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Dal dono alla merce: donne contro i supermercati della carità

 

 

Questi servizi prendono la forma di nuove istituzioni strutturate dall’imperativo di rendere produttiva la povertà. Si tratta di supermercati, spesso gestiti dalla Caritas in concorso con i servizi sociali. Statisticamente l’utenza di questi centri coinvolge in maniera preponderante le donne. Quelle che vanno a fare la spesa, quelle che tirano avanti la famiglia. Merci in esubero sul mercato – in forza dell’ideologia del dono e del gesto (spacciato per) disinteressato sponsorizzato dalla Caritas – vengono rivalorizzate nel circuito della pacificazione sociale, abilitando la possibilità di consumare non come potere di acquisto ma come forma di accreditamento dentro un livello minimo di riproduzione sociale, garantito ma controllato. Un programma che riformula la natura dello stato sociale non su un patto capitale/lavoro interpretato da soggetti collettivi ma su un contratto individuale basato sull’accesso a servizi o beni da rimborsare in termini di attivazione di comportamenti specifici prescritti dagli assistenti sociali.

 

I servizi sociali inscrivono il rapporto tra assistente e assistito in una “relazione essenzialmente di potere, fondata sulla paura di poter accedere alle poche speranze, tenute costantemente in vita da norme e procedure di “autoattivazione”, che spingono l'”utente” a guadagnarsi la “fiducia” delle istituzioni, a “meritarsi” l’aiuto. (…) L’individualizzazione e la personalizzazione dell’assistenza è il requisito fondamentale che regge questo tipo di assoggettamento. D’altra parte la premessa di fondo è la rassegnazione a non pretendere – né poco né troppo.” (Progetto Prendocasa Pisa, contro il welfare del debito, 11 aprile 2013). Nell’architettura di questo modello assistenziale la figura del mediatore psico-sociale risulta il soggetto istituzionalmente preposto a definire, controllare, produrre nel rapporto singolarizzato con l’assistito condotte non-devianti, anche qualora – e forse soprattutto – questa devianza fosse orientata nel senso di un riscatto collettivo da una situazione di comune subalternità.

 

 

Un caso tra tanti: la cittadella della solidarietà a Pisa.

 

Nel 2015 la Società della Salute, il consorzio territoriale pisano che integra servizi sociali comunali e servizi erogati dalla Asl, ha smesso di erogare un importante sussidio per le donne e le famiglie: il buono spesa. 100€, dati in maniera aperiodica, attraverso gli assistenti sociali, da spendere nei supermercati. Era un contributo comunque insufficiente ma permetteva di poter far scegliere alle donne cosa comprare, cosa mangiare. Dopo la chiusura di questo servizio l’assistenza sociale indirizza l’“utenza“ dei buoni spesa verso l’Emporio della Solidarietà, un “supermarket” gestito dalla Caritas, costruito al costo di 1,2milioni di euro di cui 630mila finanziati dalla Fondazione Pisa, 30mila dal Comune e il restante dall’8xmille della Chiesa cattolica. L’emporio, che ha sede nei locali dell’ex cinema-teatro dei salesiani del quartiere CEP, ha le dimensioni di un supermarket, circa 600 mq di superficie, scaffali per 40 metri in piano, celle frigo, due casse.

Come funziona?

 

Nel passaggio dal contributo economico al “supermercato” sono cambiate tante cose per chi usufruisce del servizio: “non potendo più scegliere come utilizzare il buono spesa, ci ritroviamo obbligate a fare la spesa in un supermercato diverso dai soliti, la coop o l’eurospin frequentati normalmente“. Si può scegliere solo dagli scaffali il cibo a disposizione, “donato” da persone caritatevoli o scelto fra gli scarti dei supermercati; viene eliminata l’autonomia di scelta e introdotto un duplice dispositivo di umiliazione e ghettizzazione per la propria assenza di reddito accompagnato da una drastica diminuzione della qualità dei prodotti.

Per poter accedere al servizio della Caritas una Commissione mista (assistenti sociali-Caritas) decide quanti punti e ogni quanto si hanno a disposizione, solitamente per una durata massima di sei mesi all’anno, ed esponendo le vite delle donne e delle famiglie al giudizio costante ed umiliante di chi ne indaga ogni aspetto. “I punti me li danno in base all’ISEE e poi c’è un margine di arbitrio nel scegliere quando rinnovarmeli, se togliermeli o aggiungermene in base agli impegni che l’assistente sociale mi chiede di assumermi. All’ingresso mi metto in fila insieme ad altre donne, do la mia carta al volontario, controllano i punti che mi restano scannerizzando la carta e poi estraggono chi può entrare“.

 

I prodotti sugli scaffali dell’Emporio della Solidarietà vengono quindi, a tutti gli effetti, “comprati” e costano dei punti (assegnati in base al prezzo medio di mercato dei beni), ma la loro qualità non corrisponde a quella dello stesso prodotto in vendita nei normali supermercati. Spesso si trova cibo in prossimità di scadenza o già scaduto, alimenti congelati fuori dai banconi frigo, confezioni non integre. “Aprono le confezioni di carta igienica e le riconfezionano a due a due. Perché? Vogliono che conti le volte che vado al bagno e risparmi anche sulla carta igienica che uso? Mettono poi negli scaffali i deodoranti e lo shampoo requisito al check-in dell’aeroporto in flaconi per metà vuoti e già usati da altri“.

Chi si trova costretto ad usufruire di questo servizio, vista la completa assenza dei contributi pubblici, entra all’interno di un circolo vizioso di umiliazione e frustrazione: file interminabili sperando che la dea bendata sia dalla sua parte durante il sorteggio che decide l’ordine di accesso alle corsie dell’emporio (mai comunque più di quattro utenti per volta), seguite dall’angoscia di veder svuotare gli scaffali da chi ti precede, nonostante i magazzini siano pieni di roba che non viene sistemata sugli scaffali. “Più di una volta abbiamo dovuto fare a gara per l’unico di barattolo di nutella messo sugli scaffali. Poi finisci che ti vergogni e lo cedi a quell’altra a fianco a te, con il figliolo appresso che gira per le corsie. Se non ti umiliano arrivano sempre a farti vergognare. Altro che dono, qui ti fanno pagare tutto prendendoti la dignità”.

 

A rifornire gli scaffali e a gestire quotidianamente l’emporio vi sono vari gruppi di volontari composti da giovani che svolgono lì il servizio civile e studenti degli istituti superiori in alternanza scuola-lavoro. Giovani che prestano il loro lavoro gratuitamente o per pochi soldi, mentre sulle loro teste ruotano milioni di finanziamenti vista la gestione congiunta dell’emporio della Caritas della Società della Salute. “Qui, tra i volontari, ci sono anche detenuti in reinserimento sociale: da carcerati a carcerieri e controllori di altre persone nelle corsie di un supermercato”.

 

 

 

 

Reagire all’umiliazione

 

Nel pomeriggio di ieri diverse decine di donne in carico agli assistenti sociali hanno invaso i locali del “supermercato” della Caritas al CEP di Pisa. Occupando il centro hanno denunciato le condizioni umilianti a cui sono sottoposte ogni giorno per poter accedere al servizio: sorteggio per entrare a fare la spesa, scaffali mezzi vuoti, prodotti non confezionati, cibo scaduto o mezzo finito. I magazzini sono stati aperti mostrando come la merce ci sia ma non venga distribuita per preservare il meccanismo di scarsità e razionamento su cui si costruisce il ricatto della tessera assegnata dagli assistenti sociali. Mentre tanti ”utenti” ritiravano i beni senza farsi spuntare la tessera la protesta delle donne cresceva sulla leva del rigetto del sistema dell’umiliazione e l’ingiunzione a prendere roba di merda, continuare a dimostrare di essere indigenti per continuare a beneficiare di un… diritto. Le donne costrette a recarsi ai centri Caritas vivono tutti i giorni questa umiliazione. Anzi l’umiliazione è la forma-valore su cui questo meccanismo di produzione di soggettività si misura.

 

Con il continuo impoverimento delle famiglie, il numero di chi è costretto ad accedere a questo servizio aumenta drasticamente: dai dati pubblicati dalla Caritas stessa si parla di un aumento del 35% in un solo anno. Il sistema di gestione di forme di integrazioni al reddito famigliare non possono più passare dai servizi sociali ad associazioni caritatevoli, funzionali alla riabilitazione morale di supermercati che sprecano enormi quantità di cibo. Ci chiediamo come sia possibile che un contributo, pubblico e destinato a tutti quelli senza reddito o in difficoltà, si sia potuto trasformare in un’opera di carità concessa solo ad alcuni, al prezzo di una continua e costante esposizione delle nostre vite al giudizio e all’umiliazione. Ci chiediamo come sia possibile pagare, con dei punti, prodotti che la Caritas riceve in dono da persone o dai supermercati in grande quantità e che restano nel magazzino mentre gli scaffali piangono la nostra stessa miseria. Ci chiediamo perché questo servizio venga garantito per un massimo di sei mesi, quando i supermercati continuano a sprecare giornalmente un’enorme quantità di cibo ancora in ottime condizioni che potrebbe essere distribuito a chi come noi è in difficoltà ed è costretto a comprare a punti cibi scaduti o prodotti usati”.


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