Il «triangolo del litio» fa gola al mondo
Serena Tarabini, 25.03.2021
Estrazioni. Alternativo al petrolio per i trasporti e considerato un perno della transizione ecologica, il metallo leggero è il nuovo business «verde»
Tra Argentina, Cile e Bolivia si estende un’area desertica destinata ad attrarre sempre di più l’attenzione mondiale: la chiamano «il triangolo del litio», disseminata com’è di saline dove riposano i maggiori depositi di uno dei minerali simbolo dell’immaginario decarbonizzato.
IL LITIO È STATO investito del ruolo di liberarci dalla dipendenza dal petrolio come fonte energetica, almeno nel settore dei trasporti. Le batterie al litio, leggere e durature, alimentano la mobilità del futuro: si usano per biciclette, monopattini, ma anche per macchine e autobus elettrici.
È stato stimato che domineranno il mercato dell’auto elettrica fino al 2030. Il consumo di litio, secondo la Commissione Economica dell’Onu per l’America Latina, è aumentato del 16% nel 2016 e del 60% nel 2017. Un boom spinto dalla necessità di uno scenario prossimo venturo più verde che però per le zone dove viene estratto tanto verde rischia di non essere.
DEPOSITI DI LITIO IN NATURA SI TROVANO anche nelle rocce e ricavarlo, come avviene per esempio in Australia o in Cina, ha un certo costo, sia economico che ambientale. Nelle saline invece il litio viene ricavato semplicemente facendo evaporare l’acqua per mezzo della radiazione solare: niente esplosivi, niente pile di rocce sterili, niente residui tossici. Ma questo non significa che non ci possano essere delle conseguenze. Nonostante l’abbondanza di letteratura scientifica sull’importanza del litio nella transizione ecologica, gli studi sugli impatti a corto e medio raggio della sua estrazione da ecosistemi dinamici e fragili come le saline sono ancora rari. La poca informazione esistente è stata commissionata dalle compagnie estrattive stesse. Come dire, prima viene l’approccio mercantile e poi, forse, quello sostenibile e rispettoso dei diritti delle popolazioni locali.
IL 62% DELLE RISERVE MONDIALI DI LITIO sono rappresentate dalle saline e l’80% di queste riserve si trova nel triangolo. Il minerale è destinato a cambiare le relazioni fra le economie latinoamericane e il mondo globalizzato: le aspettative sono alte ma anche le preoccupazioni; queste aree per quanto desertiche non sono vuote ma abitate da tempo immemore da popolazioni andine di etnia aymaras, quechuas e atakameñas che oltre ai rischi ambientali denunciano la continuazione di un meccanismo di appropriazione estrattivista che allontana le risorse grezze di cui sono ricche le periferie del mondo per generare valore da un’altra parte.
UN MECCANISMO che l’ex presidente boliviano Evo Morales ha cercato di contrastare nazionalizzando le riserve di litio e dando inizio a dei processi di industrializzazione interna. La Bolivia possiede la più grande riserva di litio al mondo: il Salar de Unuy, una gigantesca distesa di sale di 10 mila km. Posto sulle Ande a un’altitudine di 3.600 metri, è un luogo impressionante dove lo scintillio del sale confonde cielo e terra creando un unico manto lattiginoso visibile anche dallo spazio; nel tempo è diventato una visitatissima zona turistica, con tutti i pro e contro che questo significa, ed ora a interferire con i delicatissimi equilibri socio-ecologici di una riserva naturale abitata da comunità indigene è arrivata anche l’estrazione del litio.
SI TROVA NELLO STATO DI POTOSI’, il più povero di un paese fra i più poveri al mondo che fin dall’epoca coloniale ha pagato pegno: da 500 anni la sua montagna, Cerro Rico, è la miniera d’argento più estesa del pianeta, attiva ancora oggi tra lavoro minorile ed incidenti mortali.
Affrancare la Bolivia dal neocolonialismo estrattivo e lanciarla sul mercato del litio, producendoanche batterie e auto elettriche, è stata una delle missioni di Evo Morales. Iniziato formalmente nel 2008 con l’approvazione di un decreto che metteva fine alle concessioni e dichiarava proprietà di stato le evaporiti del Salar di Unuy, il processo è proseguito faticosamente e non senza contraddizioni che hanno suscitato critiche e proteste.
LE PIÙ ACCESE QUELLE DELL’OTTOBRE 2019, nel pieno della campagna presidenziale che vedeva la controversa quarta candidatura di Evo, quando i campesinos e i mineros del Potosì hanno bloccato la regione denunciando che delle risorse stavano approfittando tutti tranne loro. Il fattore scatenante è stato l’ingresso di firme straniere nella compagnia statale Ylb (Yacimientos del Litio Bolivianos), come la società tedesca Aci System, che doveva portare investimenti e tecnologie necessarie per poter produrre le batterie al litio interamente in Bolivia. L’accordo dopo estenuanti trattative, è stato ritirato. In stallo anche i dialoghi con la Cina, la maggior produttrice di auto elettriche al mondo.
IL COLPO DI STATO E LA FUGA di Evo Morales all’estero ha frenato ulteriormente questi processi, e diversi analisti geopolitici non escludono che dietro il colpo di stato ci sia proprio il litio.
Più precisamente gli interessi sul minerale degli Usa. Ad avallare questa versione anche un controverso tweet di commento al golpe di Elon Musk, «noi colpiremo chiunque vogliamo», e le azioni della sua Tesla che sono raddoppiate subito dopo la rinuncia di Morales. Con il ritorno del Movimento al Socialismo alla guida del paese le risorse minerarie rimarranno ai boliviani, ma se e come ne beneficeranno è ancora tutto da vedere; inoltre sono forti le preoccupazioni per la mancanza di valutazione degli impatti ambientali e sociali dell’estrazione e degli impianti di processamento. A differenza di altri depositi, nel Salar di Unuy il litio deve essere separato da un altro minerale, il magnesio, e le popolazioni indigene che vi abitano, oltre a vedere profanato un luogo sacro, temono la riduzione della già scarsa disponibilità di acqua potabile.
QUESTE PREOCCUPAZIONI SONO LE STESSE che attraversano il Cile e Argentina, paesi che hanno dato inizio allo sfruttamento del litio in Sudamerica fin dagli anni ’80. In Cile un’intensa attività mineraria ha già provocato nel tempo la perdita di luoghi come il Salar di Punta Negra, prosciugato dopo che per anni compagnie straniere hanno pompato 1.400 litri di acqua al secondo per estrarre rame, mentre le comunità residenti avevano diritto solo a 1.5 lt/s. Il boom del litio ora fa temere per il Salar di Atacama, il deserto più arido del mondo, dove operano la Società Chimica del Cile, una compagnia inizialmente statale poi privatizzata durante la dittatura, e la compagnia americana Albermarle. Produrre una tonnellata di litio consuma di massima due milioni di litri di acqua: come denuncia il consiglio delle comunità di Atacama, non è mai stato condotto nessuno
studio su quanta acqua verrebbe effettivamente prelevata e che effetto avrebbe sul deserto.
COME PER IL CILE, ANCHE IN ARGENTINA, dove operano principalmente imprese straniere, la questione è l’accesso all’acqua. Ci sono già due centri produttivi, Salinas Grandes y Laguna de Guayatayoc e numerosi processi in fase di sviluppo. Contro uno di questi in particolare si è costituito il collettivo locale Apacheta, animato da indios allevatori di lama e capre, per denunciare la violazione del loro diritto a un consenso previo e informato a un progetto che rischia di lasciarli a secco in una zona che è già molto arida.
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