Cantiere aperto per un’Università delle lotte
Nella cornice dell’estate No Tav, dal 29 agosto al 1 settembre, si è tenuta la quattro giorni di ‘Val Susa, l’Università delle lotte’, una sperimentazione di Università popolare proprio sul territorio dove ormai da più di vent’anni si conduce una delle lotte più longeve, interessanti e complesse del nostro tempo. La scelta di situare proprio nella Valle che resiste l’iniziativa non è stata casuale: sappiamo bene che la lotta si può imparare solo lottando, che solo vivendo i movimenti nei loro punti di forza, nelle loro contraddizioni, quindi nelle loro debolezze, si può imparare ad agire nella loro internità per potenziarli e rilanciarli. Quale migliore esempio del ‘metodo Val Susa’? Una lotta locale, ma non localistica, che sempre più si fa nazionale quando non europea. Una lotta dove la ricomposizione mette in connessione tessuti sociali, generazioni, spaccati politici e territoriali fortemente eterogenei. Una lotta che da un No costituente, dal rifiuto alla grande opera, ha imparato a generalizzarsi assumendo tratti (ancora in sviluppo) di lotta al debito, all’austerity e alla politica tradizionale nostrana. Una lotta, infine, la cui esemplarità, per molti versi irriproducibile, continua a porre con forza il nodo dei movimenti proprio quando questo diventa meno semplice e lineare: nel contesto della crisi, nell’Italia del governo tecnico dei professori.
Non è dunque un caso che su questo terreno siano confluite, nei momenti di massima tensione e conflittualità, quelle soggettività giovanili emerse durante il ciclo di lotte No Gelmini. Militanti, simpatizzanti, collettivi, aggregati vari ed eterogenei, hanno risposto alla chiamata della Val Susa, sperimentando poi sui loro territori pratiche e saperi condivisi. Soggettività oggi in difficoltà nell’ipotizzare – dopo l’esaurirsi del movimento – nuove strategie di lotta nel campo della formazione, trattenute dall’innegabile coda assunta dall’ondata No Gelmini: caratterizzata dalla mancanza di una reale capacità di generalizzazione a tessuti sociali più ampi (se non in maniera sloganistica) così come dall’insufficienza nel partorire forme altre di agitazione sociale, rinchiusa in una dinamica meramente resistenziale destinata ad esaurirsi velocemente. Ripartiamo per rielaborare limiti e ricchezze di una stagione ormai conclusa, ma soprattutto per fare i conti con le potenzialità a venire. Pensare ad un ciclo di lotte all’altezza non solo della scommessa indotta dalla crisi, ma anche delle necessità attorno alla riforma Profumo e alla questione della meritocrazia appare infatti piuttosto riduttivo: una riforma di aggiustamento, senza il peso specifico di quella Gelmini (pur costituendone il prolungamento naturale) che rischierebbe di rinchiudere i potenziali campi di lotta nel vicolo cieco di un vertenzialismo senza sbocchi. Da qui la necessità di trasformare il terreno di resistenza in punto di attacco, per ripartire pensando ancora all’Università come snodo di percorsi di soggettivazione, organizzazione, conflitto. Quali possono dunque essere questi percorsi nuovi e magari inediti da percorrere? Due nodi emersi nella loro centralità in ‘Val Susa, l’Università delle lotte’ così come fra le esperienze politiche dell’Università post-Gelmini sono stati indubbiamente quello del reddito e dei saperi. Il primo come ambito nel quale si stanno esprimendo le maggiori tensioni nel contesto della crisi generalizzata e che attraversa le resistenze contro un diritto allo studio in estinzione così come le possibilità alternative che da queste contraddizioni scaturiscono. Il secondo come campo di tensioni e di forze dentro cui abitualmente ci muoviamo, tensioni che chiedono di essere consapevolmente polarizzate nella loro apparente neutralità.
Innanzitutto il reddito: indubbia è la sua dirompenza nell’attuale congiuntura, come parzialmente testimoniano le prime fiammate di ciò che resta della classe operaia tradizionale. Meno scontata è la possibilità di una sua interpretazione sottratta ad ogni ipotesi di concertazione e di difesa vertenziale, così come la capacità di renderlo realmente ‘nodo’, grumo di relazioni fra Università e metropoli, terreno di continuità e trasversalità. Se è infatti vero che nel tessuto studentesco la questione del reddito resta una domanda aperta, ancora da indagare ed inchiestare, certamente l’attacco al diritto allo studio che in tutt’Italia si sta esprimendo con tagli alle borse di studio, con privatizzazione degli alloggi per i fuori sede, con consistenti aumenti delle tasse, impone con tale domanda un confronto urgente. Non si può certo negare che nel nostro paese il welfare familiaristico a costo zero sostenga in gran parte la domanda studentesca di reddito e tuttavia proprio gli scricchiolii di questo edificio welfaristico, sottoposto ad insostenibili pressioni dallo smantellamento di più ampi settori della spesa pubblica, lasciano presagire se non un suo crollo imminente perlomeno l’apertura di importanti punti di frizione. Che ruolo possono svolgervi le lotte? Quale la funzione delle pratiche di riappropriazione diretta ed indiretta? Quanto possono queste ultime farsi vettore di una concreta sottrazione di terreno alle istituzioni della formazione (e non solo) sul campo della produzione di soggettività? Non solo, ma non si pone forse in maniera sempre più urgente la questione di una reale riproducibilità delle lotte e di quanti ne prendono parte (quando più precarie si fanno le condizioni materiali di vita), questione che impone di ragionare sulla possibile apertura di spazi di controwelfare per la lotte stesse dentro e fuori le Università? Su questo solco (oltre naturalmente alle esperienze di riappropriazione studentesche) si possono in parte collocare le diffuse occupazioni dei lavoratori della cultura, dello spettacolo e della formazione nel corso dell’ultimo anno, le quali, se hanno avuto il merito di riuscire a costruire intorno alla riappropriazione un immaginario forte, si sono rivelate incapaci di esprimere una reale frattura, rischiando di chiudersi in forme di corporativismo relativo che rendevano difficile non tanto la creazione di consenso, quanto la possibilità di aprire scenari realmente generalizzabili ad ulteriori frazioni sociali. Se è probabile che esperienze di questo genere si diffondano sempre di più sui nostri territori, la scommessa a cui guardare sarà quella di provare a scavalcare l’identità vertenziale per immaginare percorsi di attivazione e conflitto più larghi e condivisi possibile.
In secondo luogo i saperi, campo di frizione imprescindibile per la costruzione di una reale internità conflittuale ed alternativa nel contesto universitario. Non c’è bisogno di sottolineare quanto l’esigenza in campo sia radicalmente distante da un’acritica difesa della cultura che, assumendola nella sua presunta neutralità, finisca per legittimarne egemonie, protagonismi, narrazioni ufficiali. E forse neppure la pratica dell’autoformazione intesa come produzione e diffusione di saperi militanti e di parte può bastare, essa sola, a costruire questa internità conflittuale finché essa non riesca ad interrogare direttamente le vite degli studenti, i contesti formativi che questi abitano, i concreti processi di soggettivazione messi in campo da un’organizzazione sempre più specialistica e professionalizzante dei saperi. Certo l’ambizione resta quella di una controsoggettività sempre più capace di sollevare lo sguardo dal recinto sicuro dello specialismo della formazione universitaria, per leggerne saperi, tecniche e professionalità prodotte nella loro dimensione globale, come sedimentazione di processi più ampi, riconoscendone la politicità e gli attori che le direzionano. E tuttavia questo può concretamente avvenire senza ripartire dal livello più basso dove tali processi prendono corpo, dove l’istituzione mette in campo le concrete strategie di produzione dei soggetti, nelle facoltà, nelle aule delle nostre Università? Che ogni studente sia un individuo già soggettivato dai saperi, dalle tecniche, dai concreti processi educativi che lo abitano (oltre che dai dispositivi organizzativi dentro cui si muove) vuol dire esattamente che l’autoformazione (per essere non solo formazione militante ma anche occasione soggettivante per chi militante non è) non deve rimuovere questo sostrato ma assumerlo come punto di partenza per scardinarlo dall’interno. Forse la scommessa in campo è esattamente quella di tornare nelle facoltà, di ripartire dai saperi come da ciò che parla delle vite di tutti gli studenti, di costruire percorsi di attivazione e partecipazione che partendo lì guardino ad un orizzonte più ampio. Introdurre non il salto (la frattura che rende parallele e mai tangenti formazione politica e formazione universitaria) ma la continuità capace di portare la contraddizione nel cuore dell’istituzione, per renderla concreto terreno di processi di organizzazione e conflitto.
Ipotesi di lavoro, che dovranno essere messe a verifica, in tentativi la cui riuscita difficilmente potrà essere assicurata a priori da una ricetta valida per ogni contesto, che ci obbligano a fare i conti su livelli di realtà appartenenti ad uno scenario futuro incerto ma ricco di interrogativi, e possibilità. ‘Val Susa, l’Università delle lotte’ è stata una sperimentazione ricca e potente, per la quale crediamo non si debba venire a capo con una sintesi e con una narrazione al singolare, perchè la pluralità della sua ricchezza e partecipazione ne sarebbe sminuita: i collettivi e le soggettività che hanno vissuto la quattro giorni di campeggio, discussione ed iniziativa, nella Val Susa No Tav, hanno fatto ritorno sui loro territori con un bagaglio di esperienza che, crediamo e speriamo, tornerà utile nelle lotte che verranno come nella quotidianità militante.
‘Val Susa, l’Università delle lotte’ è stato un primo spazio politico di comunicazione e connessione, che ha fatto convenire in Val Susa una molteplicità di collettivi universitari (e non) provenienti da decine di situazioni territoriali differenti, con i quali è stato importante non solamente mettere a verifica le esperienze di movimento delle passate stagioni di mobilitazione ma soprattutto immaginare i possibili percorsi di lotta e conflitto di domani: saperi e reddito, due macronodi che se affrontati nella visceralità del loro significante e non nella velleità della pubblicistica ideologica dell’ovvio, costituiscono due scommesse da compiere sul tavolo da gioco della crisi. Progetti di lotta che debbono andare a costituirsi dai territori, rompendo la logica ghettizzante di un rapporto di conflitto e sinergia da andare – ancora! – a costruire tra Università e metropoli.
La chiusura del campeggio sotto il battito di domande ed interrogativi, possibilità e ipotesi, siamo convinti restituisca la potenza collettiva di un futuro da scrivere, nelle lotte, che pensiamo non debba essere schiacciato dalla ritualità del conosciuto, improntato da una replicata sloganistica, da improvvisati sodalizi e vuote progettualità, galleggianti in una mare della crisi che oggi si riconosce nell’assenza del conflitto sociale ma che deve essere affrontato nella ricerca di soggettività e spazialità che magari faranno emergere composizioni e rivendicazioni inedite e complesse. Anche la preposizione del ‘contro’ merita, quantomai oggi, una contestualizzazione e tematizzazione all’altezza delle sfide, per fornire ad essa la forza ed il valore baricentrale delle nostre soggettività e dei nostri progetti di lotta. Urgenza di lavoro militante e ragione di ritrovo collettivo, questo il costituente e politico adagio per un’Università delle lotte, in Val Susa o altrove.
Collettivo Universitario Autonomo – Torino
dalla Valle che resiste; Chiomonte, Val Susa
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