Ecosistemi in rivolta
The solutions are already here. Strategies for ecological revolution from below, firmato dall’attivista ecologista anarchico statunitense Peter Genderloos ed edito nel maggio 2022 da Pluto Press, è un interessante saggio che tenta di mettere in collegamento le esperienze globali di resistenza al capitalismo estrattivo e di delineare degli appunti per una strategia di opposizione efficace tanto agli aspetti più brutali e predatori dell’estrattivismo, quanto ai tentativi di sussunzione del cosiddetto Green New Deal: il ricavato del libro è e sarà interamente devoluto alle esperienze di lotta territoriale ed ecologista in Brasile, Venezuela ed Indonesia, lә cui attivistә sono statә intervistatә dall’autore per l’elaborazione dello scritto. In attesa di una traduzione complessiva dell’opera, abbiamo scelto di riprendere da IllWill un estratto del libro, riportando anche la breve, ma efficace, introduzione a cura del sito, che ha anche il pregio di rilanciare la lotta attualmente in corso nei boschi vicino Atlanta contro la deforestazione pianificata per consentire la costruzione di una nuova accademia di formazione per la polizia, su cui a breve pubblicheremo un approfondimento.
Il testo ci sembra interessante, al netto di una qualche eco genericamente “no global”, per varie ragioni: va innanzitutto evidenziata la capacità di interconnessione di diverse lotte ed esperienze globali, che rifugge la tentazione di una lettura troppo univoca e lineare delle stesse da un lato, dall’altro ne evidenzia i comuni caratteri ecologisti e territoriali, evitando un’interpretazione a compartimenti stagni che riduce questi ultimi a tratti peculiari di percorsi specifici. Genderloos traccia una linea di collegamento netta e chiara dalle lotte rurali messicane a quelle urbane newyorkesi, sottolineando le rilevanti differenze di scala, intensità e funzionamento del dispositivo coloniale senza tuttavia relegarlo in un’alterità esotizzata. La metropoli come habitat e i movimenti urbani come ecosistemi, passando dal reparto di fabbrica dei boschi di Cheràn K’eri: il dualismo natura/cultura si rompe, e possono così emergere parimenti tanto le specifiche modalità di dominio e sfruttamento riservate agli ambienti rurali e urbani, quanto la dimensione di dualità e continuità tra territori ed esperienze di lotte. Senza necessariamente attraversare gli oceani, basti pensare alle esperienze di lotta nel territorio italiano, dai boschi urbani e dalla difficile linea di demarcazione tra città e campagna tipica del territorio romano alla Valsusa, configuratasi nel secondo Novecento come propaggine della cintura industriale torinese. Questa capacità, appunto, di interconnessione e complessificazione delle esperienze ci sembra uno strumento prezioso per l’indagine offensiva del presente, unitamente alla capacità di sfuggire interpretazioni centralizzanti e univoche di fenomeni multivettoriali. Se, infine, negli ultimi mesi una certa quota del dibattito politico italiano si è concentrata su un presunto antagonismo irricomponibile tra la tensione ecologista e la sussistenza del proletariato metropolitano – a partire, ad esempio, dal rincaro dei prezzi della benzina o dalla decisione del Parlamento Europeo di fissare al 2035 lo stop alla vendita di vetture a benzina-, il quadro delle rivolte contro il rincaro dei costi della vita e del trasporto pubblico tra Barcellona e San Francisco tracciato da Genderloos ben sottolinea la miopia di questa interpretazione.
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Mentre la lotta per difendere la foresta di Atlanta dalla costruzione di un nuovo centro di addestramento della polizia raggiunge la sua quarta settimana di azione, pubblichiamo un estratto del recente libro di Peter Genderloos, The solutions are already here. Tactics for ecological revolution from below, fresco di pubblicazione per Pluto Press. Come mostra Genderloos, laddove le risposte alla crisi ecologica di stati e mercato hanno “un tasso di fallimento quasi perfetto”, un’onda globale di movimenti di resistenza nel corso dell’ultimo decennio ha già sviluppato le proprie pratiche di risposta alla sovrapposizione di crisi ecologiche e politiche che ci attanaglia, e ha conseguito “stupefacenti vittorie e avanzamenti concreti e reali in tutto il mondo”. Nel seguente estratto, Gelderloos sottolinea alcune delle caratteristiche chiave che hanno reso vittoriosa la risposta insurrezionale all’ecocidio statale. Allo stesso tempo, il suo nuovo libro mette in evidenza le importanti sfide e gli ostacoli che dovranno essere affrontati e superati se si vuole strappare un futuro autonomo dal controllo della polizia e della violenza paramilitare, dei media e delle Ong che naturalizzano la repressione del movimento ecologista decentralizzato oppure chiudono un occhio sulla catastrofe della vita nel tardo capitalismo.
Mentre finisco questo libro, si è appena compiuto il decimo anniversario della grande vittoria di Cheràn K’eri. Il 15 aprile 2011, la popolazione di questa cittadina dello stato messicano di Michoachàn si sollevò per difendere le sue foreste, le sue acque e la sua esistenza. Con una popolazione di 14.000 persone, Cheràn K’eri è una delle città principali del territorio del popolo P’urépecha. Grazie agli ultimi cento e più anni di lotte da parte dei popoli indigeni dalla Baja California al Chiapas, larghe fasce di territorio in tutto il Messico sono state ufficialmente riconosciute come terre comunitarie, compresi 15.000 ettari nei pressi di Cheràn K’eri: ciononostante, nulla è al sicuro sotto il capitalismo, e la maggior parte delle terre comunitarie sono state depredate dai cartelli della droga, che sono ampiamente integrati nello stato e hanno diversificato le loro attività in altre industrie come quella del legname.
Molte persone nella cittadina si erano espresse contro il disboscamento selvaggio, e di solito finivano uccise. Mentre gli omicidi proseguivano impunemente, e il disboscamento raggiungeva la fonte d’acqua cittadina, le donne insorsero e presero in ostaggio diversi camionisti e taglialegna del cartello. Vi furono parecchi giorni di intensi scontri con i mercenari dei narcos e con la polizia locale, ma il popolo di Cheràn K’eri innalzò le barricate, diede alle fiamme i camion e resistette con le pietre, le molotov e ogni arma da fuoco su cui riusciva a mettere mano. Il 17 aprile, venne creata un’“assemblea popolare” che sarebbe stata il primo passo verso l’autogoverno. Dall’assemblea nacque una commissione di dialogo composta da delegati a rotazione di ciascun quartiere: questa struttura organizzativa rifletteva le aspirazioni egualitarie della popolazione della città, ed era anche molto più efficace di scegliersi dei leader che potevano essere cooptati, rapiti o assassinati(1).
Tra le barricate e le parhankua, i fuochi comunitari per la cucina, è rinato un senso di comunità che ha sopravanzato le divisioni, gli antagonismi e le carenze sedimentatesi in secoli di colonialismo. Le tradizioni e la lingua P’urépecha si sono rivitalizzate e sono diventate il fondamento delle pratiche di autonomia. Una di queste tradizioni era la kuájpekurhikua, una parola che si può tradurre come “prendersi cura del territorio” e che si riferisce indifferentemente al territorio sociale e a quello ecologico, partendo pertanto dall’educazione e dal miglioramento delle condizioni delle donne nella comunità alla riappacificazione dei rapporti tra vicini, fino agli sforzi massicci per la riforestazione. Nel 2015, il vivaio da loro realizzato per la coltivazione degli alberi- partendo da semi raccolti solo quattro anni prima nella foresta- ha superato la cifra di un milione di alberi e arbusti germogliati all’anno, con un rateo di sopravvivenza dell’80%, diventando il più grande polmone verde dello stato e forse di tutto il Messico. Il popolo di Cheràn K’eri ha anche sviluppato un sistema di giustizia comunitario incentrato sulla mediazione più che sulla punizione: conquistando la propria autonomia dallo stato e dal capitalismo estrattivo ha costruito la capacità di iniziare a disfare il colonialismo in tutte le sue forme(2). Possiamo trovare esempi di riforestazione in tutto il mondo: la differenza tra una vera foresta e una piantagione di alberi che sembra buona sulla carta, ma che in realtà distrugge il territorio locale, è qualitativa. Il fattore chiave per determinare se uno sforzo per la riforestazione appartiene alla prima o alla seconda categoria è se questo si da sotto il controllo territoriale e viene progettato da saperi situati, invece di essere sottoposto al controllo dello stato. […]
Dalle città agli habitat
La dicotomia urbano/rurale è una dinamica centrale dell’accumulazione capitalista e della crisi ecologica. Vi è un regime differenziato di estrazione, accumulazione e controllo sociale tra ambiente rurale e urbano. Così come le lotte rurali stanno riscoprendo il loro potenziale nel blocco e nel sabotaggio, le lotte urbane stanno imparando che non sono affatto ridotte alla protesta e alla distruzione: possono anche trasformare. Al fine di rivendicare le città come habitat, le lotte ecologiste nelle città meritano particolare attenzione: come primo passo, ciò significa impedire alle città di ucciderci. Per le persone povere, la vita urbana spesso significa una condanna a morte, nonostante l’infrastruttura medica sotto il capitalismo sia concentrata nelle città. Negli anni 70, gli interessi politici ed economici della città di New York iniziarono a progettare la costruzione di un inceneritore nel cantiere navale di Brooklyn. L’inceneritore avrebbe danneggiato i quartieri locali come Williamsburg con diossina e altri agenti letali di inquinamento, ma lә residenti portoricani e chassidi risposero con l’approccio “con ogni mezzo necessario”, andando contro il governo cittadino, l’azienda di servizi e i media mainstream, che supportavano tutti il progetto: fermarono definitivamente l’inceneritore nel 1995(3). Ciò che non dovrebbe essere rimosso è che in seguito alla vittoria del quartiere, Williamsburg e buona parte del resto di Brooklyn sono stati gentrificati selvaggiamente, facendo schizzare alle stelle i valori immobiliari, mentre moltә residenti proletarә e persone razzializzate sono statә espulsә in favore di professionistә giovani e prevalentemente bianchә. In altre parole, a moltә di quellə che avevano lottato per un quartiere più pulito non fu consentito di rimanere nella zona per goderne i benefici. Storie simili sono sistematicamente tipiche, e ricordano perché la posizione apparentemente pragmatica di una riforma parziale è irrimediabilmente ingenua. Fino a quando il capitalismo rimane intatto, qualsiasi conquista potremo ottenere pressando le istituzioni esistenti sarà usufruita dalle classi economicamente privilegiate e da chi è più abile ad assimilare i codici razzisti e la cultura di una società coloniale. Un’altra lotta che connette le preoccupazioni ambientali con i bisogni economici della popolazione urbana povera è la difesa del trasporto pubblico: ciò può includere le proteste in bicicletta delle Critical Mass, che, da San Francisco a Sao Paulo, si oppongono alla cultura dell’automobile, e che in molte città hanno portato alla creazione di piste ciclabili e incrementato l’accesso deә residenti poveri alle biciclette e alla loro riparazione. Più che un problema di stile di vita, le città progettate per le auto sono letali, specialmente per chi risiede nei quartieri ad alta densità. Le città organizzate in modo tale che lə lavoratorə debbano fare affidamento alle automobili stanno semplicemente aumentando l’indebitamento e indirizzando i salari verso le imprese di due dei settori più ricchi del Nord Globale: l’industria automobilistica e quella petrolifera. La difesa del trasporto pubblico ha anche innescato delle rivolte vere e proprie: a Barcellona e nella Bay Area di San Francisco, il rifiuto di massa di pagare il biglietto o le azioni pubbliche per neutralizzare le macchinette obliteratrici e aprire i tornelli della metro, che fossero organizzate da assemblee di quartiere o da organizzazioni anarchiche, talvolta in combinazione con gli scioperi deә lavoratorә dei trasporti, hanno momentaneamente ridotto il carico fiscale a cui sono sottoposti lә proletarә pendolari e hanno inoltre generato un’incredibile pressione sui governi municipali contro un ulteriore aumento delle tariffe. Sia in Brasile che in Cile, le principali insurrezioni si sono sviluppate a partire dai movimenti inizialmente sorti in opposizione all’aumento dei costi. Sia il movimento del 2013 in Brasile che l’insurrezione cilena dal 2019 al 2021 hanno visto una decisiva partecipazione anarchica, hanno sconfitto gli aumenti paventati e sono stati in grado di identificare un orizzonte sociale ben più vasto, allargandosi per affrontare questioni più profonde di ingiustizia come la repressione poliziesca, l’ineguaglianza, l’austerità e il diritto alla città(4). I movimenti urbani spesso si sentono destinati al fallimento: chi vive in una città raramente ha la minima possibilità di resistere ai cambiamenti del proprio quartiere imposti dall’alto. In parte, ciò è motivato dal fatto che, durante il ventesimo e il ventunesimo secolo, le città hanno costituito la concentrazione del capitale accumulato su scala globale. In realtà, le case e gli altri edifici non sono posti adibiti alla vita o all’espletamento delle attività professionali delle persone; piuttosto, sono conti bancari dove i grandi interessi possono depositare in maniera sicura i trilioni di dollari che hanno ottenuto con la speculazione valutaria, il saccheggio degli investimenti privati, la sottoretribuzione dei lavoratori, il rincaro esponenziale degli affitti e lo smantellamento di ecosistemi complessi per rivenderli come singole parti. Non contano lә abitanti o i loro bisogni, e nemmeno se questi edifici vengono lasciati vuoti per decenni. Così, quando lottiamo per il nostro diritto alla città, ci stiamo scontrando con il capitalismo nel luogo dov’è più forte. Inoltre, i dipartimenti di polizia nelle maggiori città oggi tendono ad essere più grossi, meglio finanziati e più pesantemente armati di quanto gli eserciti nazionali fossero un secolo o due fa. Il fatto che i movimenti urbani decentralizzati possano insorgere e costringere lo stato a piegarsi (Soweto 1986, Amburgo 1987, Cochabamba 2000, El Alto 2003, Parigi 2005 e 2006, Oaxaca City 2006, Atene 2008, Oakland 2009, Tunisi e Il Cairo 2011, Instanbul 2013, San Paolo 2013, Barcellona 2014, Santiago del Cile 2019, Minneapolis 2020, Lagos 2020…) è estremamente significativo, e dovrebbe costituire una considerazione cruciale in qualsiasi strategia attuale per il cambiamento sociale. Tuttavia, le rivolte urbane sono spesso escluse dal dibattito ufficiale, triste e cinica conseguenza del disordine e del sacrificio che comportano- elementi ostili alla cultura e agli interessi di classe degli esperti che controllano il dibattito- e della difficoltà di gestione di questi movimenti. Le ribellioni urbane tendono a spostarsi da singoli punti caldi vertenziali a orizzonti sempre più ampi e rivoluzionari. Gli aspiranti politicanti non riescono a gestire questi movimenti mentre sono attivi; al contrario, la loro principale forma di influenza è la parziale capacità di demobilitazione in cambio di riforme vantaggiose sul breve termine o, se questo fallisce, di fomentare conflitti interni al movimento. Concentrandosi sulle soluzioni tecnologiche o amministrative anziché sulle risposte decentralizzate e spesso combattive che i movimenti sociali stessi continuano a mettere in campo, la maggior parte dellә accademicә e dellә scrittorә del Nord Globale non riesce ad adattare le sue proposte tecnocratiche ai bisogni immediati della sussistenza, della dignità e del controllo diretto delle persone e delle comunità sulla propria vita. Giustizia sociale e decolonizzazione sono diventate ormai parole d’ordine, ma la maggior parte delle persone che oggi sono retribuite per elaborare delle proposte o scrivere in merito al problema manifestano una pratica profondamente coloniale. Fortunatamente, non abbiamo bisogno di loro. Proposte per la dignità, la sopravvivenza e l’autorganizzazione stanno spuntando come funghi dopo la pioggia, trovando origine proprio nelle comunità coinvolte. […] Le tecnologie per trasformare le città in habitat sani esistono già. Non ci mancano gli inventori, ci manca il controllo delle nostre esistenze e dei nostri spazi di vita. Fin quando non potremo organizzare e trasformare in prima persona i nostri quartieri per venire incontro ai nostri bisogni, e distruggere i monopoli che controllano le risorse mondiali- inclusa la proprietà intellettuale- le nuove tecnologie saranno di due tipi: congegni autonomi e di contrabbando sviluppati in situ che sfruttano al massimo risorse scarse; oppure tecnologie ingegnerizzate sviluppate da professionistә, più o meno armatә di buone intenzioni, che non potranno che incrementare le ineguaglianze globali.
Un migliaio di mondi in lotta per nascere
Le lotte e le iniziative descritte in questo libro costituiscono un’ondata rivoluzionaria che può essere rintracciata più o meno in ogni paese del mondo: sono semplicemente una piccola parte di un’estesa rete di blocco, sabotaggio, demolizione, cura, coltivazione, creazione, apprendimento e comunicazione, che rappresenta la speranza più fulgida per il nostro pianeta. È l’unica forza attualmente esistente che va incontro a tutti i seguenti criteri: un’indipendenza strutturale dai corpi responsabili dell’ecocidio e dal capitalismo colonialista; la capacità di costringere lo stato a piegarsi nei conflitti chiave; l’accesso a specifici saperi territoriali necessari per delle risposte reali e sensate alla catastrofe climatica in atto; la tendenza a rompere le barriere e a creare una crescente consapevolezza globale che mette al centro la contezza dell’intersezione di tutte le forme di dominio e di tutte le crisi in atto; l’accesso a tradizioni di organizzazione e relazioni ecosociali che aprono la possibilità di un mondo senza capitalismo, senza ecocidio. Vi prego, non confondete la mia recensione lusinghiera per ottimismo: questa è ancora una battaglia che mette Davide contro Golia, e se dovessimo considerare la crisi ecologica come una scommessa in un casinò- come fanno gli economisti, del resto- allora sarebbe più ragionevole piazzare i nostri soldi in favore delle forze dell’apocalisse. Tuttavia, se scommettiamo le nostre vite- e sono già in gioco, che lo si abbia già compreso o meno- questo network eterogeneo di fallitә rappresenta la nostra miglior speranza. Tutte le altre proposte per rispondere alla crisi ecologica sono delle variazioni della strategia per cui Davide diventa lo scudiero di Golia nella speranza che prima o poi questi inizi ad usare la sua lancia per una buona ragione.
Quali sono i limiti di quest’ondata rivoluzionaria? Il primo limite esterno è rappresentato dall’azione condotta contro di noi dalla controinsurrezione, dai momenti di repressione intensa- tuttә quellә che abbiamo perso, tuttә quellә che si trovano adesso nelle galere per le loro lotte- alla repressione sottile e all’invisibilizzazione a cui partecipano, volenti o nolenti, i gruppi ambientali mainstream, i media e gli esperti. Se almeno qualcunә di quellә che al momento stanno destinando i loro sforzi alla redenzione di Golia deviassero le loro risorse verso il supporto di quest’ondata rivoluzionaria- il che significherebbe anche perdere i loro considerevoli privilegi istituzionali- allora le nostre possibilità aumenterebbero notevolmente. Vi è una carenza di immaginario rivoluzionario, ed manca la consapevolezza che questi movimenti differenti costituiscono i semi per mondi futuri. Essenzialmente, ciò significa sottrarre alle istituzioni dominanti la nostra fiducia residua e credere maggiormente in noi stessә e nel futuro verso cui cerchiamo di andare: è un limite che si sta già superando all’interno di questi stessi movimenti e nelle loro relazioni, e questo libro rappresenta un piccolo sforzo in questa direzione. In altre parole, non è fatale, né insormontabile. C’è un’immagine particolarmente sbagliata che viene usata per liquidare il potenziale rivoluzionario di questa ondata, ed è assolutamente espressione del bisogno delle istituzioni dominanti di monopolizzare l’organizzazione e la risoluzione dei problemi a livello sociale. Si tratta dell’affermazione denigrante che questi movimenti non hanno alcuna soluzione da offrire che sia fattibile su scala rilevante. Per citarne una, Holly Jean Buck caratterizza il fenomeno che Naomi Klein chiama “Blockadia” come “reattivo”. Se questo rifiuto sia il risultato di una lettura errata da parte di Buck o della visione limitata che Klein utilizza per presentare la Blockadia come più appetibile (e la domanda è: appetibile per chi?), non mi soffermerò al riguardo. Tuttavia, mi permetto di osservare che lә espertә sono formatә per silenziare il loro oggetto di studio, quindi sembra parimenti sistematico e sintomatico che, nell’esaminare un fenomeno così ricco, che va dalla resistenza a Standing Rock alla foresta di Hambach, si veda qualcosa di “reattivo”. In ogni caso, la visione più ampia, più globale e meno rispettabile della resistenza che ho cercato di presentare rende chiaro che abbiamo a che fare con qualcosa di intelligente, creativo, strategico, proattivo e con una stramaledetta quantità di proposte che non saranno silenziate. I movimenti e i progetti che formano questa rete globale sono segnati dalla loro eterogeneità, eterodossia e dal semplice e polemico rifiuto di essere facilmente categorizzati. Non credo che si debba dare un nome a questa idra multiteste di resistenza; dopo tutto, un essere con mille teste avrebbe mille nomi diversi per sé stesso. Tuttavia, voglio dare un nome alle caratteristiche comuni nel modo più flessibile possibile, per incoraggiare ciò che vedo come punti di forza e per aiutare più persone a trasformare le proprie attività in modo da essere in grado di connettersi, in modo rizomatico, con questo insieme più grande. Le caratteristiche che seguono non sono contenitori delimitati che possono governare l’inclusione o l’esclusione in un fenomeno delimitato, ma piuttosto sono tensioni che vibrano in tutta la rete.
Territorialità: Una relazione con lo specifico territorio locale costituisce una delle principali fonti di potere per queste lotte e progetti. Elaboriamo le nostre pratiche e storie in dialogo con il territorio cosicché “l’ambiente” non sia uno sfondo inerte o un campo neutro su cui imporre un’ideologia invariante di luogo in luogo. Le lotte di radicamento in un territorio specifico camminano sul filo teso tra due forme di isolamento. Più o meno in ogni lotta, ci saranno persone che si chiudono nel loro territorio, che non cercano un terreno comune con altre lotte o non traggono ispirazione dalle loro esperienze personali che possono avere un significato più esteso, addirittura globale. Dall’altro lato, ci sono quellә che sono alienatә da ogni territorio anche se partecipano all’“attivismo locale”. Questә demarcano linee ideologiche per la solidarietà: alternativamente, circoscrivono la solidarietà alla loro piccola setta, o ricercano i valori del loro gruppuscolo tra tuttә quellә con cui vogliono solidarizzare. Persone del genere sono una parte dell’insieme, e questa è una complicazione per le lotte territoriali, ma anche una forma di apertura, che presenta la possibilità di interconnettere un corpo più ampio di persone.
Ecocentrismo: Sebbene molti di quelli che costituiscono quest’ondata rivoluzionaria stabiliscano come prioritari i bisogni umani, tendiamo a rifiutare la pretesa che questi possano sostenibilmente contraddire, scavalcare o distaccarsi dai bisogni ecologici, e, su un livello o un altro, mettiamo in discussione e rigettiamo le definizioni di umanità che derivano dall’Illuminismo europeo e le dicotomie umano/naturale.
Sopravvivenza: Articoliamo la nostra attività in relazione alle situazioni che ci riguardano direttamente e consideriamo centrale questa lotta come una questione di sopravvivenza, la nostra e quella delle altre persone e forme di vita a cui teniamo. Avere voce in capitolo, tuttavia, non deriva da una competenza o dal riconoscimento istituzionale, ma dall’essere coinvoltә, e dall’impegnarsi in prima persona con il problema e le sue soluzioni.
Legalità: Su un livello più o meno elevato, questi progetti entrano in conflitto con i regimi legali costituiti. Possono cercare attivamente la sovversione e la distruzione dei governi esistenti, possono rivendicare sistemi di diritto tradizionali e indigeni (che paradigmaticamente non hanno nulla in comune con la giurisprudenza punitiva o basata sulla proprietà che ha origine negli stati), o possono cercare il più possibile di passare inosservati o di adattarsi ai regimi legali in vigore, ma considereranno sempre più importanti i bisogni della loro comunità e della terra rispetto all’autorità del governo o alla presunta sacralità della sua legge.
Esistere comunitario: Letture individualizzate o atomizzate degli esseri umani vengono erose a vantaggio di pratiche che enfatizzano e rivitalizzano le relazioni tra le persone (talvolta anche relazioni che rompono la separazione tra umani e altre forme di vita). C’è sempre un elemento di lotta contro le alienazioni imposte dallo stato e dal capitale, e la tendenza a praticare la solidarietà e il mutuo aiuto. Ciò significa che questa rete di resistenza è fondamentalmente creatrice: di differenti relazioni sociali, differenti soggettività, e infrastrutture, pratiche e culture di emancipazione.
Eterogeneità: Come detto, questo “movimento di movimenti”, per usare il termine zapatista, è estremamente eterogeneo. Ciò non significa semplicemente “diverso”, ma che produce costantemente differenze e che non si può sottomettere da un’unità ideologica o culturale. Questa caratteristica saliente rende qualsiasi proposta tecnologica di soluzione della crisi estremamente impotente, il che spiega probabilmente perché i tecnocrati tendono ad ignorare o alternativamente a silenziare i movimenti esistenti quando delineano delle soluzioni. Si noti come questa eterogeneità non è semplicemente una preferenza culturale della rete, ma una caratteristica irrinunciabile della natura situata di questa. Questo è il motivo per cui le ideologie o le tradizioni consolidate di lotta strutturalmente capaci di assumere la diversità piuttosto che l’unità delle pratiche- come lo Zapatismo o l’anarchismo- non potranno mai essere in grado di assorbire tutte le ramificazioni di quest’ondata rivoluzionaria. L’unico motivo per cui queste tradizioni di lotta sono tollerate e incoraggiate all’interno di molte di queste reti risiede precisamente nel fatto che non necessitano ideologicamente di convertire gli altri alla loro forma di pensiero o di raggiungere l’unità teorica.
Intersezionalità: I movimenti che partecipano a quest’ondata tendono a rompere i compartimenti stagni della singola vertenza e invece riconoscono l’interconnessione delle differenti forme di oppressione e, di conseguenza, di solidarietà. Questa intersezionalità ci permette di riconoscerci vicendevolmente anche quando si proviene da luoghi molto differenti e mancano tratti di identificazione comuni. Il processo di riconoscimento, si noti, è conflittuale piuttosto che pacificatore- le persone spesso lottano per essere riconosciuti nei propri termini, lotta che non è resa più semplice dai modi in cui siamo stati differentemente socializzati all’interno dei sistemi di oppressione- il che significa che l’autodefinizione delle lotte è cruciale per la possibilità di solidarizzare attraverso il mondo: viene implicitamente garantita la fiducia di definire la propria oppressione e di condurre le proprie lotte. Questo è un altro affondo letale per qualsiasi pretesa di imporre soluzioni uniformi.
Anticolonialismo: Tutte queste iniziative e movimenti esistono in antagonismo al progetto di sviluppo che è la più attiva manifestazione di colonialismo nell’era del Fondo Monetario Internazionale, della World Trade Organization, delle Nazioni Unite e di tutte le Ong vassalle. Dietro questo rifiuto comune, vi è una grande distanza tra i movimenti compiutamente anticoloniali, i movimenti che identificano il capitalismo come il nemico senza indagare il colonialismo come processo storico ed attuale integrato alla globalizzazione del capitalismo, e persino movimenti che utilizzano la lingua dello sviluppo nel tentativo di guadagnare risorse o legittimità. Persino all’interno di tali correnti, vi sono esperienze molto differenti di colonialismo nel mondo, ma l’eterogeneità della resistenza implica che tali differenze non devono rappresentare un problema. Posso aggiungere che, a dispetto delle ampie diversità di lingua e di obiettivo, le pratiche di questi movimenti aprono la possibilità della complementarietà, e che l’espandersi di una coscienza anticoloniale è una priorità per l’aumento della loro potenza. Credo sia utile rimarcare una distinzione tra “decoloniale” e “anticoloniale”, visto l’utilizzo tutt’altro che univoco di questi termini. La parola chiave più recente, “decoloniale”, è ad oggi frequentemente adoperata nei testi dell’accademia e dei movimenti che non fanno menzione del ripristino delle terre indigene e che non hanno nemmeno la minima decenza di accennare alla possibilità di eliminare gli stati colonizzatori che devono la loro esistenza al colonialismo, come gli Stati Uniti o il Canada. Cosa dovrebbe esattamente significare “decolonizzazione”, se gli esiti e i mezzi del colonialismo possono rimanere intonsi e accettati come eterni? La distinzione che propongo è tra i movimenti che tendono alla riconciliazione e al disarmo, e quelli che intendono distruggere le forze che sono state accettate come universali. Quest’ultimi mantengono viva la speranza di una vittoria che cancelli alcune delle sconfitte degli ultimi 500 anni (o 2000, o più, a seconda del territorio a cui facciamo riferimento).
Autonomia: Chi compone questa rete internazionale può stare tentando attivamente di sovvertire e distruggere lo stato, o potrebbe star cercando uno spazio per respirare dalla repressione dello stato e per portare avanti le proprie attività; qualcuno potrebbe addirittura supportare un governo alternativo che riduca il livello di repressione. Possiamo ritenere che la contesa con lo stato sia centrale per la nostra lotta, o che lo stato svanirà una volta che le persone acquisiranno una qualche forma di autosufficienza economica. Possiamo rifiutare ogni contatto con esso, o possiamo tentare di conquistare l’accesso alle risorse governative. Qualunque sia il caso, una pratica generale di autonomia è ciò che ci consente di cooperare e di formare reti di resistenza coese. Autonomia significa scrivere le nostre regole, prendere le nostre decisioni in maniera indipendente dalla supervisione di un partito o un governo, compiere la decisione definitiva su come usare le nostre risorse, qualunque sia la loro provenienza, praticare l’autorganizzazione ed evitare la centralizzazione del movimento. Se un elemento di questi movimenti mantiene una relazione con un partito politico o il governo, ha cura di non lasciare che questa relazione condizioni la sua attività nel movimento o lo trasformi in una leva attraverso cui il governo e il partito possano esercitare influenza sul movimento; se fallisce nel mantenere uno di questi requisiti minimi, ciò sarà visto collettivamente dal resto del movimento come una violazione della solidarietà. Senza l’autonomia, è impossibile creare un movimento di movimenti, un mondo in cui un migliaio di mondi possono fiorire.
1 Rafa Arques, La Fuerza del Fuego, Editorial Milvus, 2019, 15, 35–38, 43– 44.
2 Arques, La Fuerza, 52–53, 68, 86–87, 90.
3 Randy Shaw, The Activist’s Handbook: A Primer for the 1990s and Beyond, University of California Press, 1996.
4 CrimethInc, “The June 2013 Uprisings in Brazil. Part I,” June 27, 2013. Online here.
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