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Com’è stato il 19 Ottobre (Visto dal Pigneto)

Riceviamo e pubblichiamo questo documento scritto da alcun* compagn* del Pigneto. Per continuare il dibattito sulle prospettive del dopo #19ottobre…

 

Nei giorni che seguono il 19 Ottobre, diventa sempre più evidente che in Italia sta finalmente prendendo consistenza una forza autonoma che si organizza in termini di massa. Questa grande manifestazione autonoma da un lato è riuscita ad operare una vera e propria secessione dalla sinistra governamentale, dall’altro ha preso atto che le forme di organizzazione, le soggettività, gli schemi analitici e le pratiche utilizzate nel ciclo di movimento no global sono divenute obsolete. Se il fulcro di quel movimento è stata la critica all’apparato mondiale di governo (FMI, Banca Mondiale, UE, G8, Nato), oggi per l’insieme delle questione messe in campo dalle nuove lotte (l’abitare, la logistica, le infrastrutture, le nocività, ecc.) si è compreso che l’ordine globale non può essere preso direttamente come nemico, in quanto la perfezione del potere non sta nel fatto di essere globale, ma di essere globalmente locale. Oggi l’ordine globale consiste in un’occupazione sempre più invasiva e autoritaria del locale. L’indicazione, dunque, è che non ci si oppone all’ordine globale contestando esclusivamente gli organi sovranazionali di governo, ma creando localmente, territorio per territorio, le condizioni materiali per la secessione dall’economia. In sintesi, si potrebbe dire che così come esiste una strategia globale capitalistica che si singolarizza nei diversi territori, così deve esistere una strategia mondiale rivoluzionaria che permetta una dinamica di continua osmosi, dal globale al locale e viceversa.
Dunque, c’è da dire che nonostante gli slogans, come il rifiuto delle politiche di austerity imposte dalla Troika o le rivendicazioni di un diritto al reddito da erogarsi su base europea, sembrino ascrivibili ancora alla fase precedente, la piazza del 19 ha espresso molto altro.  

Ci sembra che essa abbia fatto risuonare in sé le esperienze di lotta di tutto il mondo. Non solo si afferma ancora una volta il principio del ‘nessuno ci rappresenta’,  ma sembra risuonare in quella piazza la consapevolezza per cui è la vita, molto più del diritto, la posta in gioco delle lotte politiche. Quel che si rivendica è la buona vita, intesa come bisogni fondamentali e pienezza del possibile.

È questa l’affermazione che risuona in tutte le lotte contro le infrastrutture metropolitane che hanno scosso il pianeta negli ultimi anni. Si tratta di lotte che percepiscono l’intensità dell’attacco derivante dall’estensione delle infrastrutture che sussumono le forme-di-vita al processo di valorizzazione capitalistica, e che di conseguenza tentano di sottrarsi al processo di metropolizzazione della vita.

E non è un caso che in quella piazza il 19 O riecheggiava la forza del movimento No tav, di quello No muos, ma anche della Comune di Oakland e di Piazza Taksim.

Del resto la potenza di questa continuità sembra essere stata ben colta, ed anche in largo anticipo, dalle forze governamentali. In tal senso risulta emblematica la strategia controinsurrezionale che nei mesi precedenti, e fino al 19 O, ha giocato la sua partita prevalentemente su un piano preventivo. A fine manifestazione, sono del resto le parole stesse del questore: “io credo nella prevenzione più che nella repressione”, a confermare questo metodo.

I media, non appena reso pubblico l’appello che chiamava la giornata e  lavorando di concerto con l’intelligence, si schierano, come già avvenuto il 15 O, nella guerra civile latente, per disegnare a livello preventivo un nemico interno, invitando la popolazione a prenderne precauzionalmente le distanze. I media, riprendendo le veline della questura, hanno mappato i luoghi della circolazione dei ‘sovversivi’ e fatto ipotesi di associazionismo terroristico nel ricostruire  presunte relazioni politiche, prospettando così per la giornata del 19 scenari apocalittici. Ma il dispositivo metropolitano governamentale  ha agito anche ricorrendo a particolari tecniche di gestione eccezionale della popolazione  come ordinanze straordinarie, fermi e perquisizioni, fogli di via e rimpatri forzosi . Il governo controinsurrezionale ha dunque preso alla lettera lo slogan della manifestazione “portare la valle in città”, riproducendo tutto il repertorio delle tecniche adottate per la gestione del territorio della Val di Susa. Ulteriormente emblematica in questo senso è stata la politica di gestione della piazza, improntata su un “lasciamoli giocare” , ma forte di una profonda dispositivizzazione questa sì  sempre più “europeizzata” del corteo. Inoltre questa è stata ulteriormente favorita dalla scelta di un campo di battaglia metropolitano, questa volta inteso in senso più urbanistico che politico, fortemente ostile, per inciso ricordiamo che buona parte della manifestazione si è svolta nel luogo dove nell’antica Roma era situato l’accampamento militare dell’Impero a ridosso delle mura cittadine. Questo ha consentito  alla strategia controinsurrezionale di attuare un’altra delle parole d’ordine del movimento, di praticare ‘l’assedio’, rendendo lo slargo di Porta Pia inabitabile, così svuotandolo di ogni forma di uso possibile. Ma è evidente che seppure la controinsurrezione abbia agito, come sempre, sulla percezione sociale, essa non è riuscita, come già da altri sostenuto, a neutralizzare quel “territorio esistenziale che ha spinto 70.000 persone a sfidarne il dispositivo allucinato e cattivo”.

Nonostante l’inabitabilità della piazza, la sua irrestituibilità all’uso e la dispositivizzazione del corteo,  la piazza del 19 O ha aperto un campo di possibilità realmente attraversabile.  Ha consentito l’affermazione di una presenza, che pure essendosi espressa in termini di potenza del ‘non fare’, ha contribuito a far emergere il profilo di una classe anche in assenza di un soggetto egemone . È in tal senso che questa volta il tanto auspicato ‘ritorno ai territori’, che si proclama continuamente al termine di ogni manifestazione, ha giovato veramente a tutti.

Ma forse, in momenti di piazza come quelli del 19 O, occorre anche sviluppare e praticare una forma di immaginazione collettiva che consenta di ‘deviare’, di ‘sorprendere’ , di ‘superare’, il prevedibile, il governabile…

L’occupazione di piazza Tahrir e di Gezi park , come d’altronde le acampadas e gli Occupy, sono delle sperimentazioni di formazioni di comuni autonome che alludono alla possibilità di abitare uno spazio che non sia più quello dell’ambiente dispositivizzato della metropoli. Pensiamo che da queste esperienze sia possibile dedurre un suggerimento, per così dire, organizzativo da attuare anche nei singoli territori. Si tratta cioè di creare localmente degli organismi autonomi che siano in grado di inaugurare una sperimentazione su cosa vuol dire uso, comune e certamente rivoluzione. Occorre a tutti i costi rendere temporalmente durature queste esperienze, poiché  dalla loro durata dipende la possibilità di destituire la metropoli e di dare consistenza ad una forma di vita altra.

È in questo senso che vanno intensificate le esperienze come gli Tzunami tour del movimento di lotta per la casa, i campeggi e le libere repubbliche della Val Susa.

Le giornate di lotta dell’ottobre romano imprimono un nuovo senso di marcia e al tempo stesso rafforzano le tante esperienze di autorganizzazione territoriale disperse nella metropoli. E ciò vale anche per quella di chi scrive, di chi cerca nel quotidiano di mettersi di traverso al processo di gentrificazione che da anni sfigura le città. È questo che accade infatti anche al quartiere del Pigneto a Roma, quartiere popolare sottoposto ad un violento processo di riqualificazione in cui i vecchi abitanti vengono espulsi e sostituiti con nuovi abitanti ad alto reddito, e dove alla ristrutturazione degli immobili seguirà, come al solito, la pacificazione dell’area in senso turistico e di consumo. È qui che stiamo cercando, insieme ad altri, di creare un’articolazione territoriale che sappia opporsi  alla griglia mercificante imposta dalla metropoli. Questa articolazione territoriale consiste nel tessere relazioni e amicizie politiche sempre più intense tra il nostro infoshop, i centri sociali di Roma-est, i comitati di quartiere, ma anche alcuni bar e altri luoghi che con un minimo di complicità possono sfuggire alla loro funzione ufficiale. Siamo infatti convinti che più sono le basi materiali che si sovrappongono in una zona data, maggiore è la circolazione e la solidarietà tra le stesse, minore è la possibilità che il potere abbia presa su di essa.

La composizione e la connessione delle tante esperienze di autonomia disperse nei territori sono una chance in più per la nascita del movimento rivoluzionario.

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