Crocifissioni riprese dallo smartphone. Antropologia politica di Isis
Già da diverse settimane ci chiedevamo in redazione cosa fosse Isis. Nel frattempo, oltre alla proclamazione dello stato islamico, piovevano immagini di esecuzioni, di decapitazioni, di feroci conflitti tra Siria ed Iraq. Questo articolo, che poi verrà rielaborato in forma di saggio e riversato sul sito academia.edu, cerca di rispondere a diverse domande su Isis al di là della contingenza giornalistica. Il lavoro è diviso in due sezioni. La prima, (Immagine, antropologia e politica di Isis) cerca di fissare delle categorie analitiche di lettura all’interno del concetto di barbaro, di immagine, di antropologia del politico. La seconda (Fonti di Isis) si occupa di commentare alcune fonti selezionate, video e articoli, prodotte da Isis o che riguardano materiale che tratta questo argomento. L’uso della dizione “Isis” invece che di quella, più corretta di “Is” (Islamic State, stato islamico) è dovuto alla sua maggiore diffusione. E anche alla forte evocatività, dovuta all’omonimia con Isis, la divinità egizia che si narrava proveniente dall’oltretomba. Suggeriamo a chiunque sia interessato a studiare i video linkati di scaricarseli visto che i link cambiano velocemente. A volte anche in poche ore. Per cui per i link che risultano vuoti si consiglia di cercare nella memoria cache di Google. Il materiale che arriva a disposizione di chi legge è comunque significativo.
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Immagine, antropologia e politica di Isis
Sembra tutto vero, con una corrispondenza tra categorie e fenomeni che forma una simmetria quasi geometrica, solo che un’analisi della morfologia visuale dei prodotti Isis (foto, video e testi correlati all’immagine) ci rivela ben altro fenomeno. Un fenomeno, nel quale, tra il tipo di jihad di Isis e quella presente nelle culture sciite di oggi passa la stessa differenza che c’è tra il sashimi e l’hosomaki. Due differenti tipologie di sushi che oggi fanno entrambe parte della cultura globale della cucina, come i differenti tipi di jihad fanno integralmente parte, almeno dagli anni ’90, della cultura politica globalizzata. E sushi non è più giapponese come la pizza non è più italiana. Entrambi sono infatti da tempo fenomeni globali. Come non lo è, da tempo, la jihad o la mobilitazione dei movimenti sui social media (scoperta con Seattle ’99). Certo, ci sono dinamiche locali che spiegano l’origine dei fenomeni e dinamiche globali che ne definiscono la consistenza. Ma l’antropologia politica di Isis non è tutta ripiegata all’interno della cultura araba o del mondo islamico. È un prodotto del globale. Quindi ancora più inquietante.
Le crocifissioni dei ladri a Raqqa, riprese dallo smartphone da un gruppo di ragazzini e documentate da Vice News, e le teste dei nemici infilate sui giardini dei cancelli della stessa città altro non sono che materiale caldo per twitter. Postato sia come orgogliosa prova dell’implacabilità di Isis che come allarmata denuncia della sua ferocia. È materiale che fa quindi parte della cultura politica digitale globale. Non certo di una ritardata ferocia araba a fronte di una opinione pubblica occidentale matura e tollerante. Tanta illusione sulla twitter revolution del medio oriente, al netto di fantasie prive di lucidità nella lettura dei contesti dove avvenivano le insorgenze arabe, stava infatti in un serio travisamento dell’insegnamento di McLuhan. Ovvero nell’idea, travolta dai fatti, che una tecnologia della comunicazione prodotta a occidente fosse la garanzia di una egemonia occidentale nel governo dei valori e dei contenuti. Garanzia impossibile nel mondo globale: al contrario, la cultura dei contenuti istantaneamente diffusi, ha dei processi di accelerazione produttiva che non saltano solo i confini fisici ma anche gli steccati antropologici. Oltretutto in un mondo dove, basta aver fatto un po’ di ricerche a suo tempo, sono i soldati americani ad aver esposto per primi su youtube e social network gli iracheni o parte dei loro corpi come trofeo (a Falluja, Ramadi, Bagdad etc.) Oltretutto oggi la jihad non è solo araba mentre, su un’altra scala di diffusione dei fenomeni, la democrazia da diverse epoche non è più solo ateniese. Basta vedere l’insistenza con cui i messaggi dei vari media center di Isis non sono solo tradotti in inglese ma anche in tedesco. Segno che si parla in una logica di Europa globale, nella quale è presente ovviamente anche la cultura tedesca, non solo a chi conosce l’arabo o a chi deve riconoscere l’inglese come linguaggio planetario. Finisce, naturalmente, che su Youtube si trovano predicatori tedeschi, bianchi che invocano la jihad nella loro lingua nativa per un pubblico globale, con sottotitoli in inglese. Finisce che sui blog dedicati ad Al-Baghdadi si chiedono volontari per la traduzione, dei messaggi sulla guerra santa, in ogni lingua. E Isis, che conosce bene il linguaggio dei trailer e dei clip dei videogiochi, crea filmati di proganda da orgia del terrore che, come accade in uno spot di Diablo 3, sembrano dire, sibilando, “fuggite” a chiunque sia in linea o in ascolto. È un linguaggio per il grande pubblico, quello cresciuto, in tutto il mondo, su Playstation prima ancora che su X-Box e che frequenta poco i media uffiali. Poi c’è chi fugge davvero come chi è attirato dalla proposta del gioco di ruolo di quel genere di consolle. Diciamo quella consolle multipiattaforma chiamata mondo reale. La stessa definizione data di Isis, da parte del dipartimento della difesa americano, riprende il linguaggio dei trailer cinematografici: “la più grande minaccia mai immaginata”. Sembra puro Hollywood e in parte è vero. Specie nella parte per cui Hollywood, come la jihad o il sushi o Lionel Messi, quello reale e quello nella serie Fifa della Ea sports, fa parte della cultura globale. E si guardi a questo video: per spiegare Isis, e denunciarla politicamente, dopo 30 secondi di foto dal nord dell’Iraq, senza commento, la narrazione si dispiega sovrapponendosi allo svolgimento di un videogioco di guerriglia urbana. I processi di apprendimento della politica, e della critica politica, passano attraverso la trama del videogioco. Basta aver visto un manifesto di convocazione dello Schwarze Block di un anno e mezzo fa, un ottimo subvertising di Grand Theft Auto, per capire quanto il linguaggio dei videogiochi sia già pienamente entrato non solo nell’immaginario ma anche nell’espressività del politico. Non nicchia espressiva ma precondizione per un linguaggio politicamente operativo.
Risulta così chiaro come la prognosi del fenomeno che Huntington ne Lo scontro delle civiltà definisce come rigurgito aggressivo delle culture non-occidentali, a seguito della caduta del muro di Berlino, sia fuori bersaglio. Non perché manchi l’aggressività in Isis ma perché la definizione di cultura occidentale e non occidentale, sia sul piano simbolico che su quello politico, è precedente ai processi che stiamo vivendo. Curioso che ancora oggi sopravviva la spiegazione dell’evoluzione dei processi culturali, presente nel romanticismo tedesco tra sette e ottocento. Quella che, mutata dalla nascente biologia, voleva che i processi culturali, come piante isolate tra loro, si susseguissero sullo scenario della storia mondiale senza incontrarsi o urtandosi, facendosi guerra, senza conoscersi. Dopo due ondate di globalizzazione, la prima caratterizzata dalla stampa e dal telegrafo mentre la seconda definibile tramite internet e il mobile, lo schema di Huntington non regge proprio nell’impossibilità materiale di tenere separati oriente e occidente. Con conseguenze enormi nella politica istituzionale ma anche nello spazio dei movimenti. I quali, usando tecnologie occidentali della comunicazione, proprietarie e non, si trovano anch’essi a non avere più garantito il primato simbolico dei valori universali, di origine occidentale quanto i processi della comunicazione mediale, presenti nella loro elaborazione di messaggio. Per cui diritti, reddito, eguaglianza di genere, democrazia radicale e di base risultano essere codici comunicativi meno universali di quanto si pensi. Basti dire che oggi i media center della jihad attraggono molto di più, comunicando in modo molto più complesso e stratificato, di ciò che resta di fenomeni come Indymedia. O che parlano di diritti come e dove non te le aspetteresti. Come lo si capisce la promo per i media center dedicati alla jihad dell’Isis. Lo spazio comunicativo europeo è, in questo modo, unificato sì dai movimenti ma da quelli per la guerra santa. Movimenti che unificano il continente, parlando inglese come francese o tedesco, per separarlo dall’appartenenza alla cultura dei diritti universali tramite un linguaggio globale.
Non si sta quindi giocando uno scontro tra civiltà ma una sorta di guerra dei trent’anni di cui le torri gemelle sono sicuramente un lascito, che deve ancora trovare la sua pace di Westfalia, entro la stessa cultura globale. E questo vale per la politica istituzionale come per quella di movimento. Entrambe, da prospettive peraltro diversissime, spiazzate rispetto ad uno scenario che li terrorizza molto ma che capiscono poco. Epppure già da almeno un lustro un testo intelligente, che ratifica una serie di dibattiti sul tema precedenti alle torri gemelle, come Islamic Radicalism and Global Jihad (a cura di Springer-Regens-Edger,Georgetown University Press, Washington 2009) parla di “universalismo soggiacente alla jihad globale”. Perché il califfato, analizzato qui nelle versioni della decade 2000, non è tanto localizzabile in un preciso territorio ma ovunque, nel mondo globale, vi sia un musulmano. La pluralità delle lingue evocate, ad esempio, nei promo di Isis dello Al-Hajat Media Center, uno dei nodi della Indymedia della jihad, mostra come la localizzazione del califfato, versione Al Baghdadi, non escluda anch’essa processi di universalismo simbolico e quindi politico. Un universalismo differente da quello dei diritti dell’uomo ma, oggi, cifra di una lingua globale. Non siamo di fronte quindi al Terrorista premoderno, come da titolo dell’articolo di Zizek su Repubblica, ma davanti a qualcosa che fa opera di originale ricombinazione globale di elementi noti e conosciuti.
William Mitchell, a conclusione di Cloning Terror (University Chicago Press, Chicago, 2010) un bel libro su un decennio di guerra veicolata dalle immagini dall’11 settembre in poi, ricorda il grande terrore globale di inizio secolo a seguito dell’attentato alle torri gemelle. Terrore diffuso, vista la dimensione globale dell’11 settembre, proprio grazie al diluvio e alla proliferazione istantantanea delle immagini dell’attentato. L’effetto è uno sgomento globale di fronte al continuo, immediato, planetario corto circuito tra farsi realtà dell’immagine, che sia delle torri gemelle o di Abu Grahib, e farsi immagine della realtà. Lo sgomento non arriva per la realtà sola o le sole immagini. Le immagini terrorizzano il mondo perché riproducono il terrore reale e il terrore reale si fa mondo grazie alla riproduzione delle immagini che amplificano l’evento.
Uno degli effetti di questo continuo corto circuito tra farsi immagine della realtà e farsi realtà dell’immagine, tipico del dopo 11 settembre secondo Mitchell, è il ritrarsi della vita privata della parte maggioritaria della società occidentale nella paura degli eventi. Di fronte, dice Mitchell, a questo genere di terrore il messaggio che passa collettivamente nella realtà e nei media delle democrazie contemporanee è: “non fare niente, vai a fare shopping e affidati alle autorità costituite”. Affidandosi a percorsi protetti, come per i check-in degli aeroporti, o agli esperti che “rassicurano” sul fatto che le tempeste belliche e quelle finanziarie in corso saranno comunque risolte. Perché uno dei risvolti dell’attuale guerra globale dei trent’anni, di cui fa parte l’11 settembre, è che la popolazione occidentale assiste attonita, annichilita dallo spettacolo del terrore che si fa realtà tramite complesse e veloci rappresentazioni iconiche dei fenomeni. E se la popolazione rimane attonita, rifugiandosi nello shopping o nella contemplazione dello spettacolo della guerra, allo stesso tempo l’asse globale del mediattivismo diffuso , quello in grado di mobilitare anche le masse apparentemente silenziose si sposta dalla parte della guerra santa: ecco un apple store alternativo dove si spiega come sbloccare iphone e ipod. https://twitter.com/shamalmalahem/status/502679523997937665/photo/1
Tutto collegato a canali Youtube che diffondono promo di Isis: la digitalizzazione, come per la diffusione della stampa a caratteri mobili a suo tempo, se nasce ad occidente si diffonde ovunque. E nella attuale globalizzazione permette una contaminazione di contenuti e pratiche, tra aree del pianeta, impensabile anche pochissimi lustri fa.
Non a caso quindi Islamic radicalism and global Jihad (a cura di Springer-Regens-Edger, Georgetown University Press, Washington 2009) che ha studiato Isis quando si chiamava Isi ed e copriva alcune zone sunnite dell’Iraq, apre con una citazione di T.E.Lawrence sulla pericolosità delle immagini da sogno: quella della jihad che si realizza nel corto circuito tra attentati, riprese televisive e promo di youtube. Nell’immagine che si fa realtà mentre la realtà si fa immagine. Islamic radicalism and global Jihad parla quindi di jihad come di una strategia dell’attenzione che “massimizza l’audience globale” su più piattaforme mediali. Isis non è quindi il primo fenomeno politico ad avere come obiettivo reale la massimizzazione dell’audience. E, anche qui, nella jihad non si pensa in un mondo per aree, balcanizzato: non esiste la partizione tra audience occidentale e orientale ma solo quella globale, unificata, planetaria. È un piano al quale anche oggi arrivare, raggiungendo il massimo di effetto, perché stavolta lo show globale ha una grossa novità: non promuove un gruppo della jihad, l’ennesimo sul mercato, ma la nascita di uno stato islamico. Nuovo e arcaico assieme. Ma soprattutto globale.
Stiamo quindi parlando di una audience globale nella quale si teorizza, da parte dei sostenitori della guerra santa, dell’implementazione di una permanente resistenza islamica planetaria, come si capisce da testi come The Global Islamic Resistance Call di Abu Mus’ab As-Suri, scritta dopo la sconfitta del GIA algerino. La integrazione di “global” e di “islamic” pone come irreversibile l’appartenenza della jihad alla cultura mediale planetaria.
Capire l’uso potente dell’immagine in questo genere di cultura globale, quella legata alla jihad, aiuta, oltretutto, a tornare sulla recezione occidentale dell’uso dell’immagine nel mondo islamico. Nell’edizione commemorativa della raccolta di Titus Burckhardt Art of Islam: Language and Meaning (World Wisdom Inc., 2009, Bloomington, Indiana) si esplicita chiaramente la tesi che la recezione occidentale dell’arte islamica percepisce l’immagine come prodotto esclusivamente decorativo a causa della nota iconoclastia presente nel corano. Al contrario, seguendo Titus Burckhardt, la proibizione della rappresentazione figurativa ed umana nell’Islam non si applica proprio a quelle immagini viventi solo apparentemente eseguite a scopo decorativo. Si tratta infatti di immagini che in realtà sono in grado di introdurre, di per sé, non solo ad una dimensione mistica ma anche di legarla a quella di un mondo complesso, conflittuale e vivente. Mondo che è, secondo una logica religiosa, una decorazione della divinità ma che esprime, proprio in quanto tale, tutta la potenza espressiva della complessità mondana dispiegata. Non c’è quindi da stupirsi se l’uso reiterato dell’immagine vivente e del montaggio da parte di Isis, e anche delle didascalie e dei simboli in arabo o di quelli presi dai nostri caratteri alfabetici, parli un linguaggio globale che assorbe quello di Hollywood. L’assunzione della universalità del linguaggio delle immagini, in una cultura che respinge la raffigurazione di dio, avviene perché queste immagini sono concepite come una decorazione complessa, sottomessa, assieme al mondo qui rappresentato, al senso del divino. Ecco quindi perché globale e islamico, ad esempio, si tengono benissimo in una cultura che si rivela, in questo modo, iconoclasta nella rappresentazione di dio ma iconica nella comunicazione nel mondo. Comunicazione che riproduce immagini che si fanno terrore vero nel momento in cui replicano incessantemente eventi come l’attentato alle torri gemelle.
E qui si entra, con naturalezza, su un piano dell’evoluzione delle tecnologie di rappresentazione e produzione dell’immagine del mondo, che ovviamente non riguarda solo il medio-oriente ma che oggi, tanto più, investe la global culture. Piano che ha radici antropologiche profonde e non certo solo medio-orientali, rintracciabili nel tema, che oggi riemerge con forza, delle immagini viventi. Con forte differenza rispetto al grande lascito deleuziano, dove l’immagine movimento del cinema è, prima di tutto, raffigurazione dinamica dei processi cognitivi di rappresentazione e percezione. Qui, nell’immagine vivente della cultura islamica, la percezione è immediatamente correlata al primato cognitivo della relazione mistica, sociale e politica tra corpo collettivo e realtà. Ma, e gli storiografi dell’arte lo sanno benissimo, questo primato non è solo presente nella cultura islamica. Dal punto di vista delle fonti documentarie di varie epoche, dall’antichità pagana all’età cristiana medievale e moderna, è infatti disponibile uno sterminato materiale per analizzare il fenomeno antropologico dell’immagine percepita come presenza “viva”, capace di muoversi, parlare, interagire con gli uomini dando loro valori, senso e direzione esistenziale. Una immagine vivente, costruita dal bagaglio delle tecniche della rappresentazione del passato, che nella cultura occidentale come in quella orientale accompagna e governa la vita degli uomini. Vista con gli occhi dell’oggi è la realizzazione del sogno di ogni format mediale, naturamente. Solo che il tutto fa già parte del bagaglio storiografico che precede stessa la cultura globale. La realizzazione quindi di un genere di immagini viventi che governa, percettivamente ed esistenzialmente, l’individuo nel suo rapportarsi con il terrore, il misticismo, la relazione sociale e politica. Tra l’uomo immagine vivente nella cultura cristiana (si veda, dalla letteratura cattolica militante, L’uomo immagine somigliante di dio di Gautier Iamman-Giannarelli, Figlie di San Paolo, Milano, 1991) e l’immagine vivente delle culture islamiche come recepito in Titus Burckhardt, la differenze nell’elaborazione dei simbolismi e delle immagini viventi, una volta messo tra parentesi il problema dell’iconoclastia, tendono poi a ridursi a favore della possibile influenza degli stili.
L’immagine vivente, nella letteratura religiosa cristiana, rafforza poi il rapporto tra dimensione del cognitivo, fedele, popolazione e rito devozionale mentre, allo stesso tempo, genera, le tecniche del governo dell’iconoclastia. Tecniche che riguardano direttamente il governo dei viventi: tramite la distruzione o la regolazione della circolazione delle immagini si infatti governano i rapporti sociali che quindi sono immediatamente politici toccando la popolazione, il suo modo di percepire il mondo. Si comprende quindi come l’Islam politico di Isis, e non solo, guardi, senza pregiudizi, alla produzione di globale di immagini viventi, oggi su multipiattaforma, di origine culturale cristiana oggi secolarizzata. Come ieri gli stili di produzione dell’immagine vivente finivano per contaminarsi, e senza la globalizzazione istantea degli artefatti culturali, oggi c’è un deposito sterminato di immagini secolarizzate da saccheggiare per comunicare globalmente. Basta guardare a tutto questo come strumento da rielaborare per governare l’individuo in modo religioso e direttamente politico, devozionale e militante assieme. Strumento cognitivo per l’individuo, e per la popolazione, e anche elemento per un suo governo della dimensione esistenziale. E si comprende anche perché Isis possa trovare, dalle culture di origine occidentale e cristiana, che hanno prodotto il mondo mediale moderno, un deposito di stili, di idealtipi, di figure di immagini viventi che, una volta rielaborate, alimentano le sue strategie di comunicazione. Immagine vivente cristiana e islamica hanno infatti due differenti modalità di messa tra parentesi della stessa questione: l’iconoclastia. Le due culture possono quindi parlarsi, e contaminarsi, proprio grazie a questa originaria capacità di messa a parentesi. Si capisce quindi che, ai giorni nostri, ce le ritroviamo sinergiche a pieno regime in quel rapporto di connessione tra immagine vivente, individui, popolazione. Rapporto che appare così non elemento costituente non dell’islam radicale, o delle culture cristiane, ma della cultura globale. Naturalmente nella globalizzazione originaria del diciannovesimo secolo, le immagini viventi, grazie allo sviluppo delle tecniche di poesia del primo ottocento, si diffondono tramite lo strumento geopolitico per eccellenza della prima globalizzazione, l’Inghilterra e grazie al medium globale della poesia (e qui si noti un interessante Romantic Presences: Living Images from the Age of Wordsworth and Shelley di Jeffrey Robinson del 1998). Ma oggi sono tra noi, immagini viventi globalizzate, recepite sulle multipiattaforme mediali nell’effetto terrore del radicalismo politico selvaggio dell’Isis e nei tg secolarizzati di qualsiasi broadcasting network occidentale. Origine cristiana e islamica dell’immagine vivente nel mondo globale hanno finito per fare sinergia. Persino, una volta che si fa una seria genealogia dell’immagine, nell’intimo della trama narrativa di un videogioco.
Dal cortocircuito tra immagini e realtà, alle teorie della jihad globale, all’immagine vivente come terreno di meticciato comune tra culture cristiane ed islamichesi delinea una antropologia politica. Un tessuto profondo di relazioni politiche, in grado di superare la contingenza sociale, tenuto assieme da una simbolica e da una genealogia delle immagini oggi fortemente performativa nei dispositivi mediali. Simbolica e dispositivi che hanno iscritta dentro di sé una gerarchia sociale e di valore.
Veniamo così ad un importante testo che ha ormai mezzo secolo (AAVV, Political Anthropology, Aldine, Chicago, 1966 che altro non è che la pubblicazione di atti di uno storico convegno della American Anthropology Association del 1964 ). Qui, nonostante gli stessi curatori si siano spaventati ad usare il concetto di antropologia politica, troppo vasto e pieno di conseguenze teoriche da dover governare, si definiscono comunque quattro importanti dimensioni concettuali del politico. Dimensioni ricorrenti sia nei fondamentali della antropologia politica che nella costituzione delle società come nella loro evoluzione, elementi ineliminabili per il presente e non evitabili nel futuro. Si tratta degli argomenti affrontati nelle specifiche sezioni del testo e dello storico convegno della American Anthropology Association: dimensioni del conflitto nell’azione politica, dei codici di funzionamento delle autorità, del rapporto tra politica e rituale, definizione del campo del politico e dei suoi confini. L’irruzione, in questo testo della manchesterian school di Victor Turner fissava così, in questo contesto teorico, elementi di costruzione dell’oggetto “antropologia politica” validi anche per l’oggi. Ad esempio di come la dimensione mistica, presente nel politico, sia il completamento e la saldatura tra società misticizzata e una, ben poco mistica, vasta rete di interessi. E come entrambe evolvano continuamente. Anzi di come l’evoluzione, o la rinascita, del misticismo nelle società sia da leggersi in rapporto alla dinamica della mutazione degli interessi materiali.
Prima di fenomeni come Isis o i vari tentativi di Jihad globale, ovvero i primi anni ’90, il tema del misticismo in politica sembrava davvero destinato a essere storicizzato o, al massimo, ad essere localizzato in territori in via d’estinzione antropologica o politicamente irrilevanti. La forte, terrorizzante e violenta simbolica dell’immagine vivente, e mediale, del politico di fenomemi come Isis, che rimanda all’idea di sacrificio umano non solo per terrorizzare l’avversario ma anche per celebrare misticismo e divinità, attualizza la rilettura di queste quattro dimensioni del politico. Per cui in Isis la dimensione del conflitto si articola tra misticismo e interesse materiale, saldata nell’immagine vivente del sacrificio umano, là dove il richiamo (anche ferocemente) mistico delle immagini veicolate non serve solo per terrorizzare il nemico. Ma anche come propaganda, per promuovere la componente altruistica, di massa e gratuita della mobilitazione mistico-religiosa collegata agli interessi materiali dell’organizzazione; in questo modo i codici di funzionamento delle autorità sono forti, rafforzati dall’accumulo spettacolare e materiale di violenza, giustificata politicamente e religiosamente; il rapporto tra politica e rituale è caldo, continuo, di massa e liminale (rompendo violentemente ogni distanza tra soggetti, secondo la lettura di Turner, portandosi qui sul piano di ebbrezza e legittimazione mistica); il campo del politico è definito e governa corpi, anime, amministrazione secondo i limiti fissati dal corano e dai linguaggi della comunicazione globale. Siamo all’applicazione, in forma islamico-spettacolare dei quattro campi antropologici del politico isolati dallo storico convegno del 1964: dimensioni del conflitto nell’azione politica, dei codici di funzionamento delle autorità, del rapporto tra politica e rituale, definizione del campo del politico e dei suoi confini. E questi campi valgono anche per l’occidente quando si immette nella cultura globale?
Non che manchi, oggi, la mistica in occidente. Nella cultura globale di origine occidentale questa mistica è immagine, immagine vivente infinitamente riprodotta, depurata però di riferimenti direttamente religiosi il che ne fa immagine solo vagamente metafisica. Come la merce nel capitale di Marx, del resto l’immagine è anche merce: un qualcosa con addosso quel residuo di epoche lontane come, ad esempio, è il feticismo. Mentre in Isis religione, immagine, metafisica, ferocia e politico, feticismo ed esibizione della morte si tengono, tutte assieme, immediatamente. Politico in Isis è fusione di tutte le componenti biopolitiche e metafisiche per la conquista violenta del potere, la sua redistribuzione, assieme a quella delle risorse e dello status. Poi c’è una piena corrispondenza sul piano dell’antropologia politica, tra Isis e occidente, entro le quattro categorie prese in esame. Prendiamo la cultura della governance democratica, quel misto di istituzioni elette e organismi determinati da stakeholder che definisce la governabilità globale di origine occidentale. Ha una dimensione del conflitto, regolata da una zona grigia che sta tra la scivolosa dimensione del diritto internazionale e il deciso uso della forza; dei codici di funzionamento delle autorità, definiti dal piano mobile dei rappori tra democrazie elettive ed istituzioni delle governance multilivello; un rapporto tra politica e rituale, scandito dai ritmi della comunicazione globale dei media ufficiali; dei limiti del politico dettati non dal corano ma dalla governance finanziaria ufficiale e da quella dei mercati over-the-counter.
Dove quindi è lo scontro tra civiltà quando i tratti fondamentali antropologici del politico tendono a somigliarsi? Non solo: in questi fondamentali antropologici si recupera lo stretto, produttivo e ineliminabile rapporto, produzione delle immagini e dimensione del politico che il francofortismo e il trontismo, specie nella loro versione di malattie della teoria politica, hanno negato persino come esistenti. Oggi però non dovrebbe essere difficile capire, rileggendo genealogicamente il pensiero politico che tra Giovan Battista Alberti, che nel De Pictura fissa una rappresentazione originaria della prospettiva pittorica che evolve sino a noi in immagine vivente 3D, e Il Principe di Machiavelli non solo c’è quel tratto di continuità che si chiama Firenze ma anche uno, più profondo, che si chiama antropologia politica. L’immagine che, depurata delle dimensione religiosa è presente in occidente e circola istantaneamente nel pianeta non è quindi solo estetica. Il significato del taglio della testa è quindi lo spartiacque tra l’immagine politica occidentale e quella Isis. Ma è uno spartiacque che si gioca all’interno della cultura della comunicazione politica globale (anche nel senso che la riproduzione di queste immagini circola tra i due campi originari di oriente e occidente) e di un comune sostrato di saperi che forma un solido terreno antropologico politico. Sostrato su cui si gioca poi il piano di conflittualità presente tra pretese di costituzione dello stato islamico e tentativo di esercizio della propria concezione di legittimità da parte della governance internazionale.
In Deleuzian Intersections (a cura di Jensen e Rodje, Berghahn, New York, 2009) la decapitazione sui social network e in tv “pone i limiti della rappresentazione mediale”, non solo etici o legati alla sensibilità personale a anche quelli legati al rapporto tra percezione ed evoluzione delle tecnologie della rappresentazione. Ma una volta metabolizzata la decapitazione non è solo problema di codec in grado di iper-rappresentarla, come in Deleuzian Intersections, ma, come dicono gli autori del testo, anche di un evento che scatena linee di fuga di immagini, adrenalina, effetti politici e concetti in movimento. In un caso, quello di Isis, la decapitazione produce un misticismo mortifero del politico che promuove mobilitazione e reti di potere. Nell’altro quello della complessa governance militare internazionale, e dei sensibili dispositivi mediali internazionale, la decapitazione mediatizzata genera una reazione immediata alle immagini prodotte che va dall’opinione pubblica, ai social network impazziti di paura ai briefing degli analisti militari. Anche i video che parlando di falso Foley, non senza argomenti, non mettono però in discussione la comune provenienza, quella legata alla cultura globale, delle immagini dal califfato.
Eppure l’arena globale è la stessa, con le medesime immagini che circolano da una barricata all’altra da un nodo della rete all’altro, e le categorie fondamentali del politico scattano lo stesso: le dimensioni del conflitto nell’azione politica (globali per il campo anti isis e per quello Isis); i codici di funzionamento della autorità (in ultima istanza pastorali per entrambi: con leader in giacca e cravatta per un campo e con guide in abiti religiosi da un altro); il rapporto tra politica e rituale (con l’immagine mediale, strategia per entrambi anche in differente regime epistemologico di immagine vivente); definizione del campo politico e dei suoi confini (campo globale per entrambi, confini legati dalle leggi del mercato nero e da quelle della geopolitica non ufficiale in Isis, dal diritto internazione e dalle leggi della geopolitica ufficiale dall’altro). La stessa versione “light”, almeno rispetto ad altri clip presenti in rete, della decapitazione di un soldato kurdo è fatta, nelle intenzioni, per essere distribuita in tutte le tipologie di pubblico che registrano l’evento, tenendole assieme con il violento gesto originario dell’esecuzione della pena capitale.
Non si tratta quindi di una guerra tra mondi reciprocamente alieni. Sostenere il contrario è negare l’esistenza stessa della cultura globale. A volte lo sostengono le stesse testate, o gli stessi autori, che hanno eletto a Leviatano i mercati globali. Ma se il capitale è globale esistono anche le culture globali. Come Marx ci ricorda dal 1844.
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Fonti di Isis. Commento
Se facciamo analisi del materiale iconografico prodotto da Isis, o su Isis, ci sono alcuni apetti che balzano subito agli occhi. Molti, di quelli importanti, non sono colti dalla ricezione spettacolare, immediata delle immagini prodotte dallo stato islamico. Come nei Saluti dal califfato (Eid Greetings From The Land of Khilafa) un promo di propaganda del media center pro Isis Alhayad ,dove non solo non scorre una goccia di sangue ma, nei titoli di coda si recita un Wish you were here. Come se chi è andato ad abitare nel califfato fosse un felice privilegiato bianco che manda cartoline o ascolta i Pink Floyd. Saluti dal califfato è una testimonianza molto importante da Isis, ne recita i lineamenti dell’incrocio che costruice tra propaganda e pedagogia, di come devono crescere i ragazzi nel califfato. E di come, nei giardini tra ragazzi e ralenti che fanno tanto ricordo da mettere in memoria, i guerriglieri provenienti da tutto il mondo recitano il racconto della loro serena, felice adesione al nuovo stato. Adesione non più religiosa ma, nel filmato, delicatamente e seranamente biopolitica. Si tratta della fissazione dello strato di vita quotidiana a venire che sta sopra, nelle intenzioni del filmato, ai quattro pilastri antropologico politici costruiti dall’atto di violenza di Isis: dimensioni del conflitto, codici di funzionamento dell’autorità, rituale politico, confini del politico. Solo che, una volta istituiti, almeno simbolicamente, i confini del politico, e quindi del califfato, è possibile rappresentare una certa, inaspettata delicatezza regolativa della vita quotidiana. Ecco quindi le cartoline dal califfato con una grafica ben attenta al significato globale delle proprie composizioni semantiche: “vorrei foste tutti qui, non si riesce a descrivere, per vedere come vivono assieme i fratelli e le sorelle che sono venuti da tutto il pianeta”, recita un intervistato nel video. Scompare persino, nel filmato, la durezza della sharia per far posto alla libertà nell’interazione tra “fratelli”. È l’altro grande filone di propaganda Isis: nel primo, quello conosciuto tramite i tg, si vedono esecuzioni, la durezza della legge islamica, nel secondo, che circola in rete e lì ha altrettanti follower dell’altro, si vedono la felicità e la leggerezza, della vita comunitaria islamica. Non importa quanto ci sia regia in tutto questo e quanto sia invece convinzione. Importano i codici simbolici, che si fanno immagine vivente e che veicolano. Che funzionano e attraggono consenso da tutto il mondo. Come per Assad Uzzam, oggi ricercato dalle polizie di tutto il mondo, conosciuto prima dell’arruolamento in Isis per essere un grande fan di Michael Jackson e della Kop del Liverpool. E capita quindi che a promo come Saluti dal califfato, che invitano a popolare lo stato islamico, si risponda con i mujatweets, i tweet dei guerriglieri islamici che contengono brevi interviste di chi, felice ha raggiunto il califfato. Come questo dove con una fotografia allegra ma discreta allo stesso tempo, e una grafica da filmati professionali del Financial Times si raccoglie la testimonianza di chi è accorso dalla Francia per vivere contento nello stato liberato. L’intelligenza della regia dei media center di Isis sta nell’aver colto, probabilmente senza saperlo, una grande lezione presente nella propaganda di Leni Riefenstahl specie nel Trionfo della Volontà. Quanto più il messaggio politico è ideologico, rigido, feroce e diretto tanto più la fotografia e l’estetica devono farsi veloci, fluide, viventi e vivaci. In questo modo il messaggio rozzo e diretto prende forma e vita. Come accade in questo mujatweet dove un guerrigliero Isis tedesco, dai tratti caucasici e dall’accento non certo da immigrato in Germania, reca visita una un commilitone ferito https://www.youtube.com/watch?v=UlETCsosM7U. “Eravamo oppressi” si recita nella parte finale di Saluti dal califfato: il deturnamento islamico del successo delle rivoluzioni, e della lotta di classe, è servito sul tavolo. La sharia non opprime qui, al contrario, libera dall’oppressione. Accade quindi quindi che questo dispositivo antropologico-politico, tenuto assieme da una ottima performatività delle tecnologie della comunicazione (oltre che da una seria e spietata organizzazione militare), sia definito da Jason Burke del Guardian come “profondamente moderno”: Burke sostiene che Isis, con il suo tentativo non tanto di fare guerriglia ma di costruire uno stato islamico, è moderna perché permette ad una ideologia neotradizionale di entrare a contatto con l’expertise tecnologico e amministrativo. Se Isis guarda a expertise moderni di fatto lo sguardo mediale è già maturo vengono a mente le molte sigle mediali, in una strategia da marketing virale avanzato, che usa Isis come SHAMALMALAHEM MEDIA e tantissime altre. La stessa analisi dei social media usati da Isis è fatta con categorie occidentali che si adattano benissimo al contesto. Isis, secondo questo articolo di Matteo Flora, è un produttore di “corporate event” che alimenta “influencer”, e lo scrive con la sodddisfazione di chi usa gli strumenti del marketing che si adattano benissimo a capire i fenomeni di intelligence. Non proprio un gap cognitivo tra mondi, insomma. È vero che il marketing non è l’antropologia in Clastres, dove c’è sempre un gap cognitivo tra mondi felicemente ineliminabile, ma quest’assenza di disagio nell’analisi dei network comunicativi di Isis aiuta capire che c’è quel facile riconoscimento tra fenomeni che è tipico di una cultura globale che riconosce sé stessa. Di fatto Isis è poi atteso dalla controparte come se fosse una casa di videogiochi che ha azzeccato il marketing virale della proprie release: “New ISIS battle video released”, dichiarano con enfasi i telegiornali americani e parlano il linguaggio di clip di riviste online dedicate alle novità dei videogiochi. Le polarità della cultura globale sono infatti sinergiche. E spuntano i lavori della cultura popolare di oggi, quella fatta con mixaggi video e photoshop come la rilettura di Kraftwerk The Model in versione 2014 Islamic State Iraq Syria Remix. Il sistema della moda passa così da Barthes alla guerra santa. Certo, ci sono articoli, come sull’Independent, che invitano a non farsi prendere dal panico, come audience globale. Ma è possibile non ascoltare, non stare attenti a voci, come in Saluti dal califfato, che letteralmente dello stato islamico dicono “hey, a big party is going on”, come afferma un sudafricano in riferimento alla vita nello stato islamico, e che c’è molta felicità?
Sembra che si parli della festa che spacca, qui c’è qualcosa di condiviso, di linguaggio comune per tutti. Come nelle convention aziendali della Silicon Valley o nei party dopo il lancio di nuovi algoritmi per il mercato dei derivati. Sono fenomeni simili a quelli dei decapitatori inglesi di Isis che vengono chiamati The Beatles dai loro commilitoni e che il Sun, usando la grafica dei dischi dei Beatles, li definisce The Brutals: c’è un immediato intreccio reciproco, di contenuti, di grafica, di simboliche che non fa certo pensare a culture tanto diverse. Perché così differenti non lo sono. Come non lo sono nella pratica del chiliasmo, lo stato di ebbrezza culturale che anima i movimenti sociali del ‘900, espressa dai movimenti in Ideologia e Utopia di Karl Mannheim. Mentre in Mannheim alla radice dei movimenti politici radicali vi è una insoddisfazione verso il presente, originata dal desiderio di vivere l’ebbrezza nel mondo di provenienza religiosa, qui il chiliasmo è presente come esplicitamente religioso e sfocia in un movimento direttamente politico. La definizione di chiliasmo per Isis torna in molti testi, è di origine cristiana, e viene espressa in video come questo proprio come desiderio di leggerezza del mondo. Solo che non esprime una genealogia religiosa del politico ma una tensione presente sia religiosa che politica.
In un documentario prezioso, come quelli di Vice News, la prima vera intervista non Isis entro lo stato islamico si trovano scene da filmati no border, dove si festeggia o si saluta l’abbattimento del confine coloniale, voluto a suo tempo da Francia e Inghilterra, tra Siria e Iraq. Un abbattimento dei confini entro un nuovo soggetto politico chiuso, ma l’effetto liberazione dalle dogane, di fine del colonialismo nel documentario è chiarissimo. Si parla di libertà di circolazione. Si assumuno così, straniandole, tutte le parole d’ordine dei movimenti no border dell’ultimo ventennio. Entro i confini dello stato islamico, s’intende.
Certo, vi è la negazione del politeismo nella cultura globale nella prima apparizione di Al Baghdadi, qui registrata ma, come si nega, si entra subito in profonda contraddizione con il politeismo espressivo presente in ogni prodotto della fabbrica culturale di Isis. Senza l’insegnamento degli apostati di Hollywood Al Baghdadi sarebbe uno sconosciuto signore nel deserto animato di bellicose intenzioni. E anche qui il paragone, emerso nel dibattito mainstream tedesco, tra Isis e Pol Pot non rende l’idea. Nel filmato di Vice News, oltre allo smartphone per i ragazzi, i guerriglieri della guerra santa rilasciano interviste con i Ray-Ban. Nell’esercito di liberazione della Kampuchea, quello di Pol-Pot, vera negazione di ogni elemento occidentale, tutto questo sarebbe stato impensabile. Politeismo e multiculturalismo sono invece qui in sottofondo come elemento apparentemente decorativo ma invece conflittualmente metabolizzato. Ed Husain, autoproclamatosi ex militante radicale islamico ed oggi consigliere strategico di Tony Blair, afferma che gli europei che finiscono in Isis non sono altro che disadattati. Ma quando siamo di fronte a qualcuno che, distaccandosi dall’Europa, continua a parlare il linguaggio continentale e globale è chiaro che siamo di fronte ad un fenomeno più controverso e complesso.
Ma da dove arrivano i fondi per Isis, il primo esperimento che deve mettere assieme tecnologie, amministrazione e logistica contemporanee per il farsi stato del radicalismo islamico? Secondo il canale televisivo tedesco Ard, il capitale di partenza arriva da fondazioni religiose, qualcosa di simile dice il blog Sharia finance watch.
Il problema sta nel fatto che, nonostante lo sforzo di comprensione di alcuni analisti, la questione della rete di finanziamento originaria di Isis, delle coperture bancarie e della finanza è, come al solito, al massimo dell’opacità. Si può ben dichiarare, come ha fatto Obama, che Isis è un tumore da estirpare ma ci si bada bene da entrare nel problema della dinamica finanziaria di questa metastasi. Guerra sul campo e guerra finanziaria, oggi, difficilmente sono simmetriche. Anche perché la presenza dei fondi sovrani dei paesi del Golfo in importanti investimenti Usa, compreso l’acquisto di debito pubblico americano, consiglia di non rendere particolamente simmetrica, in questo caso, guerra finanziaria e guerra sul campo. Perché finanziare Isis non significa per forza volere lo scontro mortale sul terreno o perché combattere non significa necessariamente alimentare la guerra finanziaria. Quando i flussi finanziari che alimentano le guerre, o si alimentano a loro volta, fanno parte di reti –dove si intrecciano fondi sovrani, hedge fund, shadow banking e, magari, banche molto conosciute e molto discrete- che formano capitali ben più grandi del Pil annuale di un continente, l’idea che una guerra regionale possa scatenare un processo distruttivo a livelli finanziari di queste dimensioni appare quanto meno bizzarra. Oggi solo il movimento autonomo dei capitali ha il potere di distruggere le ricchezze finanziarie, il resto è epifenomeno. Anche lo speciale della Handelsblatt, dedicato all’economia Isis non fa che confermare queste impressioni: anche se il Qatar ha respinto sdegnosamente le accuse di finanziare lo stato islamico, provenienti proprio dalla Germania, il quotidiano economico tedesco, direttamente e indirettamente (anzi, con intelligente leggerezza), lancia un’ipotesi da mettere seriamente ad analisi. All’interno di una vera e propria guerra fredda tra sciiti e sunniti, le imprese e fondi che fanno capo a quest’ultimo mondo in qualche modo hanno favorito lo stato islamico radicale sunnita. Emergono, senza chiamarli direttamente in causa, di nomi di Saudi Aramco, un top player nell’estrazione del petrolo di proprietà saudita, Kingdom Holding, il più importante partner privato qatariota dei fondi sovrani dell’area, e le compagnie aree del golfo (Etihad, Emirates). Come emerge che si tratta di soggetti che, con la loro forza economica e finanziaria, sostengono significativametne il Dax di Francoforte e aziende come Siemens. I confini dello stato istituito da Isis sono questi: stare in una zona di conflitto tra interessi diversi, far parte dei flussi finanziari globali, non entrare in quella zona franosa che mette in difficoltà gli interessi dei grandi finanziatori. Siccome i grandi finanziatori sembrano essere di natura non dissimile perlomeno rispetto chi finanzia a Usa e Germania, la partita è complessa. Sbaglia chi pensa ad un grande burattinaio finanziario di tutti questi processi, chi entra invece nella complessa dissimetria tra guerra sul campo e guerra finanziaria riesce a concettualizzare quello che sta accadendo.
Eppure nell’interessante, e informato, 9 miti su Isis si spiega chiaramente che a) Isis non è battibile con uno schiocco di dita o con un semplice atto di volontà da parte delle maggiori potenze b) Isis è battibile ma con un lavoro lungo, articolato e complesso sia sul terreno che sul piano militare, tecnologico e finanziario. Basti ricordare, come afferma la nota dei 9 miti su Isis, che l’entità dei fondi a disposizione dello stato islamico è impressionante se lo si considera come organizzazione terroristica ma insufficiente se lo si vede dal punto di vista di uno stato che deve provvedere al futuro proprio o della popolazione.
Antropologicamente parlando, la moneta non è, prima di tutto, un mezzo di transazione o un’unità di calcolo. Niente, nel mondo numerico, è solo calcolo ma la moneta è, a maggior ragione, qualcosa d’altro. È il fenomeno, in ultima istanza, di regolazione dei rapporti sociali. Quando tutti i rapporti sociali, politici, giuridici saltano resta infatti il potere regolatore della moneta. Nel momento in cui Isis si lega, a modo suo, con i circuiti della finanza globale questo potere regolatore, specie quello tipico della moneta merce, rimane. La guerra e Allah si fanno da parte quando i confini dello stato islamico sono delimitati dalla circolazione dei flussi finanziari. Quindi lo stato islamico non fa parte solo della cultura globale ma della anche finanza globale. Possiamo ancora dire che Isis è un anacronismo, un fossile della storia tornato reale come in Jurassik Park? Da una parte la presenza trascendentale, metafisica, ubiqua di Allah nella vita quotidiana dello stato islamico, dall’altra quella della moneta globale. Né più né meno il codice genetico di Isis è questo, al netto della spettacolarità decapitazioni.
Quindi, se si legge che la struttura di comando di Isis non è chiara la questione non riguarda solo la capacità dell’intelligence di capire chi comanda davvero nello stato islamico. Ma anche la difficoltà sistemica di strutturare uno stato che sappia tenere il radicamento di Allah e la finanza deterritorializzata, che sappia importare popolazione e mantenersi comunintario, che stia, allo stesso tempo, entro e ai limiti dei confini del mondo globale. I naturali conflitti che stanno all’interno di ogni catena di comando ce la rendono sempre già un fenomeno difficile da leggere. Con questa sovrapposizione di complessità la struttura di comando di Isis non può che essere mutevole e sotto stress: militare, religioso, globale, locale, tecnologico, amministrativo, spettacolare. Molti sono i piani che vanno regolati per poter funzionare conflitti interni e difficoltà di funzionamento dell’organizzazione sono fenomeni tutti dietro l’angolo. Sicuramente si tratta di piani molto più articolati e complessi di quelli intravisti dall’immancabile cospirazionismo che vede tutto, come sempre, come semplice emazione di Usa e Israele. Del resto lo ha detto la stessa Hillary Clinton: “Isis ci è sfuggita di mano”. Tutto sfugge di mano nel mondo globalizzato, da un algoritmo che fa saltare un hedge fund a un gruppo della guerra santa, niente funziona come ai tempi della polizia politica dello zar e persino la NSA, che secondo il Washington Post controlla metà dei dati di comunicazione tra Siria e Iraq, deve fare i conti col problema di localizzare la catena di comando Isis. Eppure il cospirazionismo, persino in un’epoca dove fonti fino a pochi anni fa inarrivabili possono essere consultate in pochi secondi, non arretra nelle sue modalità di spiegazione dei fenomeni, figuriamoci su Isis. Anzi, tanto più la teoria della cospirazione è vecchia quanto la politica che si affaccia nell’Europa del diciassettesimo secolo (si veda Conspiracies and Conspiracy Theory in Early Modern Europe a cura di Coward e Swann edizioni Ahsgate, Aldershot, 2004 con l’immacabile parte su cospirazionismo e rivoluzione francese) tanto più la si ritrova in vesti rinnovate in piena cultura globale.
Ma più che la provenienza dei fondi, o le immancabili teorie della cospirazione, i media occidentali sembrano preoccupati di formazione Isis fatta al computer e in tutta Europa. Una sorta di pedagogia autoformata che si nutre di attimi del del martirio e della gioventu’ come questo.
Ed è naturale perché in tutto il mondo Isis è la Spagna ’36 del radicalismo islamico e del suo nuovo linguaggio globale. Non stupisce così che, secondo questo sondaggio, un francese su sei supporti Isis. Del resto l’Europa è, da decenni, un continente dove la presenza musulmana è di massa. Permeando magari consenso oltre questa presenza e non solo attraverso il politicamente corretto ma tramite miriadi di interazioni quotidiane. Non stupisce nemmeno che la jihad leghi i propri clip sulla guerra santa ai cartoni animati su Maometto: l’autoformazione, la pedagogia islamica del sé o per famiglie passa non solo attraverso l’orrire animato ma anche il cartone animato. Oppure attraverso il merchandising, classica possibilità sia di raccolta fondi che di fidelizzazione, che dà la possibilità di acquistare tazze, cuscini e portachiavi Isis. Feticismo delle merci, degli oggetti e pulsione di morte si legano così spontaneamente, senza essere teorizzati. La decapitazione spettacolare serve anche da promo di una linea di oggettistica. Del resto morte, pubblico e spettacolo stanno in ogni storia delle esecuzioni, come governo dell’attenzione e della popolazione, l’opportunità di poter lanciare il proprio merchandising con lo spettacolo morboso della morte per Isis è praticamente unica.
E così quando un media center a supporto di Isis fa uscire il veloce e ferocissimo “Islamic State BRIGADE 93 Attack” si capisce che l’autoformazione lascia il passo all’uso di massa della twitter revolution, diffondere a sciame l’atto di forza dell’uccisione reale e dell’umiliazione simbolica dell’avversario, e poi a quella che possiamo chiamare whatsapp execution visto che l’impressionante capacità di moltiplicazione dei messaggi e delle immagini di questa app rende la simbolica dell’esecuzione un processo capillare ed efficace nel messaggio. La forza originaria, vero e proprio potere costituente di Isis, sta quindi nel rapporto stretto tra violenza e spettacolo. E nel ritorno a temi, già aperti in modo illuminante da Foucault, di spettacolarizzazione della pena (ripresa dallo smartphone e subito diffusa nel mondo). Qualcosa quindi di molto diverso dalla separazione tra pena e spettacolo avvenuta da tempo in occidente e che serve come spartiacque da Isis. Ma anche qualcosa di diverso dai testi di Paul Veyne, dove nell’antichità la forza non può essere che selezionata in specifiche arene per diventare spettacolo, e anche dalle democrazie complesse dove lo spettacolo diviene amplificazione della forza legale ma anche omissione dei suoi atti di ferocia. Qui ferocia, violenza, spettacolo, potere costituente e carismatico si tengono assieme ma non per costituire, come sostiene una edizione domenicale della Frankfurter Allgemeine, uno stato del terrore. Quanto per costruire lo stato, e la vita quotidiana che lo accompagna, attraverso il terrore, e la sua spettacolarizzazione. E non a caso , per spiegare Isis, è riemerso Eisenstadt con le sue teorie sul rapporto tra giacobinismo e islamismo radicale. Rapporto comunque problematico anche se bisogna tener conto che tra terrore giacobino, istuitito per preservare la rivoluzione dal ritorno della tradizione conservatorice e della monarchia, e terrore dell’Isis, istituito per favore ciò che si considera ritorno della tradizione assieme ad una monarchia assoluta, le differenze sono ineludibili e radicali. Da tener conto in caso di futuri improbabili paragoni di fenomeni storici ben conosciuti con Isis. Come quello, già citato, con Pol Pot o con Sendero Luminoso che negano, con molta più forza, il rapporto con la civilizzazione occidendale di quanto Isis, nonostante gli anatemi, ne pratichi l’integrazione. Immaginereste Pol Pot o il comandante Gonzalo che permettono un uso dello smartphone a Raqqa nello stesso modo che a Vancouver?
Nello stato non più atteso ma istituito fin da subito e come raccontano i giudici di Isis a Vice News nei neo tribunali cause civili istituiti dal califfato “si rendono alle persone il diritti usurpati dal regime [di Assad ndr]”. Eppure, nell’usare il concetto di diritto, il giudice di Isis nell’intervista toglie ogni dubbio in materia: “non ci leghiamo ad alcun genere di diritto internazionale ma solo all’esperienza della sharia”. Questo rapporto stretto tra rispetto dei diritti e rispetto della sharia è una critica impietosa allo svuotamento reale dei diritti contenuti in qualsiasi promessa politica e di istituzione del diritto universalistici e di origine occidentale, inutile negarlo. Altrimenti non si capisce Isis e la sua violenta linea di differenziazione con l’occidentale. Ma allo stesso tempo su Jihadology, che pubblica regolarmente la propaganda Isis per la guerra santa, si tiene aperto un dibattito sulle modalità di amministrazione dello stato islamico nelle zone conquistate http://jihadology.net/2014/08/27/guest-post-manbij-and-the-islamic-states-public-administration/ .A parte gli accenni alla convivialità tra “fratelli”, un dibattito simile si sarebbe potuto trovare dieci anni fa sul Guardian riguardo alle modalità di amministrazione sulle zone occupate dell’Iraq dagli occidentali. Quindi Isis non è solo violenza ma anche assorbimento. Infatti, profodamente globale è il feticismo degli stessi oggetti, tecnologici e alcuni anche d’abbigliamento, comunemente usati in occidente. Per cui se il politico e la concezione del diritto separano, il feticismo degli oggetti unisce tutti. In una cultura globale del feticismo degli oggetti: ecco quel misto Ray-ban, ostentati dai guerriglieri intervistati da Vice News e pedagogia islamica, quella naturalezza dello scattare tantissime foto come i turisti giapponesi, anche delle teste tagliate, o l’uso spontaneo delle magliette Nike alla proclamazione dello stato islamico. https://www.youtube.com/watch?v=AUjHb4C7b94
Il fenomeno del feticismo ha origine premoderna anche in occidente, aspetto ben rilevato in Marx, ma oggi unisce, come si vede, la cultura globale. E visto che siamo nell’epoca google, quella immersa nelle tecniche di marketing per farsi notare, il feticismo delle strategie dell’attenzione (su sé e sul proprio prodotto) si rivela così un nodo fondamentale della comunicazione Isis: le decapitazioni su youtube, su twitter sono un morboso, e richiesto, prodotto di punta della strategia dell’attenzione di Isis nella affollata infosfera globale. La morte, la sua esibizione come il suo controllo o il suo esorcismo, è sempre presente in qualsiasi feticcio. Chi taglia le teste, tanto più se ha strategie di marketing globale, o lo sa o lo percepisce. E scala le classifiche dell’attenzione fino ad arrivare alla vetta.
Poi c’è l’altro filone di propaganda Isis, ben diverso da quello delle uccisioni. Quello della rappresentazione del fluire della vita come quando Raqqah somiglia alla realizzazione del paradiso sulla terra, una comunità di pacifica convivenza islamica, a metà tra il riposo del guerriero e la concretizzazione dell’utopia, nonostante lo stretto controllo della vita quotidiana, anche personale che proibisce le immagini nei negozi e indirizza quelle su youtube.
Ma Isis si spiega con Debord oltre che con il corano: è una gigantesca accumulazione di spettacolo, fatta tagliando teste, terrorizzando e pompando di terrore adrenalinico sulle piattaforme di comunicazione di tutto il pianeta oppure pubblicizzando una sorta di felice Club Med permanente dell’islamismo globale in nome del quale accade tutto questo. Senza risparmiarsi l’ironia di un subvertising di ringraziamento alla Toyota, che costruisce i pick-up utilizzatissimi dall’Isis. Accumulazione di spettacolo inoltre a servizio di un potere che si vuole, o si vorrebbe, costituente. E questa accumulazione di spettacolo impressiona: in occidente si analizza “come Isis sta vicendo la guerra di comunicazione” o come funziona la rete di app e di social media di Isis che ha già incontrato non solo l’attenzione dei media anche degli studi strategici. O degli stessi media, come la Cnn, che studiano le tecniche che, a sua volta, Isis ha studiato da loro. Per finire studiata da chi lavora nell’ottima scuola di studi mediologici di Annemberg. Ma anche guardata con fastidio da progetti di comunicazione open source, decentralizzati, gratuiti, come Diaspora, che si trovano improvvisamente ad essere oggetto di interesse di Isis a causa della loro natura decentralizzata che non permette, né certo teorizza come policy, la rimozione dei materiali pubblicati Isis ripercorre così tutta la catena delle comunicazione mediale e delle reti di distribuzione di materiale comunicativo: televisione mainstream, film, videogiochi, social media e reti open source. Dal punto di vista dei contenuti tratta omicidi e terrore che sono sia una merce, ne sanno le grandi catene cinematografiche e televisive, che un fenomeni ad alto impatto nei social media. Qui i fatti sono due: o le molteplici piattaforme di comunicazione hanno un’origine esclusivamente occidentale o sono un prodotto già di per sé globale. In nessuno dei casi Isis è antropologicamente estranea a queste piattaforme. Ne è culturalmente integrato fin dalla nascita.
Quale è quindi il regime di verità presente nelle immagini viventi prodotte da Isis? È un regime che poggia la propria costruzione del vero su una entità politicamente costituita (lo stato islamico), che si di dispiega su due piani: l’adrenalina da guerra, o da esecuzione, il chiliasmo che si fonde nell’utopia fatta realtà del califfato. Un regime di verità, basato sull’accumulazione originaria di immagini, impensabile senza rapporti con Hollywood. E impensabile senza il precedente dell’occidente che si è costituito come tale già durante la prima globalizzazione (dalla mappa, alla fotografia, alla cartolina, ai primissimi film il regime di verità delle immagini che si impone sul mondo, e che si fa mondo, è un portato della prima globalizzazione 1870-1914).
Pensare lo scontro tra stato islamico e Stati Uniti come una battaglia tra oriente e occidente, alimentando lo schema dello scontro tra civiltà, è quindi un errore antropologico prima ancora che politico. Qui siamo di fronte, all’interno della stessa cultura globale, ad uno scontro tra orrori del comunitarismo, di cui Isis si impone a colpi di esecuzioni e di spettacolo, ed orrori del liberalismo, ben rappresentati da un quarto di secolo di politica planetaria americana. Uno scontro tra due visioni estreme, globali, di un integralismo (del primato della comunità religiosa feroce e selettiva il primo, di quello del primato dell’ individuo e della competitività del mercato altrettanto feroci e selettivi) che nutre, in entrambi i casi, codici e simbolica della cultura globale. Isis non è quindi, antropologicamente parlando, il barbaro che è sempre altro rispetto alla cultura globale. Al contrario Isis è come i personaggi di Sade, che mostrano, all’interno di una cultura, che tutto ciò che appartiene ai codici sia razionali che comunitaristicamente conviviali può essere rovesciato nell’orrore. In Isis infatti tutto ciò che fa social e solidarietà comunicativa, e persino frivolo spettacolo occidentale, viene utilizzato come veicolo di propaganda di infiniti bagni di sangue del radicalismo islamico. Che così non si mostra prodotto orientale, esotismo dell’orrore, ma prodotto globale e interno alla cultura occidentale Mentre Isis è sadica, la democrazia liberale, nei suoi orrori, è masochista, proprio perché legata a quel primato del legame ineliminabilmente presente nel contratto che è base antropologica comune tra liberalismo e masochismo (su questo si veda Deleuze, Il freddo e il crudele, ES, Milano, 1991). Il primato del prime time, dell’audience ha il suo risvolto sadico nella decapitazione per far arrivare le notizie in prime time e in prima serata. E quello masochistico del doverle trasmettere l’orrore, producendone ulteriore, in nome della obbligata sofferenza dei contratti firmati con i pubblicitari che costringono ad una audience elevata per essere soddisfatti. Un Masoch contrattuale-comunicativo, insomma. Queste pulsioni antropologico politiche originarie, conflittuali e simmetriche tra loro, nella stessa cultura globale, prendono quindi vita in distinte immagini viventi l’una rappresentante la vicinanza all’orrore comunitario di Isis, l’altra a quello dell’orrore del liberalismo americano. Entrambe sono intrecciate all’evoluzione delle tecnologie comunicative per costruire quella simbolica che promuove la componente altruistica, di massa e gratuita della mobilitazione (opinione pubblica da mobilitare pro o contro Isis, ad esempio); con distinti codici di funzionamento delle autorità (stato islamico vs. governance globale, ad esempio); un differente rapporto tra politica e rituale (decapitazioni via youtube vs. discorso leader occidentali ai giornalisti, ad esempio), con campo del politico definito e dei limiti di governo (limiti della finanza globale rendendo asimmetrica guerra finanziaria e guella sul campo, vale per entrambi, ad esempio). Dopo una delle diffusioni mediali di decapitazioni un giornalista americano ha commentato “proprio il giorno del labour day “ che negli Usa celebra la fine delle vacanze, “sanno come farci paura quando siamo rilassati, conoscono le nostre abitudini”. Ma l’abitudine del labour day negli Stati Uniti è celebrata in centinaia di film americani, tradotti in decine di lingue, visti da centinaia di milioni di spettatori: non esiste l’estraneo che studia le abitudini altrui in silenzio, tutti conoscono le abitudini di tutti, come le proprie, non c’è scontro tra civilizzazioni. C’è guerra all’interno della stessa cultura globale nella quale si arriva presto a conoscenza l’uno dell’altro con veloci click e una lingua usata comune, l’inglese, che favorisce il meticciato concettuale.
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Come in una guerra europea del diciassettesimo secolo non si tratta quindi di una guerra tra civilizzazioni ma uno scontro all’interno della stessa civilizzazione. Quella globale. Quindi questo video, che immagina una rivincita islamica nella casa della cristianità con didascalie tedesche è, a partire dall’estetica, all’interno della cultura globale non cifra di uno scontro tra civiltà.
Isis è dunque La banalità del male? È un tema fatto di vecchio pallore occidentale, per un filosofo sopravvalutato come Hannah Arendt: qui il male non è banale, è stratificato è complesso, istantaneo e globale. Come definire, ad esempio, banale la storia di Philip Bergner che è uno dei tedeschi individuati dalla Frankfurter Allgemeine volontari dell’Isis assieme ai 20 soldati della Bundeswehr sono censiti oggi come quadri militari dello stato istlamico http://www.spiegel.de/politik/ausland/is-ehemalige-bundeswehr-soldaten-kaempfen-in-syrien-a-988894.html? Stato islamico che recluta, secondo Der Spiegel in modo facilmente riscontrabile su youtube , con appelli continui in tedesco per arruolare non solo militari ma tecnici e ingegneri. E ci sono già, secondo fonti dei servizi tedeschi, 400 combattenti Isis con passaporto della repubblica federale di Germania http://jungle-world.com/artikel/2014/36/50524.html E questo ripetuto appello all’arruolamento rivolto ai tedeschi, quando basterebbero appelli “interni” in arabo o nelle lingue di paesi non occidentali https://www.youtube.com/watch?v=20nsDM7G55c qualche riflessione la impone. Dando per scontato che Isis ha arruolato tra centinaia di cittadini britannici non certo tutti di origine araba.
Siamo sicuri che nella nostra parte di società gobale corrosa dal liberalismo, dalle privatizzazioni, priva di risorse grazie alle politiche di bilancio questi fenomeni lascino indifferenti o provochino solo reazioni di rigetto e quindi di legittimazione dell’intervento militare contro lo stato islamico? Il terrore generato dalle decapitazioni di Isis, che nutre l’audience di ogni media occidentale, sarà l’unico modo con il quale a occidente si percepirà Isis? I volti dietro i filmati di propaganda di Isis, piccoli gioielli nel suo genere, dedicati alla vita comunitaria nello stato islamico sono destinati a rimanere repertorio di nicchia?
Il giovane canadese benestante che è scappato dalla vita dei boschi delle sue terre è attratto solo dalla possibilità di operare, in prima persona croficissioni o di sperimentare una vita comunitaria differente da quando vissuto fino a quel momento? http://www.huffingtonpost.it/2014/09/01/propaganda-isis-tweet-video-rivista-inglese-jihad-occidente_n_5748222.html?utm_hp_ref=ital
La verità è che, nonostante le narrazioni su immaginifici movimenti a venire che si unificherebbero nello spazio europeo del nuovo welfare, già oggi la jihad è il linguaggio più efficace e conosciuto nell’ unificazione di soggetti e collettivi nel continente. Movimenti ben diversi dalla tradizione politica europea ma che mutuano, svuotandoli, lessico e contenuti dalla sinistra. Da quella no border al lessico della liberazione dell’oppressione.
È in questo contesto simbolico di inclusione degli occidentali nella guerra santa che si producono video come Let’s go for Jihad, http://jihadology.net/2014/06/15/new-video-nashid-from-al-%E1%B8%A5ayat-media-center-lets-go-for-jihad/ dove la canzone che invoca la Jihad è, anche qui, in tedesco con sottotitolazione intelligente in inglese e assenza di lingua araba . Video che sembra una rilettura in scenario più ampio, versione guerra santa ed esecuzioni di infedeli, della scena di Baader Meinhof Complex dove i membri della Raf sparano correndo in macchina, mentre scorrono le note di My Generation degli Who https://www.youtube.com/watch?v=FanVI8-zlsA . E che questo richiamo tocchi anche gli europei e i bianchi lo notiamo anche nella corrispondenza da Makhmur di Infoaut dove si ricorda che il Pkk, nella resistenza a Isis, ha trovato cadaveri sul campo, non solo originari dei paesi tradizionalmente fornitori di guerriglieri jihadisti, ma anche “europei e americani”: http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/12613-isis-kurdi-medioriente-serve-una-rivoluzione-anche-del-pensiero
Viene quindi da immaginare, specie scorrendo le immagini di Saluti dal Califfato, se il testo di Simon & Garefunkel in Sound of Silence sulle parole dei profeti che anticipano la rivoluzione, scritte silenziosamente sui muri o nei corridoi dei condomini, non siano oggi rilette in altro modo specie alla voce “profeta”. E come ci sono lontane le scene, rappresentate dal pur non eccelso Baader Meinhof Complex, di discussione tra Raf e palestinesi, in un campo di addestramento militare in medio oriente, sul diritto delle donne a dormire con chi preferiscono e non secondo i criteri stabiliti dal corano. Si rafforza piuttosto l’impressione che qualcuno abbia in qualche modo raccolto Spagna ’36, e il simbolico della solidarietà internazionale, per rieborarlo nel format della nascita del califfato. Tutto secondo una vecchia e scontata regola della politica: quando si lasciano spazi vuoti qualcuno li riempie. Una cosa è chiara: per ottenere i diritti il linguaggio dei diritti non basta proprio più. Nell’audience globale si chiede qualcosa di più forte e profondamente antropologico, ad esempio, dei tentativi di sperimentazione di linguaggi di tendenza da parte di qualche ex Occupy spagnolo. Nella crisi permanente la comunicazione politica non la fa il linguaggio da movida. L’audience globale vuole molto di più: sinistramente, Isis qualcosa dovrebbe insegnarla. Basta capirlo senza imitare.
Si potrebbe dire, con una vecchia canzone degli Smith, Barbarism begins at home ma qui non è barbarie. Qui siamo tra simili. Non solo perché la ferocia comunitaristica di Isis, che uccide e sfigura tutti i diversi, risulta perfino artigianale rispetto a quella che le tecnologie liberali della morte possono scatenare. E non solo perché Isis riproduce, facendole proprie in senso sadico, razionalità e valori inclusi nelle tecnologie di origine occidentale (agire comunicativo, social, diffuso). Ma soprattutto perché Isis non risponde a nessuno dei criteri, individuati per definire i barbari nel testo curato da Ivano Dionigi. Se i barbari sono tali perché bisbigliano, ora si comprende che Isis si fa capire benissimo; se i barbari sono tali perché amano la schiavitù, secondo la lettura di Aristotele, allora sarà meglio rileggere, nel profondo, le categorie di l i barbari sono tallibertà e di assoggettamento perché Isis si costituisce in nome di ciò che concepisce come lotta all’oppressione; se i barbari sono coloro che, avendo conosciuto la civiltà, tradiscono i valori della civilizzazione non c’è niente che travisino della civiltà attualmente in vigore: comunicazione globale, gestione di flussi finanziari, corporate event, finanza su tutti i livello, solidarietà social e cognitiva ed uso della forza (a cui i paesi democratici hanno abituato tutti benissimo e ad un livello di violenza che rende Isis una start-up aggressiva e innovativa nel settore ma composta ancora da dilettanti).
Isis è quindi abitudinaria ferocia domestica del villaggio globale, altro che alterità della barbarie lontana. Parla la lingua del villaggio globale: quella della realtà che si fa immagine assieme all’immagine che si fa realtà costruendo in questo modo la potenza, anche sinistra, dell’evento. La sua antropologia politica, che si serve dell’immagine vivente, diffusa istantaneamente e globalmente, si fonda, per dirla alla Foucault de Le parole e le cose, su uno zoccolo epistemologico che ricorre in società diversissime tra loro: l’immagine vivente, frutto di una cultura globale, tiene infatti assieme misticismo di massa e interesse materiale in modo che i codici di funzionamento delle autorità siano saldi, rafforzati dall’accumulo globale di violenza; il rapporto tra politica e rituale è caldo, continuo, di massa e liminale grazie alla propaganda comunitaristica e fluida allo stesso tempo; il campo del politico è definito e governa corpi, anime, amministrazione secondo i limiti fissati dal corano, dal mercato nero e dalle leggi non scritte del mondo globale. L’economia di Isis, tra finanziamenti più o meno occulti e amministrazione genere stato islamico del petrolio delle zone occupate, è sia a diretto contatto con questi limiti, imposti dal mondo globale, che esperimento di produzione e circolazione di ricchezza regolato dalla sharia.
Chi è sul campo, in Iraq ha parlato di possibile rottura dell’allenza esistente tra Isis e diverse realtà locali sunnite. C’è chi parla di diserzioni. Ma è, seppur importante, contingenza. C’è una scena in Reds di Warren Beatty che va ricordata. Quella che, al momento della campagna per la sovietizzazione dell’Asia centrale, in cui John Reed e Kamenev discutono dell’uso, fatto ai comizi bolscevichi in quei territori, del concetto di “guerra santa” invece che di rivoluzione. Una scena che ci ricorda la difficoltà, già presente nel primo ‘900, a sradicare il rapporto tra religione e politica che, oggi, si è fatto talmente forte da azzerare il discorso di sinistra a livello globale.
C’è qualcosa quindi che si deve profondamente capire. Come è avvenuto per il viaggio di Malcom X alla Mecca: esiste la necessità di leggere un mondo senza timore nonostante i drammi che quel mondo porta con sé. Ad esempio si capisce che, con una lettura infantilmente iconoclasta, genere dei movimenti Occupy che si concentrano sull’autenticità della piazza contro colonizzazione del mediale, si è politicamente fuori dal mondo di oggi e di domani. Chi vince la battaglia dello spettacolo, e Isis lo fa in modo tragico ma anche low cost, entra di forza ad essere un soggetto politico. Il resto è memoria, destinata a svanire negli anni. Mentre chi ha capito la lezione, persino cominciando drammaticamente a darla, restaura rammemorazioni arcaiche, pretese di legittimazione politica che sembravano eclissate nel feroce silenzio dei secoli.
Per Senza Soste, Nique La Police – 9 settembre 2014
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