriormente tassati, questo a causa di un’ingiusta posizione che il nostro governo ha assunto all’interno di questo conflitto.

Ⅳ. IL NUOVO VOLTO DELL’EDUCAZIONE

Negli ultimi trent’anni, la scuola ha progressivamente smesso di svolgere il suo tradizionale ruolo di ascensore sociale, trasformandosi in un ambiente che, invece di promuovere opportunità di progresso e crescita, si configura come una sorta di gabbia. Al suo interno, gli studenti sono costretti a interiorizzare i meccanismi di selezione e disuguaglianza che caratterizzano la società contemporanea. L’istituzione scolastica, pertanto, non solo non adempie più alla sua funzione di strumento di mobilità sociale, ma diventa essa stessa il riflesso di dinamiche di esclusione e stratificazione sociale più ampie, limitando significativamente le opportunità di accesso a un futuro migliore per una larga parte della gioventù.

Riaprire il dibattito sul futuro della formazione pubblica nel nostro paese significa quindi,  rompere questo modello per costruire una nuova scuola pubblica all’interno di una nuova società. È impossibile però slegare la questione dell’istruzione dall’analisi sulle forme attuali del lavoro e, quindi, dello sfruttamento, poiché essa è determinata in ogni epoca dalle condizioni dello sviluppo sociale: le trasformazioni della scuola vanno lette quindi in relazione alle esigenze di produzione della conoscenza e delle competenze del capitale.

Ne consegue che la scuola stessa si trasforma nel settore centrale per la creazione di forza lavoro a basso costo, nonché per l’aumento della produttività e della competitività. In questo senso, non solo perde di funzione l’attività divulgativa della formazione e di trasmissione della conoscenza per la definizione di nuova conoscenza, ma i talenti umani si valorizzano direttamente come capitale umano e la selezione interna

alla classe diventa spietata, in particolare per la necessaria capacità di adattamento richiesta da un mondo della produzione e del lavoro basato sulla flessibilità sociale e sull’innovazione tecnologica.

A tale proposito sono diverse le iniziative volte all’incremento dell’ingerenza dei privati all’interno dell’istruzione pubblica:

Introdotta dal Governo Renzi nel 2015 nell’ambito della riforma denominata “Buona Scuola”, l’Alternanza Scuola-Lavoro viene spacciata come un mezzo per favorire l’approccio dei giovani al mercato del lavoro, aumentare le competenze, ridurre il rischio di disoccupazione.

Tuttavia riteniamo che essa, nella maggior parte dei casi, si configura come un utilizzo immediato e strumentale di manodopera gratuita, costituita dagli studenti inviati in azienda anziché proseguire il loro percorso scolastico e rappresenta anche e soprattutto un’operazione mirata a plasmare la coscienza degli studenti, con obiettivi ben precisi: l’adattamento a un modello di precariato, a una vita caratterizzata da lavori temporanei, mal retribuiti e privi di tutele, in un contesto che risponde alla necessità di confindustria di una forza lavoro ultra specializzata e precaria. In questo processo, si promuove l’internalizzazione dei principi del mercato – competitività, fluidità, individualismo, merito, ecc. – che vengono presentati come naturali e giusti. In questo contesto, a due anni di distanza dalle morti dei 3 studenti Giuseppe, Lorenzo e Giuliano, riteniamo sia necessario riprendere il discorso relativo all’alternanza richiamando all’abolizione di quest’ultima, in quanto non c’è orizzonte per uno sfruttamento positivo o un’omologazione passiva a un futuro sfruttamento.

Lo scorso 24 giugno inoltre un ulteriore passo per la privatizzazione è stato fatto con l’istituzione della Fondazione per la Scuola Italiana: ente no profit che opererà in coordinamento tra il ministero dell’istruzione e del merito e cinque aziende italiane: Unicredit, Enel Italia, Leonardo, Banco bpm, Autostrade per l’Italia, per gestire risorse ed esigenze del mondo dell’istruzione attraverso lo sviluppo di progetti e brandi. Nell’occasione, il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara, ha

dichiarato: “All’insegna di una grande alleanza tra pubblico e privato, è importante incoraggiare anche gli investimenti del mondo dell’imprenditoria e della finanza per contribuire a supportare, in sintonia con le politiche pubbliche, il sistema scolastico, rendendolo sempre più competitivo. In questa direzione va la costituzione della Fondazione per la scuola italiana». Anche per giustificare una tale scelta, il ministero ha sottolineato, sul proprio sito, come in Italia gli investimenti dei privati nella scuola rappresentino solamente lo 0,5% delle spese totali rispetto alla media OCSE, che invece si attesta al 2%.”

La riforma della scuola inserisce inoltre il cosiddetto modello 4+2, dal tessuto economico locale e consente di inserire nel corpo docenti profili che provengono dal mondo del lavoro e dell’impresa. Il cuore della riforma del modello “4+2” è quello di prevedere un ciclo di studi di quattro anni per ottenere un diploma che abbia lo stesso valore legale del quinquennale tradizionale, al quale però può far seguito una specializzazione di due anni da conseguire presso gli ITS Academy o altre istituzioni di formazione superiore non accademica. Con la riforma è stato formalmente dato il via libera a veri e propri contratti con «soggetti del sistema delle imprese e delle professioni» chiamati a svolgere attività «di insegnamento e di formazione nonché di addestramento nell’ambito delle attività laboratoriali e del Pcto». 

In parallelo, le scuole non sono equipaggiate per affrontare adeguatamente i problemi riguardanti la salute mentale degli studenti. Il personale docente, non è formato per riconoscere i segnali di disagio psicologico, e le risorse destinate a servizi di consulenza psicologica sono insufficienti o inesistenti in numerosi istituti scolastici. 

In molti casi, la figura dello psicologo scolastico è assente, e se presente, il suo lavoro non gli permette di seguire adeguatamente ogni studente che possa necessitare di supporto.

L’Italia è l’unico Paese in Europa a non aver istituzionalizzato la figura dello psicologo come professionale: in passato esistevano finanziamenti specifici per l’assistenza psicologica a scuola grazie all’introduzione di

fondi. Quello che manca in Italia, infatti, è l’istituzionalizzazione cioè che venga definito come una figura in organico. Alcuni interventi sono stati fatti negli ultimi anni, ma spesso si tratta di iniziative temporanee o locali, lasciate all’autonomia delle singole scuole o enti locali.

In alcune realtà, il supporto psicologico è ancora visto come qualcosa di “extra” o destinato a casi estremi, anziché come uno strumento preventivo per il benessere degli studenti e della comunità scolastica. Questo può ridurre la domanda di psicologi scolastici da parte delle istituzioni.

Con l’autonomia scolastica, le singole scuole hanno la facoltà di scegliere se e come dotarsi di uno psicologo, spesso attraverso progetti esterni o collaborazioni con ASL e cooperative. Questo rende il servizio frammentato e non omogeneo sul territorio.

Questa gestione frammentata e poco uniforme del supporto psicologico riflette una visione limitata della scuola come luogo di formazione integrale e benessere, privilegiando invece una logica funzionale e strumentale. Tale impostazione si collega a una tendenza più ampia verso un modello di gestione scolastica centralizzato e gerarchico, in cui l’autoritarismo accademico pone ordine e controllo al centro, spesso a scapito della libertà educativa e della centralità dello studente.

In italia, questa tendenza si è intensificata negli ultimi anni con l’introduzione di norme che rafforzano i poteri dei dirigenti scolastici, come la riforma della condotta del ministro dell’istruzione Valditara, che ha istituito la figura delle “presidi sceriffo” giustificando queste misure con l’intenzione di ristabilire il rispetto per l’autorità e creare un ambiente più favorevole alla formazione, in cui i meriti possano essere valorizzati: “Con la sentenza di condanna per i reati commessi in danno di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico o ausiliario della scuola, a causa o nell’esercizio del suo ufficio o delle sue funzioni, è sempre ordinato, oltre all’eventuale risarcimento dei danni, il pagamento di una somma da 500 euro 10 mila a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’istituzione scolastica di appartenenza della persona offesa. L’importo della somma è determinato dal giudice”. 

Un modello che privilegia il controllo e la punizione rischia di soffocare questi obiettivi, favorendo un clima di paura e competizione. Il rispetto per le regole, fondamentale in ogni comunità, dovrebbe essere costruito attraverso il dialogo, la comprensione delle conseguenze e l’interiorizzazione dei valori, non imposto con minacce di punizione. L’educazione è un processo che richiede ascolto, confronto e flessibilità, elementi che un modello autoritario rischia di mettere in secondo piano.

Ⅴ. DISARMIAMO IL PATRIARCATO: PER UN ALTRO GENERE DI EDUCAZIONE

Con violenza di genere intendiamo molestie verbali, sessuali, violenze fisiche, sessuali e non, violenze psicologiche fino ad arrivare ai tanto discussi, anche se non abbastanza, femminicidi, passando per stalking, divulgazione di video o foto chiamato erroneamente ‘revenge porn’, e altri tipi di atti figli della mentalità patriarcale intrinseca in tutta la nostra società. 

In italia solo nel 2024 ci sono stati più di 90 femminicidi, e ancora non si riconosce il problema alla base anzi, si cercano agenti esterni a cui dare la colpa come l’immigrazione illegale (parole del ministro Valditara). Questo tentativo di spostamento avviene perché per le persone che hanno potere nel nostro paese, il patriarcato non esiste, quando invece, il sessismo è tutt’ora presente e forse anche più pericoloso data la superficialità con cui lo si tratta arrivando perfino a dichiararlo estinto. 

Una società dove gli uomini hanno il 28% di retribuzione in più rispetto alle donne, dove per far lavorare anche le donne abbiamo bisogno delle quote rosa, perché senza sarebbero trattate con diversi criteri e quindi per la maggior parte scartate. Una società che alza le tasse, di conseguenza i prezzi, su beni di prima necessità, come assorbenti e contraccettivi esplicitandoli come beni di lusso. Una società che non riconosce il sessismo che permea essa stessa, un sessismo che colpisce tutti, che non permette agli uomini di entrare in contatto con le proprie emozioni senza sentirsi giudicati, che non permette alle donne o alle soggettività libere di uscire di casa senza avere paura, per citare solo alcuni dei mille problemi conseguenze del sessismo, che non permette di lavorare, di esistere con le stesse pari possibilità a tuttx xlx cittadini, questa è la nostra società. 

LA NOSTRA SOCIETÀ È PATRIARCALE. 

Valditara ci dice 《Cacciari esagera quando dice che il patriarcato è morto duecento anni fa ma come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975》e aggiunge a proposito della “questione femminile”《residui di maschilismo, di machismo, che vanno combattuti e che portano a considerare la donna come un oggetto》.

La presidentessa del consiglio deride il femminismo e la parità di genere durante i suoi comizi, questo è un governo patriarcale che finge di non esserlo e ci dice che dobbiamo combattere la discriminazione in base al sesso, quando loro non fanno niente a riguardo, anzi.

Il governo di oggi, si impegna più per la chiusura di consultori che per il sostegno ai cittadini. 

I consultori, come luoghi pubblici, sicuri per l’aiuto pubblico sanitario alle donne, ai giovani e alle famiglie devono rimanere liberi, questi sono in pericolo e lo vediamo con il processo di interruzione di gravidanza che tende a diventare sempre più difficile e inaccessibile. Più della metà dei dottori, ginecologi compresi, sono obiettori di coscienza, quindi legalmente possono rifiutarsi di aiutare chi vuole coscientemente abortire. Ad aggravare ciò la legittimazione da parte del governo permette la presenza delle associazioni pro-vita all’interno di queste strutture, le quali, associazioni, mettono a disagio e in difficoltà chiunque volesse intraprendere un percorso così importante e privato. 

Il processo che si vuole intraprendere di “chiudere” i consultori a coloro che hanno bisogno è la risposta repressiva di una società, appunto,

patriarcale. Come facciata cercano di dare il via a pochi progetti per aiutare donne, uomini e chiunque dopo aver subito qualsiasi tipo di discriminazione o molestia, ma per prevenire non si mobilitano in alcun modo istituzionale. 

oi come persone, in tutto il mondo, nella nostra nazione, nella nostra città, in tutte le scuole abbiamo il bisogno di una pedagogia transfemminista, di un’educazione sessuo-affettiva per prevenire tutte le complicazioni di una vita in questa società. Abbiamo tuttx bisogno di un’educazione al rispetto verso le donne, verso ogni altra persona e verso noi stessi, di insegnamenti per la nostra tutela in relazioni sessuali, affettive, romantiche e tutela psicologica per evitare scuse come: “era stressato quindi l’ha uccisa”. Se si prendono provvedimenti per questi temi sono sempre per curare un male e non per prevenirlo. Non vogliamo solo l’ergastolo per gli assassini, vogliamo che non ci siano più femminicidi. Vogliamo l’aggravante di stalking per Filippo Turetta, vogliamo che vengano viste tutte queste sfaccettature della violenza che non vengano considerate. 

Perché le vittime di violenza non sono solo le vittime di femminicidio e non dobbiamo aspettare che una donna muoia per prendere in considerazione la sua situazione di pericolo. Dobbiamo prevenire e per farlo bisogna riconoscere e parlare di questi temi. 

Noi vogliamo diffondere la visione di una parità possibile e fondamentale, con donne nei programmi ministeriali, con degli sportelli di sostegno psicologico nelle scuole e con l’educazione sessuo-affettiva obbligatoria. Non Possiamo stare fermi davanti alla corrosione dei diritti sotto un governo repressivo, patriarcale e sessista a cui non interessa il benessere dei propri cittadini, NOI cittadini.

Ⅵ. OLTRE IL PROFITTO: AMBIENTALISMO CONTRO IL CAPITALISMO DELLE GRANDI OPERE

La crisi climatica è una realtà che si manifesta con sempre maggiore

evidenza e che ha un impatto crescente sui nostri territori e sulle nostre vite, anche dal punto di vista economico. Tutti i giorni assistiamo a scelte dei governi che, invece di essere incentrate sulla sostenibilità e sulla tutela ambientale, privilegiano grandi opere inutili e dannose. Stiamo assistendo ad una crisi climatica ed ambientale che si sta sviluppando sempre di più e sta distruggendo il nostro pianeta. Mentre tutti noi viviamo questo fenomeno, il governo sceglie di non affrontare la questione climatica se non tramite un greenwashing che privilegia unicamente le grandi aziende senza risolvere in alcun modo il problema. Purtroppo però temperature eccezionali, siccità, perdita di biodiversità, scioglimento dei ghiacci, alluvioni, dissesto idrogeologico, consumo di suolo, cementificazione e inquinamento non sono emergenze, sono la norma e lo continueranno ad essere se invece di investire in politiche di manutenzione e cura del territorio, il governo porterà avanti una politica basata sulla transizione ecologica utile solo ad arricchire chi gestirà questa insufficiente transizione. A dimostrazione di questo abbiamo due esempi: gli alluvioni in Emilia Romagna e a Valencia. Questo succede a causa della cementificazione, in Italia in soli 16 anni sono stati cementificati oltre 121.560 ettari di suolo e questo porta a una perdita dell’impermeabilità del territorio. Per fronteggiare il disfacimento del territorio, a cui stiamo assistendo, serve fermare e rallentare l’urbanizzazione. Le responsabilità di questa crisi non sono equamente distribuite, come non lo sono i suoi effetti:ad esempio l’1% più ricco della popolazione mondiale emette il 15% delle emissioni totali di CO₂, superando quelle prodotte dal 50% più povero della popolazione globale. Le persone che vivono in povertà sono le più vulnerabili agli effetti della crisi climatica, come siccità, inondazioni e perdita di mezzi di sussistenza, pur avendo contribuito minimamente al problema. Solo 100 aziende (tra cui colossi dell’industria fossile) sono responsabili di circa il 71% delle emissioni globali di gas serra dal 1988 a oggi. Alla crisi ambientale contribuiscono anche le grandi opere, spesso giustificate con la retorica dello sviluppo e della modernizzazione, non rispondono alle

nostre reali esigenze e simboleggiano un modello di sviluppo obsoleto, che mette il profitto di pochi sopra il benessere collettivo e la tutela del bene comune. Lo stato porta avanti i progetti delle grandi opere che hanno un impatto ambientale devastante e come se non bastasse la maggior parte delle volte non vengono nemmeno portati a compimento, nel 2021 per esempio ammonta a 379 il numero di opere incompiute. In Val Di Susa, dagli inizi degli anni 2000, è in fase di progettazione una linea ferroviaria internazionale che va da Torino a Lione, percorrendo più di 200 km. In Sicilia, da più di 10 anni è stata avviata una nuova iniziativa, dal costo di oltre 14 miliardi di euro, ovvero la creazione di un ponte sullo stretto di Messina, per collegare la Sicilia alla Calabria e quindi per facilitare il trasporto di civili, merci (anche con treni ad alta velocità) e materiali militari. E in Toscana, nel 2022 è stata proposta dal governo Draghi la realizzazione della base militare di Coltano, in una zona protetta di un parco situato vicino a Pisa, con lo scopo di ospitare reparti speciali delle forze armate italiane. Proposta che ovviamente è stata ripresa dal governo Meloni nel 2024 Inoltre il 24 giugno 2024 è stato stanziato un fondo da 20 milioni di euro per realizzare il primo lotto dell’opera. Tutti questi progetti trascurano e sottovalutano la parte ambientale, mettendola in secondo piano. La costruzione della TAV rilascia una grande quantità di amianto ai danni di chi lavora nei cantieri e causa emissioni di CO2 che si compenseranno dopo più di 40 anni. Oltre al danno di questi gas, le falde acquifere della regione vengono contaminate ogni giorno, a causa della costruzione dei cantieri, con una quantità così elevata di sostanze dannose (PFAS) da avvicinarsi pericolosamente al limite legale in Italia. La costruzione del ponte sullo Stretto di Messina invece danneggia l’ecosistema locale e la sua biodiversità, altera le correnti e comporta un aumento dell’inquinamento causato dal traffico. L’inquinamento che deriva da questo progetto peggiorerà un equilibrio ambientale già delicato in Sicilia. Nonostante ciò, la Commissione Tecnica di Valutazione dell’impatto Ambientale, ha dato via libera al progetto del Ponte, ponendo come unico limite un

vincolo puramente teorico, ovvero 239 prescrizioni per tutelare l’ambiente naturale e marino. La realizzazione di un ulteriore problema, quello dei danni alle comunità locali. Queste opere implica espropri forzati di terre, ma soprattutto di abitazioni, sfollando famiglie e cittadini e creandogli disagi sia dal punto di vista economico che sociale. In Val Di Susa e in Sicilia questi progetti richiedono anche un impedimento dell’utilizzo di infrastrutture pubbliche. La militarizzazione del territorio per proteggere i cantieri ha creato una situazione di tensione che rende difficile, se non impossibile, l’uso e lo sviluppo delle infrastrutture civili. Inoltre il principale scopo della costruzione del ponte sullo stretto è quello di sfruttare i territori della Sicilia e aiutare le mafie e il processo di militarizzazione. Processo iniziato dalla NATO e che è anche l’obiettivo della base di Coltano.  Ormai viviamo sempre di più in un sistema influenzato da un progresso che genera crisi, conflitti e distruzione ambientale. Le grandi opere promosse dallo stato in accordo con l’élite economica, mirano a trasformare i territori italiani in un ambiente funzionale alla guerra e al trasporto di merci. Tutto ciò finanziato con il denaro pubblico dei cittadini per l’arricchimento di privati. Questo sistema consumistico, basato su un’economia monopolista, favorisce le grandi multinazionali andando a distruggere le piccole imprese e le comunità locali che non riescono a reggere la competizione con le grandi aziende multinazionali. Quello che emerge dal sistema attuale è un forte disinteresse per le reali necessità della popolazione, privilegiando invece progetti faraonici e senza una vera utilità. L’obiettivo dovrebbe essere una visione del progresso che faccia andare di pari passo la sostenibilità ambientale e le esigenze sociali tramite investimenti nelle infrastrutture di base e nei servizi essenziali, come scuole, università, ospedali, reti idriche e stradali. Una giusta transizione ecologica dovrebbe in primis rendere sostenibili le infrastrutture degli edifici pubblici già esistenti, delle aree urbane degradate e del trasporto pubblico, tutte al giorno d’oggi estremamente inquinanti. I Governi di tutto il mondo devono scegliere se condannare per sempre il futuro 

dell’umanità schierandosi dalla parte di poche grandi multinazionali o iniziare a cambiare realmente il nostro sistema produttivo incentrato unicamente sul consumo e sul guadagno. Stanno scegliendo la strada sbagliata e ora sta a noi lottare per ottenere il cambiamento che vogliamo.

APPELLO FINALE

In questo periodo storico, caratterizzato dalla costante repressione di questo governo reazionario e guerrafondaio, nonchè dall’indifferenza della società tutta, noi abbiamo deciso di prendere in mano il nostro futuro. Non staremo in silenzio, abbiamo deciso che era il momento di portare su un livello ancora più alto il percorso politico intrapreso fin dall’ inizio dell’ anno scolastico e di conseguenza abbiamo occupato la nostra scuola. 

La nostra occupazione da sola non basterà a cambiare questo sistema marcio e a risolvere i nostri problemi, sollecitiamo quindi chiunque a mobilitarsi di conseguenza. Le nostre rivendicazioni non sono individuali ma collettive e solo unendoci tutti riusciremo davvero a dare un primo scossone a questo sistema ingiusto. 

Invitiamo studentesse, studenti, donne, uomini, soggettività libere, collettivi, assemblee, lavoratrici, lavoratori e qualsiasi altra realtà sociale a sostenere e condividere la nostra occupazione e ad usare qualsiasi mezzo per rilanciare questa lotta.

L’assemblea degli occupanti

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