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Sullo stupro di Parma: noi stiamo con Claudia

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Lo scorso venerdì, a 7 anni di distanza dai fatti, si è concluso il processo di primo grado per lo stupro di gruppo avvenuto nel 2010 nella sede della RAF (la Rete Antifascista) di Parma. I giudici hanno condannato tutti e tre gli imputati, appartenenti a quello spazio, con pene tra i 4 anni e i 4 anni e 8 mesi.

La chiusura del processo senza dubbio non scrive la parola fine di questa vicenda orribile, le cui conseguenze e i cui strascichi di violenza, così come i modi in cui è necessario affrontarla, si estendono e ci interrogano ben al di là delle aule di tribunale.

I punti su cui ragionare e discutere sono parecchi e molto complessi. In questo testo non riusciremo a toccarli tutti ma vorremmo provare ad affrontarne alcuni.

Durante il processo, come in quasi tutti quelli che riguardano la violenza sulle donne, è stata messa costantemente in dubbio la credibilità dei fatti denunciati da Claudia e la veridicità del suo racconto. Durante le udienze Claudia ha dovuto subire una nuova e reiterata violenza, ritrovandosi suo malgrado sbalzata sul banco degli imputati, costretta a vedere scandagliata la sua vita privata, a rivedere e rivivere le immagini del suo stupro, a lottare perché quella violenza venisse riconosciuta e chiamata come tale. Insultata e umiliata dagli avvocati della difesa, che si sono aggrappati a ogni fotogramma di quel video, a ogni centimetro del suo corpo, a ogni suo gesto per cercare di negare quella violenza. Questo è ciò che succede nei tribunali, luoghi di espressione di un potere e di una violenza profondamente patriarcale, ogni qualvolta una donna decida di intraprendere un percorso giudiziario contro una violenza di genere subita.

Come già avevamo scritto dopo l’emergere delle prime notizie su questa vicenda, la giustizia e la verità sui fatti a cui aspiriamo non può essere quella dettata dalle sentenze dei giudici. Fermo restando il rispetto delle strade che ogni donna sceglie di intraprendere in queste situazioni, non possiamo non ragionare anche sull’estrema contraddittorietà di un sempre più diffuso approccio securitario alla violenza di genere. In un contesto economico, sociale e politico di profondo impoverimento e aumento della violenza, alcune donne scelgono di denunciare alla giustizia e alla polizia i propri aggressori per cercare di porre fine a una situazione da cui non riescono a uscire in altra maniera. Una strada che non fornisce strumenti utili all’uscita da una situazione di violenza ma anzi si trasforma spesso in un’occasione usata per strumentalizzare ulteriormente i corpi e le violenze sulle donne.

Le domande che come compagne e compagni dovremmo porci riguardano piuttosto il perché lo stupro subìto da Claudia sia rimasto a lungo taciuto (nonostante le immagini che lo riprendevano siano circolate per molto tempo tra l’indifferenza o peggio il divertimento di molti), perché sia venuto a galla solo in seguito a indagini giudiziarie su altri fatti, perché questo sia potuto accadere in uno spazio sociale che si definiva antifascista ad opera di soggetti che militavano in quella realtà, perché sia stato obliato per anni, perché Claudia sia stata lasciata sola, perché non siano state rispettate le sue scelte né creduta la sua testimonianza.

Da quando – ormai due anni fa – uscirono le prime notizie su questa vicenda, alcune cose sono cambiate: questa storia è riuscita a uscire dal silenzio a cui l’omertà e la complicità degli stupratori, così come di molti attorno a loro, avevano a lungo scelto di relegarla e Claudia ha potuto contare sul sostegno e la solidarietà di quanti hanno deciso di non lasciarla sola in questo percorso, prendendo posizione e sostenendola nelle udienze.

Ciò che resta è invece la consapevolezza che portare avanti nei nostri spazi la costruzione di relazioni paritarie, dove cadano le maschere dell’uguaglianza formale, non può essere in alcun modo una scusa o un motivo per sentirsi al riparo da queste forme di violenza, la cui pervasività continua e spinge ad interrogarsi con più urgenza. L’antisessismo non può essere approcciato come un aggettivo da giustapporre a dei nomi, come un’identità statica e data per assodata. È una pratica che va sempre costruita, a volte con difficoltà, nei nostri spazi così come negli spazi sociali che attraversiamo.

Combattere il sessismo in tutte le sue forme significa essere in grado di riconoscerlo anche e soprattutto quando questo prende forma vicino e attorno a noi, senza tentennamenti e senza nascondersi dietro certezze auto-assolutorie.

A Claudia il nostro abbraccio e il nostro sostegno.

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Vedi anche: Circa i fatti di Parma nella sede della RAF: come riparare 4 crepe prima che qualcosa si rompa per sempre

 

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pubblicato il in Intersezionalitàdi redazioneTag correlati:

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