Bologna: Al 36 un’inaccettabile barriera contro il diritto allo studio
Alla riapertura lo scenario presentatosi davanti agli studenti comprendeva una novità: un sistema di selezione degli ingressi, simile a quello in funzione nelle banche, che limitava di fatto gli accessi alla biblioteca ai possessori di badge. Già dopo qualche ora però il dispositivo di controllo ha di fatto smesso di esercitare la propria funzione: la maggior parte degli studenti e delle studentesse presenti hanno infatti deciso di aprire le porte di sicurezza, restituendo al 36 il suo valore aggregativo come spazio di socialità altra.
Non è un caso che una risposta di questo tipo si sia verificata proprio in questi spazi. Lo stesso dispositivo lo possiamo ritrovare anche in altre città d’Italia e nella stessa Bologna, dove meccanismi di selezione simili sono stati installati senza forti ostilità da parte del contesto sociale che si trovava a viverli e ad attraversarli.
Il radicamento di pratiche e discorso antagonista in zona universitaria, e più nello specifico in Via Zamboni, ha permesso immediatamente di non cadere nel tranello, nel paradigma della sicurezza. Subito abbiamo collettivamente riconosciuto i tornelli per quello che sono: un meccanismo di controllo e disciplinamento, una forma di chiara ostilità ad ogni aggregazione sociale libera e altra, insomma l’ennesimo dispositivo proprio dell’università neo-liberale, configurata in Italia dalla riforma Gelmini e dalla legiferazione successiva.
Nel caso specifico l’Unibo ha cercato di imporre il binomio diritto allo studio-sicurezza, come esattamente un anno fa quando assunse guardie armate private per controllare le sale studio. Come allora cacciamo gli sceriffi dalle nostre strade, così oggi non dobbiamo cedere a pericolose e per di più fasulle paure.
L’indisponibilità della cittadella universitaria a subire le politiche delle governance Ubertini, si è palesata recentemente anche in un’altra battaglia.La lotta contro il caro-mensa (tuttora in corso) che dall’ottobre di quest’anno ha visto crescere giornate di duro scontro alle porte della mensa di Piazza Puntoni, è un altro esempio simile: a fronte di una chiara volontà da parte universitaria di gestire problemi materiali studenteschi non fattivamente ma in termini di ordine pubblico (e perciò ‘appaltando’ l’iniziativa a Questura e Procura), centinaia di studenti sono riusciti, tramite la pratica del conflitto, a riconoscere amici e nemici, a guardare negli occhi l’università e conquistare l’importante legittimità di un’istanza prodotta collettivamente, e soprattutto dal basso. Faccia a faccia, ancora una volta, con meccanismi che denunciamo da anni, con il volto più brutale, immediato e palese dell’aziendalizzazione dell’Ateneo: quello che contava per loro non erano certo i bisogni studenteschi, ma gli interessi di una multinazionale.
In una città in cui, in questa fase, sembrano esserci sempre meno fondi per finanziare il diritto allo studio, in cui ogni anno centinaia di studenti si vedono sottratti della propria borsa di studio, gli studentati scarseggiano e un pasto alla mensa universitaria arriva a costare sino a 7€, l’Alma Mater decide di utilizzare le proprie risorse per costruire sistemi di sicurezza di cui non si sente nessuna necessità all’interno degli spazi universitari. In una fase in cui il disciplinamento dei settori giovanili sembra essere all’ordine del giorno del Partito Democratico, che non si è mai riservato dal dimostrare apertamente l’odio nei confronti di una generazione costretta alla precarietà e allo sfruttamento, le politiche della governance universitaria bolognese sembrano essere in assoluta continuità con le politiche imposte dal PD e dall’Unione Europea.
L’università, come la scuola post riforma Giannini, non è che uno strumento per imporre la precarizzazione come meccanismo di controllo dei settori giovanili, regalando di fatti a banchieri ed imprenditori una classe di lavoratori docile e disciplinata. A fronte della valorizzazione neoliberista, che dirime in base al reddito, dobbiamo batterci per far uscire allo scoperto il nemico -altrimenti camuffato- e lavorare alla nostra autovalorizzazione, da studenti precari con bisogni e comportamenti non solo propri, ma soprattutto incompatibili con i modelli imposti dall’alto.
Spazi sociali, mensa, tornelli al 36 potrebbero sembrare piccoli eventi locali e invece possono essere letti anche come una sorta di microfisica della lotta contro l’università post-riforma Gelmini. Continuare ad approfondire il radicamento nella zona universitaria attraverso l’attivazione su vertenze specifiche, attraverso la costruzione di saperi critici con i quali creare una narrazione sull’attualità, sapendosi nel frattempo contaminare e rinnovare, di pari passo con l’evolversi dei comportamenti e delle tendenze e proponendo torsioni antagonistiche al reale.
I tornelli al 36, le cariche di fronte alla mensa, il continuo negare spazi agli studenti non sono che diverse modalità di disciplinamento del soggetto universitario, nel tentativo di abituarlo, in un momento storico in cui la disoccupazione giovanile è ai suoi massimi storici, ad una continua competizione in cui a nessuno è permesso di sbagliare. Insomma, per loro va bene che ci battiamo, purchè il conflitto resti fratricida, inter-nos.
È in questo senso che quanto successo nella sala studio del 36 non va sottovalutato. In tempi di confini e respingimenti, nella nostra biblioteca l’università ha eretto una vera e propria barriera al diritto allo studio. Dobbiamo essere in grado collettivamente di renderla innocua, e possiamo farlo solo a partire dall’apertura di nuovi percorsi di lotta e nuovi spazi di agibilità politica, che in prospettiva riescano a collocarsi anche fuori da questi spazi e riconoscersi antidoto meticcio e solidale ad ogni deriva autoritaria, razzista e nazionalista.
tratto da Univ-Aut
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