Correa, Morales e il laboratorio sudamericano
La lunga attesa dei discorsi di Morales e Correa (previsti per le 17, ma iniziati solo alle 18. 30) è stata caratterizzata da un crescendo di slogan e canti, esplosi in un boato finale all’apparire dei due presidenti. Tuttavia, quando costoro hanno iniziato a parlare, frequentemente interrotti da applausi scroscianti, l’emozione ha lasciato il posto all’analisi politica, perché i rispettivi interventi sono apparsi piuttosto diversi, sia per stile che per contenuti.
Morales ha parlato da un piccolo pulpito, con composta lucidità e con il linguaggio che ci si aspetta da un leader di sinistra: ha raccontato nei dettagli l’episodio di cui è stato vittima; ha ricapitolato il percorso politico che gli ha permesso di conquistare il potere; ha spiegato perché gli Stati Uniti hanno tentato con ogni mezzo di impedire la sua vittoria; ha riconosciuto il proprio debito nei confronti dei movimenti sociali (e in minor misura delle sinistre tradizionali, che si sono aggregate alla sua coalizione in un secondo tempo); ha delineato un progetto esplicitamente socialista e anticapitalista; ha parlato infine della necessità di riformare radicalmente lo stato e la burocrazia boliviane, riconducendole allo spirito di servizio e aprendo nuovi spazi di democrazia.
Correa è apparso molto più “mediatico”, ha “recitato” il proprio discorso con talento da consumato showman, passeggiando per il palco con il microfono in mano; ha adottato a sua volta toni antimperialisti e anticapitalisti, ma non ha mai usato una terminologia socialista, sottolineando che non si tratta di superare l’economia di mercato bensì di regolarla; ha sparato a zero (è uno dei suoi leitmotiv preferiti) sulla stampa che non cessa di metterlo sotto tiro; infine, nell’attaccare gli Stati Uniti sulla vicenda Snowden, ha messo in luce le ipocrisie e le contraddizioni del discorso americano sui diritti civili (laddove Morales aveva più piuttosto rivendicato una radicale differenza di concezione in merito a tali diritti rispetto a quella degli Stati Uniti).
La convergenza, il punto che mette d’accordo tutti, confermato dall’intensità delle reazioni della folla, mi è parso di capire che sia, al di là delle differenze, il sentimento antiamericano (in minor misura antieuropeo) che nasce dall’identificazione in una “grande patria” latinoamericana, che appare oggi in grado di opporsi a vecchi e nuovi colonialismi.
Quanto alle differenze ideologiche e di “stile” fra Morales e Correa, ho la sensazione che riflettano le differenze socioeconomiche fra Bolivia ed Ecuador: la prima più povera e con una percentuale più elevata di contadini e indigeni; la seconda con un peso ben maggiore delle classi medie. Ma approfondire questo tema richiederebbe ben altro spazio di quello concesso da un blog.
Carlo Formenti
da MicroMega
La lunga attesa dei discorsi di Morales e Corea (previsti per le 17, ma iniziati solo alle 18. 30) è stata caratterizzata da un crescendo di slogan e canti, esplosi in un boato finale all’apparire dei due presidenti. Tuttavia, quando costoro hanno iniziato a parlare, frequentemente interrotti da applausi scroscianti, l’emozione ha lasciato il posto all’analisi politica, perché i rispettivi interventi sono apparsi piuttosto diversi, sia per stile che per contenuti.
Morales ha parlato da un piccolo pulpito, con composta lucidità e con il linguaggio che ci si aspetta da un leader di sinistra: ha raccontato nei dettagli l’episodio di cui è stato vittima; ha ricapitolato il percorso politico che gli ha permesso di conquistare il potere; ha spiegato perché gli Stati Uniti hanno tentato con ogni mezzo di impedire la sua vittoria; ha riconosciuto il proprio debito nei confronti dei movimenti sociali (e in minor misura delle sinistre tradizionali, che si sono aggregate alla sua coalizione in un secondo tempo); ha delineato un progetto esplicitamente socialista e anticapitalista; ha parlato infine della necessità di riformare radicalmente lo stato e la burocrazia boliviane, riconducendole allo spirito di servizio e aprendo nuovi spazi di democrazia.
Correa è apparso molto più “mediatico”, ha “recitato” il proprio discorso con talento da consumato showman, passeggiando per il palco con il microfono in mano; ha adottato a sua volta toni antimperialisti e anticapitalisti, ma non ha mai usato una terminologia socialista, sottolineando che non si tratta di superare l’economia di mercato bensì di regolarla; ha sparato a zero (è uno dei suoi leitmotiv preferiti) sulla stampa che non cessa di metterlo sotto tiro; infine, nell’attaccare gli Stati Uniti sulla vicenda Snowden, ha messo in luce le ipocrisie e le contraddizioni del discorso americano sui diritti civili (laddove Morales aveva più piuttosto rivendicato una radicale differenza di concezione in merito a tali diritti rispetto a quella degli Stati Uniti).
La convergenza, il punto che mette d’accordo tutti, confermato dall’intensità delle reazioni della folla, mi è parso di capire che sia, al di là delle differenze, il sentimento antiamericano (in minor misura antieuropeo) che nasce dall’identificazione in una “grande patria” latinoamericana, che appare oggi in grado di opporsi a vecchi e nuovi colonialismi.
Quanto alle differenze ideologiche e di “stile” fra Morales e Correa, ho la sensazione che riflettano le differenze socioeconomiche fra Bolivia ed Ecuador: la prima più povera e con una percentuale più elevata di contadini e indigeni; la seconda con un peso ben maggiore delle classi medie. Ma approfondire questo tema richiederebbe ben altro spazio di quello concesso da un blog.
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