
Israele: il razzismo trasversale dilaga e fa proseliti. Il caso Yehoshua

di Marco Santopadre (contropiano)
In Israele dilaga un razzismo aggressivo, violento, che nulla ha da  invidiare ai pogrom che colpivano gli shtetl ebraici nei paesi dell’est  Europa nei secoli scorsi. Un razzismo che prende di mira quelli che  vengono identificati come ‘infiltrati’, un termine più che esplicito che  identifica il diverso con un doppio stigma: quello dello straniero e  del pericolo, e del virus da annientare. 
 Un razzismo che aggiorna  una doppia discriminazione storica alla base della società israeliana –  una privazione assoluta dei diritti nei confronti della popolazione  palestinese e una privazione di diritti relativa nei confronti di quei  settori di popolazione ebraica proveniente da parsi del terzo mondo – in  una nuova teoria organica, una ideologia trasversale che identifica  ogni diverso come un corpo estraneo da combattere, da espellere.
 Finora avevamo letto le farneticanti dichiarazioni dei leader ortodossi e  dell’estrema destra sionista che aizzano le folle urlanti contro gli  immigrati stipati nei tuguri delle periferie di Tel Aviv. Toni che  riproducono esattamente il nucleo duro di un razzismo universale uguale  dal Giappone agli Stati Uniti, dal Sudafrica all’Arabia Saudita,  dall’Italia al Cile. Quello di Alba Dorata ad Atene o delle ronde  Padane: “gli immigrati ci rubano il lavoro, gli immigrati sono sporchi,  gli immigrati compiono crimini, gli immigrati minacciano la nostra  identità…”.
 Ma poi oggi su La Stampa abbiamo trovato un lungo e  articolato intervento dello scrittore israeliano Yehoshua che ci ha  chiarito assai meglio la situazione di un paese, Israele, giunto ormai  ad un livello evidentemente irrecuperabile di putrefazione culturale e  civile. Basta leggere quello che scrive – lo riportiamo per intero – un  intellettuale noto a acclamato in tutto il mondo, icona (immeritata,  ovviamente) del pacifismo equidistante tra israeliani e palestinesi, per  accorgersi di quanto le posizioni razziste, coscientemente  segregazioniste delle elite di Israele siano comuni, trasversali agli  schieramenti politici e culturali di quel paese. Per definire gli  immigrati africani Yehoshua usa l’epiteto di ‘infiltrati’, non più  persone ma “problema” in quanto tale. E poi giustifica apertamente,  senza vergogna e senza giri di parole, quelle che definisce ‘proteste  dei residenti’. “Proteste” che nelle ultime settimane hanno preso la  forma di assalti alle case, ai negozi e alle automobili degli  ‘infiltrati’ – i virus, è ovvio, non hanno nome, la loro umanità  scompare – date alle fiamme, mentre gli occupanti vengono malmenati,  aggrediti con una violenza inaudita. Una violenza che se viene  esercitata dagli squadristi delle organizzazioni fasciste o naziste  nelle nostre metropoli è da condannare, da esecrare. Ma che in Israele è  da giustificare, visto che minaccia l’identità ebraica dello Stato  ‘ebraico’ come ripetono ormai leader politici e religiosi alla testa dei  pogrom. E quindi i razzisti non sono tali, afferma l’intellettuale  ‘progressista’, sono solo residenti ai quali il governo non dà risposte.  Il problema non è che gli infiltrati sono neri e africani, se fossero  albanesi o romeni – afferma Yehoshua – subirebbero lo stesso  trattamento.
 Qual è la soluzione? L’indignato scrittore la mette  nero su bianco: un muro per impedire agli infiltrati di oltrepassare la  sacra frontiera di Israele da Gaza – un ghetto alla rovescia – e poi i  rimpatri – cioè le deportazioni degli immigrati in quei paesi dai quali  scappano per mille ragioni. Contro lo ‘tsunami’ di infiltrati africani –  suggerisce ancora Yehoshua – sarebbe opportuno rispolverare i meno  problematici manovali palestinesi, visto che parlano addirittura  l’ebraico. A condizione però che a lavoro finito se ne tornino nel loro  ghetto nella Striscia di Gaza. Ecco, forse da questa ultima concessione  ai lavoratori schiavi palestinesi si riconosce il progressismo di un  personaggio come Yehoshua: mentre i falchi della destra sionista sono da  sempre partitari dell’espulsione dalle loro terre dei palestinesi o  quantomeno di un ergastolo collettivo e perenne, i ‘progressisti’ alla  Yehoshua si accontentano della ‘semilibertà’…
Nell’intervento che pubblichiamo integralmente qui sotto abbiamo  evidenziato i passaggi più “significativi”, un mix agghiacciante di  banalità e stereotipi sull’immigrazione. Un Bossi o un Le Pen non  avrebbero potuto scrivere di meglio.
E’ ora che si comincino a  chiamare le cose, in Israele, col loro nome: il fascismo è fascismo, e  il razzismo è razzismo, anche se i protagonisti sono ebrei. A maggior  ragione se il razzismo e la xenofobia diventano religione e politica di  stato.
Israele troppi africani clandestini
Abraham Yehoshua – La Stampa 5 giugno 2012
Il problema degli infiltrati africani in Israele sta diventando sempre più serio e pone nuove domande, sia sul piano pratico che su quello umano, quali lo Stato ebraico non ha mai dovuto affrontare prima.
 Poiché i confini con la Siria e il Libano, due nazioni ancora ostili a  Israele, sono ermeticamente chiusi, nessun rifugiato o immigrato avrebbe  la possibilità di superarli. Anche la frontiera fra Israele e la  Giordania è sotto la stretta supervisione delle due parti a causa di  problemi di sicurezza con i palestinesi.
 Ma lungo il confine tra  Israele ed Egitto, tra il grande deserto del Sinai (che secondo il  trattato di pace tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato) e  quello israeliano del Negev in anni recenti è iniziata l’infiltrazione  di migliaia di africani provenienti dal Sudan e dal Sudan meridionale,  dall’Etiopia, dall’Eritrea e, più di recente, da Paesi anche più  lontani. Uomini e donne che, dopo aver percorso a piedi migliaia di  chilometri condotti da guide e da contrabbandieri profumatamente pagati,  arrivano in Israele non alla ricerca di asilo politico ma soprattutto  di un lavoro.
 Israele, che dopo la Shoah ha accolto centinaia di  migliaia di profughi ebrei provenienti anche da paesi arabi e ha dovuto  fare i conti con la richiesta di lavoro dei residenti dei territori  palestinesi, si trova a fronteggiare un nuovo problema, simile a quello  di molti Paesi europei.
 Una  minoranza di questi infiltrati sono profughi in fuga dall’orrore della  guerra. La più parte, però, sono persone in cerca di lavoro che,  come in molte grandi città d’Europa, si stabiliscono in aree urbane  economicamente e socialmente deboli dove vivono in condizioni di grande  povertà, entrando in competizione sul mercato locale come manodopera a  basso costo e priva di diritti sociali. Dal momento che Israele è un  paese gradevole dal punto di vista climatico, di certo per gli africani,  costoro non hanno difficoltà a dormire nei giardini pubblici, a  stendere lenzuola su marciapiedi o in androni di case povere o ad  accalcarsi, intere famiglie, in minuscoli appartamenti, indebolendo così  ulteriormente la già fragile infrastruttura delle periferie delle città  israeliane, in particolar modo quella di Tel Aviv.
 I  residenti locali sono furiosi con il governo che non impedisce questa  invasione illegale, della quale sono soprattutto loro a pagare il  prezzo. E quando a questa situazione si vanno ad aggiungere qua e là  occasionali atti criminosi da parte degli infiltrati, la protesta della  popolazione locale si fa violenta.
 I membri delle  organizzazioni per i diritti civili e di vari gruppi di sinistra tendono  a definire razziste e xenofobe le proteste dei residenti locali. Poiché  la storia ebraica, specialmente durante la seconda guerra mondiale, è  zeppa di storie di sofferenze di rifugiati, si ha la tendenza ad associarla al problema degli emigrati africani e ad interpretare le proteste dei residenti come odio verso la gente di colore. Non credo che questo sia vero. Anche se questi infiltrati fossero di pelle bianca, albanesi o  provenienti dalle regioni del Caucaso, le proteste dei cittadini locali  sarebbero dello stesso tenore. E la richiesta alle autorità, nazionali e  municipali, di trovare una soluzione che non danneggi ulteriormente le  fasce più deboli della popolazione è dunque giusta e non razzista.
 Ci sono inoltre persone e aziende che per realizzare profitti si  avvalgono di questa manodopera a basso costo e affittano appartamenti  fatiscenti a prezzi oltraggiosi. In questo modo non solo i salari dei  lavoratori israeliani, compresi quelli degli arabi israeliani, tendono a  diminuire ma gli affitti degli appartamenti nelle zone periferiche  aumentano in maniera inverosimile.
 Qual è la soluzione? Innanzi tutto bloccare la frontiera col deserto, cosa che sta già rapidamente avvenendo. Se ciò non accadesse Israele potrebbe essere travolta da un vero e proprio tsunami africano. Un secondo passo sarebbe attuare una chiara distinzione tra rifugiati  che arrivano in Israele per salvarsi e gente in cerca di lavoro. In base  ad accurati controlli il numero dei rifugiati con diritto di asilo  politico fra i circa 70 mila clandestini africani attualmente presenti  in Israele è molto ridotto. I veri rifugiati dovrebbero essere trattati  secondo le norme della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite,  dovrebbero essere garantiti loro il permesso di soggiorno,  un’assicurazione sanitaria, un lavoro e alloggi adeguati, senza che  tutto questo vada a scapito dei residenti locali. Il resto degli  infiltrati dovrebbe essere rimpatriato in accordo con le autorità dei  loro paesi d’origine.
 Rimane la domanda riguardo a chi prenderà il  posto degli immigrati nel mercato del lavoro che necessita anche di  manodopera a basso costo e non qualificata. A questo punto entrano in  gioco i palestinesi, il vero motivo per cui ho scritto questo articolo.
 Nella  Striscia di Gaza vivono migliaia di palestinesi bisognosi di una fonte  di reddito e ansiosi di trovare un lavoro. L’apertura dei confini di  Gaza a qualche gruppo di migliaia di lavoratori palestinesi che abbiano  superato attenti controlli di sicurezza potrebbe portare benefici sia  all’economia palestinese che al mercato del lavoro israeliano e promuovere una normalizzazione della situazione politica fra la Striscia di Gaza e Israele.
 I  lavoratori palestinesi conoscono Israele e parlano l’ebraico. A causa  della breve distanza tra Gaza e il sud del Paese (compresa Tel Aviv)  questi lavoratori, la sera, potrebbero tornare alle loro case e  alle loro famiglie ed evitare così la pericolosa e alienante situazione  di migliaia di africani senzatetto che vagano di notte per le strade  delle città. I palestinesi possiedono una chiara identità e sarà loro  garantito un salario equo, non da fame. E come parte del salario avranno  diritto alla previdenza sociale, come in passato. L’obbligo morale di  Israele è di dare lavoro a questi palestinesi nel proprio territorio, in  passato parte della Palestina, e contribuire così a migliorare  indirettamente la situazione economica della Striscia di Gaza.
 Un  simile stato di cose è andato avanti per molti anni dopo la guerra del  ’67 dimostrandosi vantaggioso per entrambi i popoli costretti a vivere  fianco a fianco con la speranza di promuovere una pacifica convivenza.
Israele troppi africani clandestini
Abraham Yehoshua – La Stampa 5 giugno 2012
Il problema degli infiltrati africani in Israele sta diventando sempre più serio e pone nuove domande, sia sul piano pratico che su quello umano, quali lo Stato ebraico non ha mai dovuto affrontare prima.
 Poiché i confini con la Siria e il Libano, due nazioni ancora ostili a  Israele, sono ermeticamente chiusi, nessun rifugiato o immigrato avrebbe  la possibilità di superarli. Anche la frontiera fra Israele e la  Giordania è sotto la stretta supervisione delle due parti a causa di  problemi di sicurezza con i palestinesi.
 Ma lungo il confine tra  Israele ed Egitto, tra il grande deserto del Sinai (che secondo il  trattato di pace tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato) e  quello israeliano del Negev in anni recenti è iniziata l’infiltrazione  di migliaia di africani provenienti dal Sudan e dal Sudan meridionale,  dall’Etiopia, dall’Eritrea e, più di recente, da Paesi anche più  lontani. Uomini e donne che, dopo aver percorso a piedi migliaia di  chilometri condotti da guide e da contrabbandieri profumatamente pagati,  arrivano in Israele non alla ricerca di asilo politico ma soprattutto  di un lavoro.
 Israele, che dopo la Shoah ha accolto centinaia di  migliaia di profughi ebrei provenienti anche da paesi arabi e ha dovuto  fare i conti con la richiesta di lavoro dei residenti dei territori  palestinesi, si trova a fronteggiare un nuovo problema, simile a quello  di molti Paesi europei.
 Una  minoranza di questi infiltrati sono profughi in fuga dall’orrore della  guerra. La più parte, però, sono persone in cerca di lavoro che,  come in molte grandi città d’Europa, si stabiliscono in aree urbane  economicamente e socialmente deboli dove vivono in condizioni di grande  povertà, entrando in competizione sul mercato locale come manodopera a  basso costo e priva di diritti sociali. Dal momento che Israele è un  paese gradevole dal punto di vista climatico, di certo per gli africani,  costoro non hanno difficoltà a dormire nei giardini pubblici, a  stendere lenzuola su marciapiedi o in androni di case povere o ad  accalcarsi, intere famiglie, in minuscoli appartamenti, indebolendo così  ulteriormente la già fragile infrastruttura delle periferie delle città  israeliane, in particolar modo quella di Tel Aviv.
 I  residenti locali sono furiosi con il governo che non impedisce questa  invasione illegale, della quale sono soprattutto loro a pagare il  prezzo. E quando a questa situazione si vanno ad aggiungere qua e là  occasionali atti criminosi da parte degli infiltrati, la protesta della  popolazione locale si fa violenta.
 I membri delle  organizzazioni per i diritti civili e di vari gruppi di sinistra tendono  a definire razziste e xenofobe le proteste dei residenti locali. Poiché  la storia ebraica, specialmente durante la seconda guerra mondiale, è  zeppa di storie di sofferenze di rifugiati, si ha la tendenza ad associarla al problema degli emigrati africani e ad interpretare le proteste dei residenti come odio verso la gente di colore. Non credo che questo sia vero. Anche se questi infiltrati fossero di pelle bianca, albanesi o  provenienti dalle regioni del Caucaso, le proteste dei cittadini locali  sarebbero dello stesso tenore. E la richiesta alle autorità, nazionali e  municipali, di trovare una soluzione che non danneggi ulteriormente le  fasce più deboli della popolazione è dunque giusta e non razzista.
 Ci sono inoltre persone e aziende che per realizzare profitti si  avvalgono di questa manodopera a basso costo e affittano appartamenti  fatiscenti a prezzi oltraggiosi. In questo modo non solo i salari dei  lavoratori israeliani, compresi quelli degli arabi israeliani, tendono a  diminuire ma gli affitti degli appartamenti nelle zone periferiche  aumentano in maniera inverosimile.
 Qual è la soluzione? Innanzi tutto bloccare la frontiera col deserto, cosa che sta già rapidamente avvenendo. Se ciò non accadesse Israele potrebbe essere travolta da un vero e proprio tsunami africano. Un secondo passo sarebbe attuare una chiara distinzione tra rifugiati  che arrivano in Israele per salvarsi e gente in cerca di lavoro. In base  ad accurati controlli il numero dei rifugiati con diritto di asilo  politico fra i circa 70 mila clandestini africani attualmente presenti  in Israele è molto ridotto. I veri rifugiati dovrebbero essere trattati  secondo le norme della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite,  dovrebbero essere garantiti loro il permesso di soggiorno,  un’assicurazione sanitaria, un lavoro e alloggi adeguati, senza che  tutto questo vada a scapito dei residenti locali. Il resto degli  infiltrati dovrebbe essere rimpatriato in accordo con le autorità dei  loro paesi d’origine.
 Rimane la domanda riguardo a chi prenderà il  posto degli immigrati nel mercato del lavoro che necessita anche di  manodopera a basso costo e non qualificata. A questo punto entrano in  gioco i palestinesi, il vero motivo per cui ho scritto questo articolo.
 Nella  Striscia di Gaza vivono migliaia di palestinesi bisognosi di una fonte  di reddito e ansiosi di trovare un lavoro. L’apertura dei confini di  Gaza a qualche gruppo di migliaia di lavoratori palestinesi che abbiano  superato attenti controlli di sicurezza potrebbe portare benefici sia  all’economia palestinese che al mercato del lavoro israeliano e promuovere una normalizzazione della situazione politica fra la Striscia di Gaza e Israele.
 I  lavoratori palestinesi conoscono Israele e parlano l’ebraico. A causa  della breve distanza tra Gaza e il sud del Paese (compresa Tel Aviv)  questi lavoratori, la sera, potrebbero tornare alle loro case e  alle loro famiglie ed evitare così la pericolosa e alienante situazione  di migliaia di africani senzatetto che vagano di notte per le strade  delle città. I palestinesi possiedono una chiara identità e sarà loro  garantito un salario equo, non da fame. E come parte del salario avranno  diritto alla previdenza sociale, come in passato. L’obbligo morale di  Israele è di dare lavoro a questi palestinesi nel proprio territorio, in  passato parte della Palestina, e contribuire così a migliorare  indirettamente la situazione economica della Striscia di Gaza.
 Un  simile stato di cose è andato avanti per molti anni dopo la guerra del  ’67 dimostrandosi vantaggioso per entrambi i popoli costretti a vivere  fianco a fianco con la speranza di promuovere una pacifica convivenza.
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