Iconografia della crisi
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L’iconografia, tecnicamente, riguarda le arti figurative. Anche la politica, tuttavia, produce spesso immagini con una forte valenza simbolica, specialmente nello sforzo di auto-legittimarsi e nella costruzione di miti fondativi. La storia dell’intreccio tra simboli e politica nel nostro paese è particolarmente interessante se analizzata con la lente del genere. A proposito del Risorgimento, ad esempio, si può parlare di un vero e proprio gender painting, dove la donna è figura allegorica per eccellenza: il suo corpo rappresenta, di volta in volta, la fecondità della nazione nascente, la terra da difendere, la terra disonorata da riscattare, il valore supremo della famiglia ecc… Gli esempi pittorici sono numerosissimi, basta contemplare la letteratura in materia.
L’uso allegorico e politico della figura femminile resta in gran parte invariato nel corso della storia italiana dal Risorgimento ad oggi. Il fascismo vi attinge a piene mani portandolo al parossismo, ma anche la democrazia del dopoguerra si muove ampiamente in questo orizzonte simbolico. L’esempio più recente, e a tratti paradossale, di questa iconografia irriducibile si può ritrovare nel movimento Se non ora quando che – in una certa misura – ha cercato di operare una risemantizzazione dell’immaginario tradizionale (e, va da sé, patriarcale): la “donna per bene” come figura del riscatto nazionale è, infatti, una versione rivisitata e ammodernata di vecchie allegorie.
L’attuale fase politica e la cronaca degli ultimi mesi offrono un secondo esempio particolarmente interessante: il governo Monti, infatti, ha operato uno sforzo notevole sul piano dell’auto-legittimazione simbolica con cui ha tentato di aggirare il deficit di legittimità politica che lo caratterizza. La figura intorno a cui si articola “l’iconografia montiana” è quella del sacrificio, anch’essa fortemente radicata nell’immaginario nostrano. La retorica sacrificale, infatti, permea l’intero processo di formazione dello Stato unitario italiano e accompagna la sua storia successiva. Ancora oggi, richiamarsi al sacrificio per il paese Italia produce potenti effetti retorici che vengono agiti contro possibili pratiche di composizione o ricomposizione politica di classe: per il bene del paese, è bene che tutti siano un po’ martiri. Il sacrificio, infatti, possiede per definizione una valenza etica. Il governo Monti, si potrebbe forse dire, non si è presentato soltanto come un governo tecnico, ma anche come un governo etico – eticamente motivato e legittimato. Sarebbe interessante sondare la genesi di questa legittimazione etica, che parrebbe affondare le sue radici nell’humus dell’anti-berlusconismo di sinistra. Ma questo è un problema che merita, all’occorrenza, una riflessione a parte.
Il sacrificio – si è detto – costituisce il fulcro dell’allegoria montiana che ha l’obiettivo politico di cambiare di segno semantico gli effetti reali delle sue politiche: rendere virtuoso ciò che virtuoso non è, ossia l’impoverimento della popolazione perseguito con ogni mezzo. La scena del sacrificio possiede una forte caratterizzazione di genere: ogni sacrificio, infatti, prevede una madre che piange. Sembra un copione, eppure è andata proprio così: Elsa Fornero piange mentre recita il suo mantra sacrificale. All’atteggiamento asciutto di Monti – che ricorda quello di virile accettazione del destino auspicato da Weber – fa da contro altare l’empatia materna del ministro del Welfare.
L’immaginario non risolve i problemi della politica perché i conflitti non sono simbolici ma reali. Tuttavia, gioca un ruolo di prim’ordine nella formazione della soggettività politica e l’immaginario pubblico in cui ci muoviamo continua a muoversi nello spettro di una radicale strumentalizzazione della figura femminile. La retorica montiana del sacrificio non è neutra; neutra non può essere la sua decostruzione, la sua critica e le lotte che si danno e si daranno.
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