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Per il Tribunale di Bologna, masturbarsi su una donna senza il suo consenso non è violenza!

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Nella giornata di ieri si è appreso dalle cronache locali bolognesi dell’assoluzione di un ragazzo che l’anno scorso si masturbò su una ragazza in un’aula studio di via Petroni, in piena zona universitaria. La raccolta prove non ha portato a risultati: i vestiti erano stati lavati e la sedia pulita. La sentenza impone alcune riflessioni.

Per la sezione giudicante del Tribunale di Bologna il fatto non sussisterebbe, ovvero non sussisterebbe la violenza sessuale. La linea difensiva suggerisce che la masturbazione sia un atto osceno (depenalizzato) e non una violenza. Il tribunale accoglie. L’unico atto osceno è la sentenza del tribunale che, ancora una volta, rimarca l’idea della donna-oggetto su cui ci si può masturbare senza che il suo consenso abbia alcuna importanza.

Ancora una volta in merito a casi di violenza di genere il dibattimento giudiziario ha avuto il risultato di screditare la versione della donna, ancora una volta non si è voluto credere a chi denuncia una violenza. Per il sistema giudiziario, masturbarsi su qualcuno che non ha dato il proprio consenso e che addirittura, in questo caso, non era neanche a conoscenza di quello che stava accadendo, non è violenza.

Togliersi quei vestiti di dosso e lavarli è il primo gesto liberatorio per iniziare a scrollarsi di dosso quello sporco (la violenza, mica solo lo sperma), ma questo gesto porta al sospetto, all’insinuazione e alla frustrazione di sentirsi screditata prima in tribunale e poi anche dalla stampa.

Si arriva al solo apparente paradosso che in un caso del genere se vuoi essere creduta devi assicurarti di non lavarti. Oltre alla violenza di per sè, devi anche sottoporti all’autoviolenza di resistere al disgusto, alla paura, al senso di violazione e mantenere i tuoi vestiti sporchi dello sperma di quel porco.

Quindi se non gridi, se non scalpiti, se ti lavi vuol dire che in fondo hai qualcosa da nascondere e con quell’acqua laverai via anche la possibilità di essere creduta. Sei tu donna che vieni esaminata, che devi provare a rispondere, a convincere come se il fatto di masturbarsi su qualcun* non fosse violenza. E quindi non lavarti, resisti al disgusto, alla vergogna, al senso di violazione che quei vestiti sporchi di sperma rappresentato e portali in giro come prova, perché la denuncia e la parola non bastano.

Se non riesci a importi questa cosa subirai la frustrazione di essere additata come bugiarda, screditata in un’aula di tribunale e poi anche dalla stampa. La forma retorica utilizzata è quella di sminuire l’accaduto limitando, in generale, un atto di violenza ad un coinvolgimento fisico che in questo caso può essere testimoniato “solo” dalla ragazza stessa. Anche la scelta di virgolettare la parola sporco in relazione ai vestiti e alla ragazza, serve a farlo percepire solo come presunto.

Come poteva, dopo tutto, il giudizio di un sistema giuridico tuttora profondamente patriarcale non assolvere un suo figlio, sfoggiando una cultura machista che fa ribrezzo, perpetrando la violenza oltre la violenza fisica stessa? Come poteva non auto-assolversi a discapito, ancora e ancora, del corpo di una donna? Come scandalizzarsi del fatto che il 90% delle violenze di quesot tipo non viene denunciato, se questi sono gli esiti dei dibattimenti?

La morale della favola è che anche questa volta non sarà in tribunale che troveremo il sostegno di cui abbiamo bisogno. Non serve la sentenza di un giudice per sapere da che parte stare!

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pubblicato il in Intersezionalitàdi redazioneTag correlati:

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