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Dal Brasile del miracolo economico a quello della lotta alle diseguaglianze. Intervista a Talita Tibola (pt.2)


4. All’inizio del 2012 ebbe forte eco quanto accade a Pinheirinho, con lo sgombero di quella favela e la risposta determinata dei suoi circa 9000 abitanti. C’è stato poi ad esempio il caso di Vila Autodromo. La lotta contro gli espropri e gli sgomberi ha avuto nuovi momenti di esplosione? Quanti sono “calde” le favelas, anche in seguito alle sommosse di quest’estate?

A giugno, quando sono occorse le proteste più massive una frase è diventata famosa: “il gigante si è svegliato”; dopodichè si è sentita la risposta: “la favela non ha mai dormito”. Questa affermazione è stata fondamentale nell’ambito della disputa sul significato delle proteste e per non permettere che fossero incorniciate come manifestazioni vaghe; affinchè fossero inserite in un percorso di lotte che con le proteste si è reso più ampio e che, a partire da questo, si è trasformato. Campagne come “Dov’è Amarildo?” e “La polizia che reprime nell’asfalto è la stessa che uccide nella favela” hanno reso possibile che le proteste potessero narrare l’esplicitazione della violenza quotidiana e di quello che succede sistematicamente nella società e non un fenomeno di malcontento del ceto medio come volevano far credere i mass media e alcuni rappresentanti di partiti politici. Questi sono solo alcuni esempi per dire che le favelas sono costantemente “calde”: il primo consiste in una campagna concentrata su un caso unico tra i tanti successi negli anni, per dargli un significato inedito di esasperazione della verità di un conflitto. Amarildo era un muratore nella più grande favela del paese, Rocinha, che nella giornata del 14 luglio é stato portato via dalla polizia e non è mai più stato visto. La campagna è stata un fattore decisivo affinchè ci fosse un’indagine, alla fine della quale è emerso come Amarildo fosse stato ucciso dalla polizia in una sessione di tortura (e che anche il suo corpo era stato fatto poi sparire).

La seconda campagna è divenuta uno degli slogan delle manifestazioni, specialmente dopo il massacro di 13 abitanti della favela della Maré dopo una protesta. Queste campagne esplicitano il razzismo e la disuguaglianza di classe che guidano le istituzioni dello stato e che fanno di questa violenza e del controllo del territorio e dei corpi l’ordine del giorno e non lo stato di eccezione. Nelle favelas, il controllo è fatto dalle Unità di Polizia Pacificatrice (UPP), praticamente un’occupazione militare di questi territori contro i quali gli abitanti si stanno mobilitando. Le proposte governative non sono mai per la sua eliminazione ovviamente, ma per la sua riproposizione attraverso politiche pubbliche.

Questa pacificazione è rivolta al garantire buona immagine della città, venduta non solo al turismo e alla FIFA, ma anche come biglietto da visita del Brasile del “miracolo economico”. La qualificazione del movimento a partire delle favelas, tuttavia, continua ad aprire la ferita sociale e razziale permanente sul corpo di questo “miracolo economico”. Con le manifestazioni questa situazione di permanente tensione é ancora più latente e si aggiunge a questo il fatto che ci sono organizzazioni nelle favelas, specialmente sulla questione centrale della resistenza alle rimozioni, che si sono rinforzate. Cosi come si sono rinforzate le reti di comunicazione dei gruppi tra le favelas. Rispetto agli sgomberi, anche questa è una lotta sempre in ebollizione, dato che la situazione é complicata in tutto il Brasile; a Rio il sindaco è stato quello che più ha realizzato rimozioni dirette e indirette.

La stessa Vila Autodromo non é un caso ancora risolto. Gli abitanti ancora lottano per non essere sgomberati, dato che è una regione vicina a dove sarà la Villa Olimpica e in un quartiere di Rio molto di valore. C’è stato questo mese persino una situazione in cui un gruppo di poche persone manifestava perché voleva andare via da Vila Autodromo, una manifestazione che sembrava organizzata dal comune per fare marketing a suo favore, dato che le persone che vogliono andare via da Vila Autodromo possono farlo e per farlo avranno persino l’appoggio istituzionale! La situazione attuale degli espropri e sgomberi è accompagnata dal “Comite Popular Copa e Olimpiadas”, presente in varie città del Brasile.

5-Spesso, prima delle esplosioni conflittuali di questa estate, il Brasile era noto alle cronache delle lotte soprattutto per quanto riguarda la questione delle lotte indigene contro la colonizzazione dei territori, lo sfruttamento del territorio delle riserve e la sua svendita alle esigenze del capitale speculativo e ai suoi maxi-progetti di sviluppo.

Si può ricordare l’occupazione realizzata da indigeni di varie etnie nella Camera dei Parlamentari, a marzo del 2013, quando protestarono contro la politica di rimozione e sterminio delle popolazioni realizzata dal progresso delle industrie agroalimentari, delle grandi aziende agricole e dei maxi-progetti. In questo stesso anno è stato occupato dalla lotta indigena il cantiere di opere della diga di Belo Monte (terza più grande al mondo, nata come progetto del periodo della dittatura militare), oltre al Villaggio Maracanã (dal 2006) nel cuore della città di Rio de Janeiro, accanto allo stadio Maracanã. Entrambe le occupazioni sono state rimosse dalle forze dell’ordine. Nel 2012, parallelamente alla realizzazione della Conferenza Rio+20, gli indigeni,armati con arco e freccia, hanno occupato i giardini del palazzo della Banca Nazionale dello Sviluppo Economico (BNDES), un’istituzione statale finanziaria che gestisce i fondi del lavoratore per applicarli massivamente nei grandi progetti di sviluppo nazionale.

Tutte queste azioni dirette mettono in questione il modo di produzione sviluppista brasiliano che prende come parametro l’industrializzazione; cosa che in Amazzonia, in generale, significa industrializzazione dell’agricoltura (agro-business con il sistema plantation) e commodities minerali (che dipende da intensa produzione energetica, generalmente per via idroelettrica). Lo sviluppo è rinchiuso in una concezione di progresso costruita dalla modernità europea, che misura il successo a partire da indici economici e di inclusione sociale. Non considera, così, la ricchezza degli amerindi, cioè, le forme produttive e le socialità dei popoli della foresta. Questi popoli non devono essere “preservati” come roccaforte di una umanità originaria e intoccabile, in qualche mito del “buon selvaggio” che non è coerente con la realtà storica e politica del movimento indigeno brasiliano, con le sue migrazioni e mutazioni, ma riconosciuti nella loro dimensione produttiva di relazioni, poichè contengono un potenziale di riqualificazione del ciclo di sviluppo nell’America del Sud.

É per questo che non si deve percepire l’aggressione contro la ricchezza amerindia solamente come la violazione delle riserve, dei suoi territori originari. Anche se la questione della terra sarà sempre una questione centrale, la soluzione non è semplicemente data da riserve indigene. L’aggressione sta pure nella negazione della capacità degli indigeni di rendersi soggetti di altre forme di sviluppo. Per non essere trattati solamente come destinatari delle politiche o, in un tono conservazionista ugualmente irrispettoso, come se fosse un “deposito naturale” in relazione a uno sviluppo capito come un avanzo della civiltà.

6-Abbiamo detto che la vetrina mediatica della Confederation Cup è stata sfruttata per innalzare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale da parte del movimento. C’è già proiezione verso i mondiali 2014 e verso le Olimpiadi 2016, che saranno catalizzatori formidabili di attenzione globale? Sono state lanciate delle campagne, ci sono percorsi già avviati..?

É curioso perchè il Brasile è usualmente conosciuto come patria delle “scarpe da calcio” e questo ha un senso dispregiativo, come se fosse uno strumento di alienazione, un “panis et calcio”. Ma è stato esattamente nella realizzazione di un maxi-evento di calcio, la Confederations Cup, che sono successe le più grandi manifestazioni. Nell’ambito dei mass media, il giornalismo sportivo é persino stato quello dove si sono più lette critiche all’organizzazione.

Si è dimostrato che le manifestazioni possono tumultuare seriamente i mondiali nel 2014. Erano onnipresenti cartelli, slogans e canzoni di carnevale con denuncia contro le spese per i mondiali al posto di quelle in settori come salute e educazione. Il grido “Non ci saranno i mondiali!” è sentito con frequenza, in particolare nei momenti della repressione, quando i manifestanti sono presi dalla rabbia. Ancora prima delle manifestazioni, cresceva la forza del Comitato Popolare della Coppa, un fronte unico di collettivi, movimenti organizzati e attivisti uniti per generare contropotere rispetto al rullo-compressore discorsivo, mediatico e poliziesco integrato ai grandi eventi sportivi.

Se pensiamo che, ad ottobre 2014, ci saranno le elezioni per presidenza, governatorati e parlamenti federali e statali, si può avere una idea del grado di preoccupazione per la continuità delle proteste per l’anno prossimo. Le reti di mobilitazione hanno coscienza del grado di visibilità – veramente globale – che le proteste possono raggiungere durante i Mondiali. Alla stessa maniera in cui i governi utilizzano i mega-eventi come pretesti, come punto di partenza per tutti i tipi di politiche di sfruttamento e “igienizzatrici”, i movimenti lo fanno nel senso inverso, usando il momento dei giochi per promuovere agende ampliate di educazione, salute, sport e cultura.

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