Affermarsi con la lotta. In ogni casa nessun rimorso: materiali pt. 3
Di seguito la terza parte del workshop sulla lotta contro l’emergenza abitativa. Nella prima parte è stato definito cosa intendiamo per conflitto sul terreno dell’abitare e per emergenza abitativa. Nella seconda parte abbiamo parlato della morosità, di come il debito si produce e di quali sono le conseguenze, gli effetti e le possibilità di scontro.
Nella terza e ultima parte parleremo dei picchetti antisfratto, della costruzione territoriale di una forza e dell’affermazione di una critica politica al servizio sociale come welfare del debito.
La terza fase l’abbiamo definita come il momento dello sfratto, l’esecutività della procedura e tutto ciò che ne consegue. Lo sfratto inizia quando dal tribunale viene intimato il pagamento, entro 10-20 giorni; poi viene intimato il rilascio volontario dell’immobile, successivamente viene notificato il precetto, la significazione fino ad arrivare al giorno dell’accesso dell’ufficiale giudiziario a casa. Rispetto a questo la governance struttura tutta una procedura, articolata in tre parti, che serve a traghettare le famiglie nella situazione del rilascio dell’immobile: servizio sociale (lo strumento col quale la controparte prova ad esercitare un comando da parte delle istituzioni nei confronti delle famiglie che hanno lo sfratto affinché riescano a fargli rilasciare l’immobile dandogli delle soluzioni alternative a ribasso), commissione territoriale sfratti, bandi morosità.
Partiamo della questione del servizio sociale.
Cos’è il servizio sociale? Negli ultimi anni questo terreno è stato per noi il principale dello scontro esplicito dal momento in cui una famiglia ha lo sfratto.
L’emergenza abitativa, la morosità, le situazioni di sfratto sono la conseguenza di scelte politiche volte a degli interessi di profitto e di rendita. Queste responsabilità politiche che conseguentemente creano l’emergenza abitativa la controparte le scarica su una dimensione individuale e sociale: i responsabili non sono loro e questo processo di accumulazione ma la persona singola in fallimento. Per rendere accettato questo discorso delegano la gestione dell’emergenza abitativa al servizio sociale, usandolo come strumento di comando, controllo e costruzione di soggettività: trasformando un problema politico in un problema sociale. Chi ha uno sfratto e inizia la procedura partendo dal servizio sociale in questo percorso cambia, si trasforma, assume delle caratteristiche soggettive funzionali al fatto che da lì ai primi accessi dell’ufficiale giudiziario venga lasciato l’immobile. Entrando nello specifico il servizio sociale inizia a partire dal segretariato sociale, uno sportello seguito da un’assistente sociale di turno che si sposta tra i vari distretti sanitari seguendo il giorno di apertura di ciascuno. Durante quest’incontro viene conosciuta la persona o famiglia e fatto il primo accesso al sevizio.
Quest’assistente sociale già da subito mette in atto quel rapporto di potere e di subalternità verso l’utente: il primo accesso al segretariato sociale si basa su una serie di domande volte a farti una “radiografia” di quella che è la tua persona, la tua famiglia e di quelle che sono le tue condizioni. Si parte dal discorso dell’isee: per poter accedere al servizio sociale devi avere un isee inferiore a 5600€. In più ti vengono fatte varie domande, è il primo momento in cui le istituzioni scremano delle persone attraverso diversi dispositivi tra cui domande personali (dove abiti, figli, vita personale, parenti e familiari)… Poi continuano col dire che ci sono poche case, poche risorse, prova a rivolgerti ad un sindacato inquilini e provano diversi discorsi, a volte anche bugie per sbolognarti. Oltre ciò c’è il fatto che il servizio sociale significa nel senso comune della composizione a cui ci si rivolge la paura, perché c’è consapevolezza del fatto che sia un ricatto (che spesso fa leva sui figlioli). Già questa paura impedisce a tante persone di accedervi.
Le opzioni del primo passaggio al segretariato sono sostanzialmente queste: Chi ci accede spesso viene respinto per la questione dell’isee; Se hai un isee idoneo provano a respingerti con le menzogne e spiegandoti che attraverso il servizio difficilmente riuscirai ad ottenere qualcosa; Anche se riesci ad accedere sei già con l’anima in pace che da lì non riuscirai a cavarne nulla.
Successivamente entro 20 giorni chiamerà un assistente sociale di zona che fisserà il primo colloquio in un distretto della città. Lì inizia il vero e proprio procedimento di controllo, di giudizio e di respingimento dei tuoi bisogni e della tua persona. Questo avviene attraverso un contratto di aiuto ovvero quando le famiglie fanno i primi colloqui viene fatta una scheda personale dove sono segnate tutte le cose, poi viene firmato un contratto d’aiuto: per poter accedere, forse, a un contributo devi in cambio impegnarti in un percorso che consiste nel fare il giro delle agenzie interinali della città, andare al centro per l’impiego, dimostrare di cercare lavoro, dimostrare l’impossibilità di poter andare ospite a casa di parenti o amici, di ritornare al proprio paese.
Qui inizia tutta la procedura di “ricatto” che avviene nei primi colloqui. In generale i contributi a disposizione della commissione tecnica emergenza abitativa sono sei: contributi all’affitto (massimo 200€ al mese); pagamento di caparre se dopo lo sfratto lasci l’alloggio e ne cerchi un altro; assegnazione straordinaria di una casa popolare; contributi una tantum per il pagamento dell’affitto; pagamento al proprietario di parte della morosità (se si è sotto sfratto); albergazione (lasci la casa e ti mettono in albergo per qualche settimana). Questi 6 strumenti non sono volti a far si che le famiglie risolvano il loro problema ma vanno tutti a favore del proprietario e dell’integrazione dell’affitto. La commissione tecnica emergenza abitativa, il ramo del servizio sociale che gestisce l’emergenza abitativa, ha come priorità non tanto quella di tutelare gli utenti ma i proprietari: il loro diritto alla proprietà privata e alla rendita.
Dal momento in cui il servizio sociale eroga 200€ per pagare l’affitto è, dal loro punto di vista, il modo in cui permettono al proprietario di non accumulare un debito che probabilmente non verrà più pagato. Oppure anche nel momento in cui versano delle caparre per prendere un nuovo affitto è la loro volontà di farti uscire da una situazione di sfratto, quindi liberare l’immobile al proprietario di casa; la situazione però non cambia perché torni a pagare un affitto che non ti puoi permettere. Questo vale anche per gli altri contributi e in particolare per l’albergazione. Quando le famiglie vengono buttate fuori di casa il servizio spende un sacco di soldi per settimane o mesi con le strutture convenzionate che guarda caso sono sempre le stesse. Sono disponibili a versare questo prezzo dal momento in cui va ad alimentare la rendita privata e il meccanismo di accumulazione dei proprietari privati. Questa è la lettura che diamo dell’impostazione che le istituzioni tramite il servizio sociale danno alle politiche di gestione dell’emergenza abitativa. Nulla a che fare con la risoluzione del problema al massimo con un suo tamponamento. Questo è un elemento importante, anche la conoscenza di queste procedure, perché queste sono il primo terreno di scontro con le istituzioni, i proprietari e il servizio sociale che in “teoria” dovrebbe aiutare i suoi utenti. Questa è la prima contraddizione politica che proviamo a far emergere con i servizi sociali, la base del terreno di scontro che vede in genere anche anni di colloqui mensili. Questo è il primo livello della contraddizione politica per arrivare poi nel concreto a esasperare altri livelli di gestione.
La prima cosa per noi è far si che soggettivamente le famiglie scardinino la paura di rivolgersi al servizio (paura del ricatto dei figli): essere noi a partire dalla contraddizione, metterli sotto pressione affinchè gli strumenti erogati in maniera arbitraria divengano soluzione per tutti e definitiva. All’appuntamento con gli assistenti sociali le famiglie non vanno sole ma andiamo minimo in due, in altre situazioni facciamo dei presidi o comunque andiamo in di più. Questo è il primo momento in cui far pesare un “contrappasso”, una contrapposizione che parte anche semplicemente da come ci si pone: abbandonare la remissività, esercitarsi nel far valere la propria conoscenza delle procedure e dunque i propri diritti. Qui si crea il primo scarto soggettivo per cui le famiglie iniziano ad accrescere la loro forza e un conflitto che può portare a delle soluzioni: a partire da una conoscenza dei dispositivi della controparte provare a rovesciarglieli contro e controutilizzarli. Loro fanno un uso discrezionale del regolamento, che limita l’erogazione dei contributi e l’accesso al servizio, poiché non è accessibile pubblicamente attraverso la rete nè tanto meno attraverso la richiesta di accesso agli atti. I servizi sociali hanno delle possibilità di andare in deroga ai regolamenti e erogare contributi in maniera straordinaria a seconda dei casi che si trovano ad affrontare: lì dal nostro punto di vista si avvia il percorso per cui proviamo ad imporre e strappare delle soluzioni definitive.
Parliamo delle assegnazioni dell’emergenza abitativa. I singoli assistenti sociali una volta al mese si riuniscono in una commissione tecnica emergenza abitativa nella quale vengono valutate le varie situazioni e dato il via libera per l’erogazione di un contributo o un altro. L’assegnazione di una casa popolare per l’emergenza abitativa è regolamentato da un tetto massimo di assegnazioni annue giustificata dalla retorica della scarsità di risorse. Nel corso degli anni, provocando uno scontro (occupazione degli uffici, scontro verbale, non parlare più con l’assistente sociale ma con la dirigente) abbiamo proviamo a inflazionare i regolamenti e a ottenere soluzioni definitive e non tampone, quindi rivolte agli utenti del servizio (inquilini di casa) e non verso i proprietari.
In questi anni uno scontro forte è sull’assegnazione in emergenza abitativa e su questo siamo riusciti a ottenere risultati importanti, andando in deroga al tetto massimo di assegnazioni per emergenza abitativa. Questo scontro parte dalle singole vertenze, situazioni, famiglie con le quali dopo e durante il percorso costruiamo un discorso di attacco e critica alla gestione del patrimonio pubblico tenuto sfitto (case popolari vuote, decine di immobili pubblici abbandonati) e proviamo a porre nell’agenda politica dell’amministrazione di questa città il riutilizzo, risistemazione e assegnazione di questi stabili.
Aggiungo un paio di cose rispetto a quanto detto..
Se nella seconda fase, quella della morosità, l’esperienza di lotta sul terreno del contratto nel libero mercato necessita di elaborare collettivamente degli strumenti di critica e attacco.
Mentre rispetto alle procedure istituzionali con cui viene gestita l’emergenza abitativa attraverso le tre variabili affrontate sopra(la retorica della scarsità della risorse; senso di colpa e indebitamento a fronte della giungla e del rapporto di potere nel libero mercato; la questione del rapporto di potere che è insito nei rapporti sociali che regolano la casa nel servizio sociale e nella gestione pubblica dell’emergenza abitativa) noi abbiamo bisogno di sconfiggere una retorica perdente del pubblico come risoluzione del conflitto sull’abitare e sull’emergenza abitativa.
Questo è molto importante perché come veniva sinora illustrato non c’è un rapporto alternativo tra il pubblico e il privato. Le forme di valorizzazione capitalistica, nel momento in cui sono in crisi per l’emergenza di riscossione dei crediti, utilizzano simultaneamente procedure e istituzioni private (per es. nei pignoramenti l’istituto vendite giudiziarie) unitamente a strumenti pubblici (il servizio sociale).
Nel momento in cui si contrappone all’emergenza sfratti la questione del bisogno di case popolari nuove è importante assumere la visione di una contemporaneità dell’organizzazione sociale e istituzionale: le istituzioni sociali non sono una mediazione dello stato nei confronti dei poteri della rendita. Se guardiamo a come è nata l’edilizia pubblica, regolamentata da leggi che erano il compromesso tra capitale e lavoro prodotto negli anni 60-70, questa cosa è stata smantellata. Oggi la stessa istituzione del servizio sociale è immediatamente un dispositivo produttivo per il capitale, funzionale alla rendita. Questo non è solo un discorso generale, ha delle ricadute pratiche. L’assistente sociale è l’anello più basso di questa catena di organizzazione istituzionale non si pone mai in contrapposizione con i proprietari di casa o con la gestione del patrimonio pubblico. Il rapporto, a livello istituzionale burocratico, non va preso per omogeneo, è striato, è conflittuale anche con le stesse procedure che dovrebbero costruire la professionalità dell’assistente sociale. Questa figura è sempre più piegata ad essere un operatore di controllo per lo sviluppo della coercizione a favore della proprietà privata. Questo fatto ha bisogno di essere politicizzato, non possiamo soltanto assumere la nemicità di questa figura. questa è la base, perché l’assistente sociale lavora in un’istituzione che è rivolta contro i bisogni delle persone, ma ci sono delle stratificazioni. Nei casi in cui siamo riusciti ad ottenere delle soluzioni si è attivato un meccanismo virtuoso in cui parzialmente queste figure si sono negate, ribellate, contrapposte su spinta del loro utente. Questo è un passaggio su cui ragionare. Per una critica al libero mercato, sopratutto per la fascia degli insolventi, coloro che hanno già rotto il rapporto di locazione, abbiamo bisogno di costruire una critica politica al servizio sociale come welfare del debito: un dispositivo immediatamente produttivo per la controparte istituzione ma in generale dentro un rapporto di valorizzazione capitalistica che si basa su meccanismi di produttività. Il welfare è un’impresa, è un’azienda strutturata in maniera manageriale, rapportarsi al servizio sociale come se fosse un’istituzione pubblica che dovrebbe comportarsi da tale è sterile. Noi ci rapportiamo a quest’istituzione esattamente come gli operai in una fabbrica si rapportano con il proprio capo reparto.
Quando parlavamo prima di criteri di produttività intendevamo il fatto che la misura del servizio sociale sta in un rapporto, che va conosciuto e indagato da un punto di vista anche tecnico perché le commissioni si basano su dei programmi informatici che recepiscono i dati compilati dall’assistente sociale sui colloqui con la famiglia e che formano un rapporto tra numero e quantità di cittadini che sono utenti del servizio, lunghezza del programma previsto nel contratto di aiuto, bilanciamento delle spese. Capire come mettere in crisi quella produttività mostrando quanto questo lavoro sia nocivo per l’utente e l’operatore stesso: su questo nodo provare ad articolare una critica più complessiva a questo meccanismo di welfare del debito.
I colloqui sono un terreno di soggettivazione nel momento in cui vengono preparati, viene organizzata la trattativa, la rivendicazione… capire su cosa si basa il rapporto di forza e dunque su quale leva ribaltarlo. Esso non è contenuto solo nella prestazione del colloquio, è nel territorio. Infatti i servizi sociali si strutturano come servizi di zona, territoriali, non si basano solo sull’ufficio ma anche sulle visite domiciliari, sul legame con finanziarie, microcredito, altre istituzioni pubbliche, forza pubblica, scuola, anagrafe, ospedali. Quando si arriva alla prestazione del colloquio dove noi rivendichiamo un obiettivo, che può essere anche mettere in discussione i regolamenti non solo farli applicare, lì quel tipo di possibilità è misurata in un rapporto di forza costruito 1. nei picchetti anti sfratto; 2. ribaltare il senso di colpa, non farsi indagare e mettere a nudo, non permettere un rapporto personale.
Come nel contratto d’affitto anche nel contratto d’aiuto c’è un rapporto di potere che si misura nell’arbitrarietà: chi sta dall’altra parte non è tenuto a rispettare delle regole che sono sempre imposte unilateralmente. Questo tipo di procedure non soltanto vengono imposte e scaricate sull’utente ma c’è sempre più la patologizzazione dell’emergenza casa e in generale delle questioni sociali, anche il nome con cui viene identificato chi è insolvente è quello di “alta marginalità”.
Le procedure unilaterali di potere con cui viene costruito il rapporto del contratto d’aiuto tendono a produrre una soggettività non semplicemente esclusa, dev’essere produttiva. La critica pratica al sistema del servizio sociale parte dal fatto che questo processo non va dato per compiuto interamente, ci sono delle resistenze, delle frizioni e delle rigidità. Una di queste rigidità è data dal ceto medio impoverito. Il dispositivo dell’umiliazione è il paradigma di governo e comando su cui si costruisce questa soggettività: il rifiuto dell’umiliazione e l’emersione della dignità produce dei comportamenti che vanno molto al di là del colloquio col servizio sociale ma è l’ossatura di una possibile critica politica alle istituzioni, c’è una politicità di uno scontro. Il confine tra chi si soggettiva scontrandosi col servizio sociale e chi rifiuta le istituzioni nel suo complesso è un confine labile. C’è un dispositivo di politicizzazione nella vertenza: questo punto di vista è fondamentale per non ricondurre l’analisi critica a delle procedure di tipo sindacale controprocedure, una sfera separata dove ci sono gli esperti… questo rischio del sindacalismo c’è ma si può debellare a partire dal legame che si costruisce con queste famiglie e nel fatto che non ci sostituiamo a loro. Il dispositivo di soggettivazione avviene se questa critica viene espressa dal soggetto colpito e non c’è una rappresentanza della marginalità in una critica alle istituzione. Deve esserci la capacità di creare i passaggi necessari affinché quella soggettività direttamente aggredisca e abbia gli strumenti per aggredire politicamente questo tipo di dispositivo.
La critica al welfare del debito e alle istituzioni pubbliche possiede in nuce un alto grado di politicità antagonista. Questa possibilità si costruire grazie a dei militanti in formazione che poi hanno delle proprie reti sociali su cui far misurare e crescere il rapporto di forza.
Andiamo alla terza e ultima fase: il giorno dello sfratto.
La prima controparte che incontriamo è l’ufficiale giudiziario. Il giorno dello sfratto è per noi come una festa, ci ritroviamo in decine e decine dietro la bandiera rossa stop sfratti. Anche l’attesa del giorno dello sfratto cambia per le famiglie: prima c’era una situazione emotiva e psicologica di ansia, anche con ricorso a farmaci. Nei picchetti collettivi c’è il ribaltamento di quest’ansia verso il padrone di casa e l’avvocato. Questa dimensione emotiva e psicologica è parte del picchetto come “riscatto”, una paura che viene superata.
Solitamente nei primi accessi c’è una maggiore tranquillità ma le cose cambiano dal terzo, a partire dal quale è possibile che venga chiamata la forza pubblica. Da questo momento si intensifica la quantità e qualità dei picchetti che costruiamo.
Alcuni volte durante i primi picchetti è indicativo il fatto che alcuni vicini di casa non sappiano dello sfratto.. quel senso di vergogna è molto difficile da affrontare ma nei picchetti questo accade.
Quello che cerchiamo di comunicare alle famiglie e allo sportello è che la partecipazione ai picchetti è il momento fondamentale della militanza di base e partecipativa: partecipare agli altri sfratti di tutti, non solo al proprio. Questo garantisce un processo di soggettivazione della famiglia, si costruiscono e fortificano reti informali.
Sull’aspetto politico il picchetto rappresenta un aumento del rapporto di forza nei confronti del proprietario e delle istituzioni, società della salute in primis. Ci accusano di creare un problema di ordine pubblico invece deve diventare mediazione per spianare la strada ad una trattativa che porti a un affitto più basso o a una casa in emergenza abitativa. Senza la costruzione di un rapporto di forza al picchetto è impensabile guardare ad alcuni strumenti da controutilizzare.
Il primo è il bando della morosità incolpevole.
C’è una finanziarizzazione sia statale che regionale del pagamento del debito al proprietario. Questo strumento garantisce una fonte di profitto al proprietario, negli ultimi due anni stiamo cercando di ribaltare questa disparità. Prima il bando della morosità era vincolato all’accettazione della somma (circa 8mila euro) da parte del proprietario, ora il vincolo è che l’affitto venga riconcordato a un prezzo molto più basso. Prima dell’inserimento di questo vincolo il contratto veniva rifatto uguale a prima, la famiglia così ricadeva in una situazione di morosità e sfratto, il cui procedimento nel secondo caso era molto più veloce. La partecipazione al bando della morosità incolpevole diventa fondamentale per attaccare questo strumento.
L’altro strumento è quello dell’agenzia casa che prevede la presa in carico dei servizi sociali e del comune di case private, costruite anche su terreni pubblici. Quest’agenzia è sempre stata sbandierata dal comune come strumento risolutivo dell’emergenza abitativa. Molti proprietari che mettono a disposizione le proprie case comunque quando vengono date in affitto il comune non paga la sua parte.
Questi strumenti sono quelli che abbiamo usato negli ultimi anni per attaccare e ci hanno fatto accantonare per il momento l’idea di occupare esclusivamente le case come unico strumento di lotta all’emergenza abitativa. Con questo nuovo modo ci siamo sperimentati nel saturare gli strumenti che prima garantivano esclusivamente la rendita dei proprietari. Dopo il picchetto alcune volte andiamo negli uffici dell’ufficio casa e con le famiglie, fogli alla mano, facciamo chiamare gli impiegati, gli facciamo fare il loro lavoro. Una famiglia sola però si trova un muro di gomma difficile da abbattere.
In particolare il bando della morosità incolpevole è stato utilizzato negli ultimi anni in alternativa all’assegnazione delle case popolari. In alcune regioni non viene nemmeno utilizzato, viene affidato a delle commissioni, come la commissione territoriale sfratti, che non vengono interpellate o direttamente ci sono accordi con gli avvocati privati delle proprietà, in tanti casi senza coinvolgimento dell’inquilino. Non ci interessa stimolare il meccanismo dei contributi a pioggia ma saturare dei livelli di pacificazione che la controparte prova a mettere in campo, cercando di tamponare. Questi strumenti vanno attaccati e dunque conosciuti.
La questione del bando morosità incolpevole ha delle connessioni, almeno nella nostra città, con la sospensione della forza pubblica allo sfratto. Questa sospensione molte volte la vediamo come un orizzonte della nostra lotta, ma vorremmo ribaltare questo meccanismo: a livello tecnico in Toscana ci dovrebbe essere una commissione composta dagli enti locali, ufficio casa, servizio sociale, sindacati inquilini, confedilizia presieduta dalla prefettura. Questa commissione stila un elenco delle famiglie morose incolpevoli con le quali il servizio sociale progetta una soluzione alternativa all’esecuzione dello sfratto e questa commissione poi richiede al prefetto una sospensione temporanea. Questo è iniziato circa tre anni fa a partire dallo scontro che nel 2013-2014 avevamo costruito sui picchetti, che ha a che fare con il tipo di rivendicazione che portiamo avanti.
Se nel primo picchetto diamo una rivendicazione immediata del solo rinvio è insufficiente. Anche l’attivazione che richiede questa rivendicazione è insufficiente perché il picchetto è una prestazione che cambia nella forza e nella qualità secondo il tipo di attivazione che è stata fatta prima del giorno del picchetto. Questo lasso temporale precedente al picchetto indica il campo del territorio, delle istituzioni e delle forme di valorizzazione e di scontro. Questo ha a che fare con la commissione perché la rivendicazione è che questa debba richiedere la sospensione per tutte le famiglie morose incolpevoli, intendendo con questa definizione non quella del servizio sociale. Saturare questo livello significa che all’ultima commissione il prefetto ha negato la sospensione non a noi ma alla commissione territoriale.
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