L’omofobia non è un fatto di cronaca
Segnaliamo la riflessione a cura del Laboratorio Sguardi Sui Generis sul tema della violenza insita nei discorsi e nei comportamenti omofobi, in relazione alla vicenda del ragazzo di 15 anni suicidatosi alcuni giorni fa a Roma.
Non si può raccontare la morte per omofobia come un fatto improvviso, inaspettato e sorprendente, come fosse un fattaccio di cronaca nera, qualcosa che capita indipendentemente da tutti e tutte. Al contrario, l’omofobia appartiene a quelle forme di violenza sociale e collettiva, spesso perpetrate con il benestare della collettività. Ve n’è d’altri tipi, come ad esempio, il razzismo o la violenza sulle donne. Forme di violenza che, pur nella loro specificità, possiedono tratti comuni. Quali, ad esempio, la presenza di una responsabilità doppia, individuale e collettiva; o il fatto di essere collettivamente premeditate e organizzate attraverso atteggiamenti diffusi che la favoriscono; oppure il contemplare gradazioni diverse d’intensità ma non di gravità; il venir trattate come fatti isolati e privati quando le analogie tra gli episodi balzerebbero agli occhi anche a un bambino; l’esser tantissime, quotidiane, diffuse e pur sempre rimosse e taciute. Violenze che la politica istituzionale non combatte, se non in maniera ridicola, insufficente e inadeguata. Violenze di cui esistono istigatori istituzionali ai quali non si chiede mai conto. Violenze in cui la vittima – là dove cerca il sostegno esterno – è costretta a dimostrare di non aver frainteso, è invitata a lasciar perdere, è persuasa a concedere al persecutore l’alibi della buona fede.
Rigettare l’omofobia significa combattere ognuno di questi fattori, e molti altri che – di volta in volta – si tratta di riconoscere collettivamente. E allora, la storia di un ragazzino che si toglie la vita perché perseguitato dall’intolleranza omofoba va raccontata cominciando da qui. In primis dal rifiuto di ogni retorica che dichiara di impegnarsi a verificare la “presunta omofobia” (si vedano dichiarazioni riportate da Repubblica). Di fronte a una pagina facebook fasulla, fatta d’ insulti e offese, cosa c’è da provare? É veramente dubbio se essa costituisca o meno un episodio di omofobia? Data una persecuzione, è davvero necessario verificare se la vittima si sia sentita tale oppure no? Una domanda che, nel caso specifico, non potrà neppure avere una risposta attendibile dal momento che l’unica persona che avrebbe il diritto di esprimersi – di dire di sé cosa e quanto abbia sofferto – non c’è più. Voler appurare, verificare e accertare è un modo per negare, per perpetrare la violenza. Il carattere omofobo di un gesto, di una parola, di un atteggiamento non è mai dubbio; l’incertezza riguarda – se mai – la disponibilità reale a farsene carico socialmente.
Questo è un punto fondamentale, che val la pena ripetere sino allo sfinimento: la responsabilità è collettiva e politica. Non si crederà davvero che il problema ora sia andare in quel liceo romano, cercare di “pescare” i due o tre più accaniti e ripristinare la tanto amata “normalità”? Quest’ultima, infatti, sta alla base del problema. Una normalità popolata di personalità autoritarie totalmente votate al conformismo. L’insegnante che non interviene di fronte alla violenza esplicita e – prima di questa – davanti a ogni espressione omofoba. L’insegnante che riprende l’omofobo, ma non il compagno silenzioso che non si schiera. I compagni incapaci di solidarizzare e – allo stesso modo in altra situazione – il collega di lavoro che non vuole mettersi in mezzo perché, anche se sedicente tollerante o friendly, si sa come sono i rapporti di lavoro e quindi meglio l’ignavia. In egual misura la famiglia che lascia maturare tabù, proibizioni o imbarazzi. E così via, ovunque ci siano vita e relazioni perché la violenza omofoba è un fatto sociale, un affare di tutti e tutte. Solo a partire da questo assunto è possibile attribuire responsabilità specifiche, capire la particolarità di ogni situazione e contesto.
La critica e lo sforzo di trasformazione di strutture linguistiche e comportamentali che producono e avvallano l’omofobia in un interminabile circolo vizioso si compie su due livelli. Il primo è quello delle relazioni sociali, il secondo quello delle strutture di potere. L’omofobia, infatti, non è una macchina che funziona da sé. Di fronte a una morte di omofobia non ci si scambia opinioni da posizioni neutre. Ad esempio, Alemanno – le cui parole sono state riportate dai quotidiani – non può essere chiamato in causa come testis ma dovrebbe esserlo come imputato. Davvero la preoccupazione di un fascista per un episodio di omofobia è degna di essere presa sul serio? Davvero un sindaco che autorizza un corteo dei fascistissimi di Casa Pound va preso sul serio quando esprime rammarico per un giovane ucciso dall’omofobia? Prendere parola sulla morte di un giovane per violenza omofoba, non è come esprimersi sul tempo, non è una questione né di gusti né di opinioni. Non è indifferente chi sia a parlare e non tutti hanno il diritto di farlo. Chi concede a tutti questo diritto – come fanno la politica istituzionale e l’informazione mainstream – semplicemente concorre a un’assoluzione preventiva di ogni responsabilità reiterando e riproducendo la violenza stessa. Il punto, infatti, dato un episodio di violenza omofoba, non è stabilire cosa ne pensi tizio o caio, ma soltanto stabilire con chiarezza chi voglia combatterla e trovare gli strumenti per farlo.
In solidarietà alla famiglia e agli amici e amiche di un giovane morto di omofobia.
Contro l’omofobia.
Laboratorio Sguardi sui generis
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