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Come sfidare “i due Matteo”

Indubbiamente, il M5S paga l’aver optato per le istituzioni a scapito della piazza, senza saper gestire politicamente questa contraddizione; e appare a molti suoi ex elettori un movimento che è stato inconcludente sull’uno e sull’altro piano. Non ha mediato dove si sale per riformare, non ha inciso dove si scende per rivoluzionare. Questo perché è stato fin dall’inizio un movimento privo di pensiero politico, inteso come costellazione analitica generale. Con buona pace dei professoroni di tutte le età, infatti, la gente sceglie orientandosi pur sempre – tanto per le istituzioni, quanto nella piazza – su una visione, un discorso, un pensiero che sappia presentarsi come forte e quindi in grado di esercitare un potere sociale (poter conservare, poter riformare, poter rivoluzionare). Indubbiamente l’assenza di questa prospettiva non ha permesso al movimento, per ora, di tenere assieme la sua base internauta (intrisa di valori illuministici, sebbene talvolta spiazzanti) e il suo elettorato trasversale, che dell’illuminismo trattiene più che altro la (tutt’altro che negativa, di per sé) valorizzazione egoistica dell’interesse immediato (un elettorato, non a caso, in gran parte ex berlusconiano).

Proprio l’arcipelago ex berlusconiano, d’altra parte, è in crisi sotto ogni punto di vista: organizzativo, programmatico, elettorale; non da quell’altro punto di vista, quello del potere: ciò che dimostra quanto il progetto del Pd renziano sia fondato su un’idea di partito della nazione che deve tutelare anzitutto determinati blocchi d’interesse in termini concreti. Da questo punto di vista, Salvini si limita a tentare un partito nazionale di tipo diverso, che faccia leva sull’ostilità verso l’Europa “straniera” e gli stranieri “non europei”. Non è ad ora facile prevedere quanto gli italiani vorranno concedere una chance ai nuovi leghisti (il nuovo leader rischia infatti di apparire come l’ennesimo buffone dalla promessa facile e dal sorriso poco sincero) e quanto, dentro la Lega, sarà possibile imporre un discorso che si rivolga, appunto, agli “italiani”. Certo è che la liquidazione politico-mediatica del M5S (non necessariamente definitiva) e la crisi delle strutture berlusconiane apre spazio a un leader che sembra aver capito come si è costruito il movimentismo neofascista nel resto d’Europa.

Il neofascismo è un pericolo, naturalmente: qualcosa a cui rispondere tanto politicamente quanto, dove necessario, in modo militante. È, inoltre, qualcosa cui è necessario rispondere con argomenti non banali, perché le ragioni per cui milioni di esseri umani vengono così facilmente distratti dalla loro oppressione e dal loro sfruttamento, per rivolgersi contro altri oppressi e sfruttati, non può essere banale. Non è qualcosa che entra in crisi se dimostriamo alle nostre coscienze di essere “antirazzisti”, mentre può trovarsi in maggiore difficoltà se mettiamo in campo pratiche di attraversamento sociale che non facciano dell’antirazzismo un’ulteriore giustificazione del suo contrario – là dove il nostro discorso si presentasse come ideologia onnicomprensiva e autoevidente, generalizzazione caricaturale delle problematiche sui territori, soluzione percepita come pregiudiziale di questioni che (al netto della loro frequente curvatura in termini reazionari) possono talora trascendere le più semplicistiche spiegazioni. Soltanto l’indagine meticolosa (e umile) dell’humus sociale che abbiamo intorno potrà permetterci di distinguere il germoglio dei fiori dalla merda secca, o fare in modo che quest’ultima non abbia sul lungo termine il sopravvento – schiacciando una resistenza debole perché percepita come ideologica.

Esiste però un pericolo ancora più sottile: è la cattura delle nostre istanze, delle istanze proprie dei movimenti, nelle dinamiche attorcigliate del frontismo (pseudo)antifascista (quasi un riflesso pavloviano in molti settori dei movimenti organizzati e in alcune aree affinitarie). Cosa significa? Che sottovalutiamo l’antifascismo? Al contrario, lo consideriamo sul serio. Suggeriamo soltanto una riflessione: nelle scorse settimane non pochi sono stati occupati a pensare, a scrivere (più raramente ad agire) contro l’improvvisa, percepita, emergenza di un “rigurgito fascista” metropolitano, tipicamente colorito di venature sociali descritte in maniera variegata e contrastante. È giusto porsi il problema, e giusto è intervenire in maniera meditata, con iniziative immediate o di medio periodo. Tuttavia, al tempo della “buona scuola”, dello “sblocca Italia” e del “Jobs Act”, il nemico numero uno dovrebbe comunque essere percepito nel governo: altrimenti, proprio questo effetto di distrazione ci frega da cima a fondo, consegnando alle destre intere guarnigioni oplitiche di “proletariato”, facendo della destra la sola (malintesa) opposizione incazzata.

Con questo non intendiamo affermare che i due “Mattei”, intesi come costellazioni politiche e rappresentazioni d’interesse, come diversi modelli di partito-nazione solidale nella tutela delle pratiche del nostro sempre più duro sfruttamento, non debbano essere affrontati insieme, l’uno e l’altro. Tanto il blocco finto-riformatore, profondamente autoritario, davvero violentemente razzista (vedi le politiche migratorie e la politica estera) diretto dal Pd renziano, quanto quello padano-lepenista in trasformazione (con tutto il contorno di fascistume gregario) sono nostri nemici qui ed ora. Occorre però mettere a fuoco che, nell’Italia disillusa per l’ennesima volta, incantata ancora un po’ da Renzi, ma forse non per molto, unico argine alla reazione dispiegata e al disastro dello scivolamento a destra della classe oppressa non saranno la retorica culturalista che consegna l’Italia ai razzisti e lo paranoia immobile che la consegna ai fascisti – né le pose saccenti, transustanziazioni moralistiche della lotta storica, allergiche alla complessità e ruvidità del concreto. Sarà la nostra istigazione ragionata all’eversione complessiva dei parametri della politica odierna, sarà l’articolazione comprensibile di un’organizzazione dell’odio. Un compito che, a ben vedere, pretende di essere assunto come compito principale.

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