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Quando tutto ci viene sottratto. Riflessioni in merito ed oltre l’occupazione dell’Einstein

Condividiamo alcune riflessioni studentesche sulla vicenda dell’occupazione del Liceo Einstein di Torino.

Un paio di lunedì fa, a Torino, è iniziata l’occupazione del Liceo Einstein di via Bologna. 

Il collettivo per mesi ha fatto un capillare lavoro di informazione e risignificazione rispetto alla pratica dell’occupazione, arrivando a Gennaio con un numeroso nucleo di studenti/esse particolarmente consapevoli e determinati/e a generare un punto di rottura con l’istituzione scolastica. I giornali hanno riportato, perlopiù, una narrazione schiacciata su sensazionalistiche ricostruzioni suggerite dal preside in primis (che forse dovrebbe fare i conti con le condizioni in cui versa la sua scuola) e della polizia che non perde occasione per giustificare una condotta a dir poco inaccettabile nei confronti delle mobilitazioni studentesche. Non vengono, però, riportate nè le richieste nè le motivazioni che muovono gli studenti. E’ evidente che dei nodi sono rimasti irrisolti e che ciò che è stato conquistato l’anno precedente non è abbastanza. Allora viene criminalizzato l’atto di interrompere il servizio pubblico che perpetuo scorre facendo finta che tutto vada bene e che il sistema scolastico non stia cadendo a pezzi, così come la prospettiva di un futuro decente. Viene criminalizzato l’atto politico del sottrarsi alla riproduzione senza sosta delle nostre persone in una sola funzione rivolta al vantaggio del capitalismo e della sua brutalità.

Pensiamo che il vero crimine sia quello di non avere la capacità di interrompere una catena di morte e tristezza, pensiamo ci sia bisogno del coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo e osare di rendersi lo strumento che diventa un problema per questo paradigma. Crediamo che le stesse parole del collettivo dell’Einstein possano esprimere con chiarezza questa necessità e qui le riportiamo: “La scelta dell’interruzione delle lezioni e di tutti i servizi della scuola durante la giornata di martedì è scaturita da un lungo confronto tra occupanti. La sintesi di questo vede, non solo nelle attività critiche di questo sistema che proponiamo, un’effettiva alternativa alla scuola gentiliana, ma anche nell’interruzione delle stesse ore in cui è riprodotta la capacità-merce che dovremo vendere una volta uscitə da qui, una forma di alternativa espressa come rifiuto, il quale, manifestato nei confronti delle attività scolastiche, sottolinea una prospettiva di un effettivo avvicinamento a un cambiamento positivo che inizi a diventare sempre più concreto, grazie alla nostra lotta.”

Questo è il punto, per quanto la presidenza scolastica e il suo consiglio di professori continui a riferire che questi/e studenti/esse agiscano inconsciamente e manipolati da forze esterne, a noi questo sembra il discorso più lucido fin qui ascoltato. Non serve usare grandi paroloni quando è la nostra esistenza ad essere il campo di battaglia. 

Queste rivendicazioni guardano talmente oltre da non essere comprensibili per chi accetta di essere un attore e non un agente di modificazione dell’esistente. A noi sembra chiaro che ad essere inconsci e manipolabili siano queste istituzioni scolastiche che per quanto siano, allo stesso modo degli/delle studenti/esse, derubati ogni giorno della loro capacità critica e del loro margine di azione soggettivo, non si rendono conto di giocare il ruolo che qualcuno sopra di loro ha stabilito debbano avere. 

Interrompere le lezioni in modo netto non è una dichiarazione di guerra ai professori ma è un gesto necessario per alzare il livello della contraddizione, per uscire dai ranghi del compromesso perché oggi scendere a compromessi significa firmare una dichiarazione di resa. 

Qua è importante riprendere il filo rispetto a ciò che l’anno precedente si è manifestato. Una mobilitazione dispiegata, senz’altro, ma con molti limiti nel spingersi oltre ciò che veniva concesso. A Torino nel Febbraio 2022 hanno occupato 60 scuole e tutte hanno mantenuto una via di mezzo tra le richieste degli studenti e il pugno duro dei presidi. All’Einstein, come in molti altri collettivi nati proprio da quell’esperienza, questo all’oggi è stato ritenuto uno dei problemi che hanno impedito il raggiungimento degli obiettivi che la mobilitazione si poneva l’anno scorso. 

Da un anno a questa parte molto è cambiato: le criticità aumentano, la qualità della vita diminuisce a vista d’occhio, non sappiamo che futuro ci attende e di certo una prospettiva di guerre dispiegate e di effetti sempre più nefasti legati al cambiamento climatico non è così distante, se non già in atto. C’è fretta di approfondire questi nodi perché c’è bisogno di certezze e non ne abbiamo neanche una al momento. La sensazione di valere sempre meno e che la propria voce venga schiacciata sotto una mole di contingenze a noi avulse è esponenzialmente più tangibile. La storia dimostra che, con l’inasprirsi delle condizioni della vita, anche alle lotte tocca la stessa sorte. Perchè serve questo per non sopperire, per far emergere il capo da sotto la sabbia e non essere seppelliti vivi. Quando tutto ci viene sottratto, questi corpi e queste voci sono tutto ciò che ci resta per non essere complici passivi di questo vortice distruttivo. E ciò non può essere un crimine. A cosa serve andare a scuola regolarmente se non sappiamo cosa ci attende fra 10 o 20 anni? La formazione avviene in molti modi e non crediamo che in quei giorni gli/le studenti/esse dell’Einstein non abbiano aggiunto contenuti e valori al loro bagaglio soggettivo, anzi, probabilmente attraversare uno spazio che dipende interamente dalla tua capacità di determinarlo, partecipare a momenti di formazione dal basso e di parte, costruire e organizzare anticipatamente questi momenti per tutti e tutte è forse la scuola più formativa che possa esserci. Costruire la propria autonomia, la propria capacità decisionale indipendente e lavorare per rendere questa attraversabile da centinaia di persone stimola e sviluppa delle intelligenze qualitativamente imparagonabili.Le stesse intelligenze che il modello performativo e sterile dell’istruzione scolastica contribuisce a distruggere per lasciare spazio a cervelli manipolabili e pronti ad accettare qualsiasi cosa gli venga propinata. 

E’ probabilmente proprio questo che tanto viene temuto, la riproduzione di soggettività in grado di mettere in dubbio la versione caricaturale che gli viene raccontata rispetto all’ordine delle cose. Appare ormai evidente che il mondo non funziona per come ce lo raccontano, e questo rendersene conto è un grosso problema per chi ha interessi invischiati proprio con la buona tenuta di questo sistema. 

Esattamente sulle forme in cui questa paura si manifesta, vogliamo soffermarci. Sicuramente sono degni di nota almeno due fatti che sono stati anche quelli più eclatanti (almeno per la stampa mainstream). Uno è di certo quello accaduto martedì: il tentativo di entrare nella scuola da parte della DIGOS, che è stata respinta e che come risposta ha ben pensato di strangolare uno studente minorenne (un infiltrato di certo) che nel mentre urlava per la mancanza di ossigeno dovuta alla stretta che un pezzo grosso della questura di Torino aveva intorno al suo collo. Il secondo è questa rievocazione storica della marcia dei 40 000 che il preside Chiauzza ha provato a mettere in scena nella giornata di giovedì, attraverso rocambolesche pratiche per convincere gli/le studenti/esse a mettersi contro gli occupanti della sede di via Bologna.
C’è il tratto comune per cui la narrazione che viene fatta su entrambe le dinamiche sia, non solo distorta, ma largamente inventata perchè evidentemente a raccontare i fatti per ciò che sono non esisterebbero i presupposti per poter piangere sulla copertina di un giornale locale. Dall’altra, ben meno allegorico, il tentativo scientifico di mettere gli/le studenti/esse gli/le uni/e contro gli/le altri/e usando coercitivamente il proprio ruolo impari verso gli studenti non direttamente coinvolti nell’occupazione (banalmente facenti parte di un’altra sede) e attraverso il ricatto delle assenze e della promozione provare a comprare un consenso vuoto di contenuti, vittimistico e pietoso. La “protesta” dei dissidenti all’occupazione è stata proprio intraprendere 5 minuti di silenzio, senza avvicinarsi all’occupazione che invece stava aspettando l’arrivo di questa delegazione per accoglierla e dimostrare quello che realmente si stava intraprendendo all’interno di quell’esperienza di autorganizzazione. Rispondono, insomma, tacendo di fronte a chi invece invoca il diritto a prendere parola. Un simbolismo che poco ha da essere spiegato. 

 Per quanto simbolo di debolezza e paura della controparte, questa strategia divisoria vecchia come il mondo purtroppo tende a funzionare in alcune scale di interpretazione. Anche a seguito dell’occupazione dell’Einstein e adesso, durante quella al Primo Artistico (di Torino), il discorso che a ripetizione viene fatto agli studenti è tutto schiacciato su questo livello e per chi non ha consapevolezza diventa una buona e facile sponda su cui approdare per prendere posizione. 

La conflittualità, senza una mobilitazione dispiegata, non è quasi mai di facile comunicabilità verso i più, specie se questi non vivono condizioni di insofferenza ostracizzata, o alle volte proprio perché la vivono e ne sono accecati. Ciò nonostante c’è un dato che osserviamo e che non dovrebbe interessarci meno di altri elementi finora osservati che dimostravano caratteristiche più massificate cioè che c’è una soggettività, che per quanto residuale nei numeri, esprime una voglia di riscatto tangibile e una spinta antagonista che non va tralasciata, incapace ad organizzarsi di per sé ma con forti velleità concrete. A questo si aggiunge anche l’elemento per cui, se l’anno scorso la controparte ha in qualche goffa maniera tentato di cercare una mediazione con la composizione giovanile in mobilitazione, che è stata anche accolta, quest’anno si vuole tentare di sradicare una qualsiasi possibilità di emulazione e quindi di ripartenza dell’attivazione politica dispiegata. I metodi sono sempre quelli che conosciamo ma la triste verità è che ancora non abbiamo la corazza giusta per respingerli su larghe scale. Ciò che resta saldo deve poi solamente occuparsi della gestione postuma di questi attacchi colpo su colpo invece che sfruttare tempo e intelligenza nell’impreziosire una proposta politica in divenire. Se è vero che “al vento fanno solo perdere tempo”, questo tempo perso inizia ad essere tanto e dovremmo interrogarci su strategie di fuoriuscita dai labirinti che le procure costruiscono per tenere in stand by possibilità che hanno un forte potenziale di trasformazione.

Ora le istituzioni scolastiche dell’Einstein si stanno facendo supportare dalla polizia e dalla DIGOS per intraprendere contromisure disciplinari verso gli/le  studenti/esse che hanno occupato. Parliamo di interi reparti che stazionano dentro la scuola con non si capisce quale funzione educativa. Pare chiaro che l’unica funzione che all’oggi interessa avere al preside è quella della vendetta e della criminalizzazione. Nel frattempo fuori dalla sede e durante il consiglio straordinario d’Istituto gli/le studenti/esse hanno chiamato un pranzo condiviso di solidarietà alle persone additate come i/le responsabili di un processo che invece è stato ed è collettivo. Questo momento di sostegno è stato molto partecipato a dimostrazione del fatto che non si vuole arretrare sul terreno di terrore che si sta generando a causa di queste persecuzioni. A sentire gli/le studenti/esse, non si fermerà qua la lotta che hanno iniziato e anzi l’inasprirsi della contrapposizione che il preside sta agendo nei loro confronti troverà una forte resistenza che proverà ad approfondire le contraddizioni su cui ora si gioca lo scontro. Non possiamo lasciare soli/e questi giovani ragazzi/e di fronte a una tale brutalità. C’è bisogno che tutt coloro che ancora credono o inneggiano ad una scuola di tipo democratico e a misura di studente, si espongano su questi fatti che sono di una gravità inaudita. Non può essere un crimine volere una scuola migliore.

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