“Insegnare a trasgredire” in ricordo di bell hooks
Riportiamo alcune parti dell’introduzione a “Insegnare a trasgredire” una delle opere di bell hooks, scrittrice e attivista afroamericana che ha tracciato alcune linee fondamentali del pensiero e della pratica femminista, anticoloniale e antirazzista in una costante lotta per ribaltare il potere del sistema dominante.
[…] Fin dall’infanzia, ero convinta che avrei insegnato e scritto. Scrivere sarebbe stato il lavoro importante, insegnare invece il lavoro “non-tanto-importante-ma-necessario-per-vivere”. Scrivere, questa era la mia convinzione di allora, aveva a che fare con il desiderio intimo e la gloria personale, mentre l’insegnamento riguardava il servizio, la restituzione alla propria comunità. Per i neri, l’insegnamento – l’educazione – era fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come rivoluzione.
Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare studiosi, pensatrici e operatori culturali – persone nere capaci di usare la “testa”. Comprendemmo presto che la nostra devozione verso l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale. […]
Per portare a termine questa missione, si assicuravano di “conoscerci”. Conoscevano i nostri genitori, il nostro status economico, quale chiesa frequentassimo, le nostre case e come venivamo trattati in famiglia. […] Frequentare la scuola era, quindi, gioia pura. Amavo studiare, adoravo imparare. La scuola era il luogo dell’estasi: piacevole e pericolosa. Sentirmi trasformata dalle idee era piacere puro, ma scoprire idee contrarie ai valori e alle credenze apprese nell’ambito domestico significava accettare il rischio, addentrarsi in una zona pericolosa. La casa era il luogo in cui ero costretta a conformarmi all’immagine di qualcun altro su chi e cosa avrei dovuto essere. La scuola era il luogo in cui potevo dimenticare quell’io e, attraverso le idee, reinventarmi.
Con l’integrazione razziale, la scuola cambiò completamente. Lo zelo messianico, teso a trasformarci e a plasmare le nostre menti – che aveva caratterizzato le nostre insegnanti e le loro pratiche pedagogiche nelle scuole per neri – era finito. Improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente interpretata come una minaccia all’autorità bianca.
Il nostro ingresso nelle scuole razziste, desegregate e bianche ha segnato l’abbandono di un mondo in cui le insegnanti erano convinte che per educare i giovani neri nel modo più giusto fosse necessario l’impegno politico. Adesso invece avevamo per lo più insegnanti bianchi, le cui lezioni rafforzavano gli stereotipi razzisti. Per i giovani neri, l’educazione non riguardava più la pratica della libertà. Quando me ne resi conto, il mio amore per la scuola finì. L’aula non era più un luogo di piacere o estasi. La scuola restava in ogni caso un luogo politico, dal momento che dovevamo continuamente contrastare i pregiudizi razzisti dei bianchi che ci consideravano geneticamente inferiori, mai capaci come i nostri coetanei bianchi – persino incapaci di imparare. Tuttavia, la nostra politica non era più contro-egemonica. Non facevamo che reagire e contrastare la gente bianca.
Passare dalle amatissime scuole per neri alle scuole bianche – in cui gli studenti neri erano sempre considerati intrusi, mai membri a tutti gli effetti – mi ha insegnato la differenza tra l’educazione come pratica della libertà e l’educazione che si sforza semplicemente di rafforzare il dominio. […] Nonostante queste esperienze fortemente negative, mi sono diplomata con la ferma convinzione che l’istruzione sia in grado di valorizzare la nostra capacità di essere persone libere. Quando cominciai a studiare all’Università di Stanford, rimasi affascinata dalla possibilità di diventare un’intellettuale nera ribelle. Fu, allo stesso tempo, una sorpresa e uno choc sedere in classi in cui i professori non erano entusiasti dell’insegnamento e non sembravano avere la minima idea che l’educazione riguardasse la pratica della libertà. Negli anni universitari, l’unica lezione importante era sempre la stessa: dovevamo imparare l’obbedienza all’autorità.
Alla scuola di specializzazione l’aula era diventata un posto che odiavo, ma in cui lottavo per rivendicare e mantenere il diritto a essere una pensatrice indipendente. L’università e l’aula iniziarono a somigliare più a un carcere, a un luogo di punizione e di prigionia, piuttosto che a un luogo di promesse e possibilità. […] Nell’accettare la professione di insegnante come destino, ero tormentata dalla realtà delle lezioni che avevo seguito sia come studente universitaria che come specializzanda. Alla stragrande maggioranza dei nostri professori mancavano le competenze di base della comunicazione, non si sentivano realizzati e spesso usavano la classe per inscenare rituali di controllo che riguardavano il dominio e l’esercizio ingiusto del potere. In questi contesti ho imparato molto sul tipo di insegnante che non volevo diventare.
Alla scuola di specializzazione ero spesso annoiata in classe. L’educazione depositaria (basata sul presupposto che memorizzare informazioni e rigurgitarle rappresenti l’acquisizione di conoscenze, che sono dunque depositate, archiviate e utilizzate in un secondo momento) non mi interessava. Volevo diventare una pensatrice critica. Tuttavia quel desiderio era spesso considerato una sfida all’autorità. […]
La mia reazione allo stress, alla noia costante e all’apatia che pervadevano le lezioni era quella di immaginare i modi in cui l’insegnamento e l’esperienza di apprendimento avrebbero potuto essere diversi. Nel lavoro del pensatore brasiliano Paulo Freire, la mia prima introduzione alla pedagogia critica, ho trovato un mentore e una guida, qualcuno che comprendeva il potenziale liberatorio dell’apprendimento. Attraverso i suoi insegnamenti, e la mia crescente comprensione del potere derivante dall’educazione che avevo ricevuto nelle scuole del Sud per neri, ho iniziato a sviluppare il progetto della mia pratica pedagogica. Già profondamente coinvolta dal pensiero femminista, non ebbi difficoltà a sottoporre il lavoro di Freire a quella critica. Ero convinta che il mio mentore e guida (che non avevo mai conosciuto dal vivo), se davvero credeva nell’educazione come pratica della libertà, avrebbe incoraggiato e sostenuto la sfida che avevo lanciato alle sue idee. Allo stesso tempo, utilizzai i suoi paradigmi pedagogici per criticare i limiti delle lezioni femministe.
Nel corso dei miei anni di studi universitari e di specializzazione, solo le docenti bianche venivano coinvolte nello sviluppo di programmi di Women’s Studies. E anche se la mia prima lezione da studente laureata verteva sulle scrittrici nere da una prospettiva femminista, era nel contesto di un corso di Black Studies. A quel tempo, compresi che le docenti bianche non erano desiderose di coltivare l’interesse delle studenti nere per il pensiero femminista e le relative borse di studio, soprattutto se quell’interesse includeva una sfida critica. Tuttavia la loro mancanza di interesse non mi hai mai scoraggiato dall’abbracciare idee femministe o dal partecipare alle lezioni sul femminismo. Quelle aule erano l’unico spazio in cui venivano messe in discussione le pratiche pedagogiche, dove si supponeva che le conoscenze offerte alle studenti le avrebbero aiutate a diventare studiose migliori, a vivere più pienamente nel mondo oltre l’accademia. L’aula femminista era l’unico spazio in cui ogni studente poteva sollevare domande critiche sul processo pedagogico. […]
Quando misi piede nella mia prima aula universitaria per insegnare, decisi di seguire l’esempio delle appassionate insegnanti nere della mia scuola elementare, del lavoro di Freire e del pensiero femminista della pedagogia radicale. Desideravo ardentemente insegnare in maniera differente da come mi era stato inculcato fin dalle superiori. Il primo paradigma che ha plasmato la mia pedagogia è stata l’idea che l’aula dovesse essere un luogo eccitante, mai noioso. E se la noia avesse prevalso, allora erano necessarie strategie pedagogiche capaci di intervenire, alterare, addirittura distruggere l’atmosfera. Né il lavoro di Freire né la pedagogia femminista hanno analizzato la nozione del piacere in classe. L’idea che l’apprendimento debba essere eccitante, a volte persino “divertente”, è stato oggetto di discussioni critiche da parte degli educatori che si occupano di pratiche pedagogiche nelle scuole elementari e talvolta persino nelle scuole superiori, ma non sembrava esserci alcun interesse tra gli educatori tradizionali o radicali nel discutere il ruolo dell’eccitazione nell’istruzione superiore.
[…] Entrare nelle classi scolastiche e universitarie con la volontà di condividere il desiderio di incoraggiare l’eccitazione, significava trasgredire. Questo approccio non solo richiedeva di superare i confini fissati, ma l’eccitazione non si poteva generare senza il pieno riconoscimento del fatto che non poteva esistere un’agenda immutabile, capace di regolare le pratiche di insegnamento. I programmi dovevano essere flessibili, consentire cambi di direzione spontanei. Gli studenti dovevano essere considerati nelle loro peculiarità di individui (ispirandomi alle strategie con cui i miei insegnanti delle scuole elementari arrivavano a conoscerci profondamente) e l’interazione doveva necessariamente partire dalle loro esigenze (in questo caso, l’utilità del pensiero di Freire era palese). […]
Tuttavia, l’esaltazione intellettuale non è sufficiente a creare un processo di apprendimento coinvolgente. […] Prima di tutto chi insegna deve valorizzare realmente l’importanza della presenza di ognuno. Ci deve essere un riconoscimento continuo di come ogni persona influenzi la dinamica della classe, e contribuisca al processo di apprendimento. Questi contributi sono risorse. Utilizzati in modo costruttivo, aumentano la capacità di ogni classe di creare una comunità aperta di apprendimento. Spesso, prima che questo processo possa iniziare, deve aver luogo la decostruzione della nozione tradizionale secondo cui solo chi insegna è responsabile delle dinamiche della classe. […] È difficile che un docente, per quanto eloquente, riesca a generare attraverso le sue azioni uno stimolo abbastanza intenso tale da creare un ambiente scolastico entusiasmante. L’entusiasmo è generato dallo sforzo collettivo.
Considerare l’aula un luogo comunitario aumenta le possibilità di riuscita dello sforzo collettivo volto a creare e sostenere una comunità di apprendimento. In un’occasione ebbi una classe molto difficile, che fallì completamente in quanto comunità. Per l’intero semestre, fui convinta che il principale inconveniente che inibiva lo sviluppo di una comunità di apprendimento fosse che la lezione era programmata al mattino presto, prima delle nove. Quasi sempre, almeno un terzo, se non metà, della classe non era completamente sveglia. […] L’orario fu solo uno dei fattori che impedirono a questa classe di diventare una comunità di apprendimento. Per ragioni che non so spiegare, era anche piena di studenti “resistenti” che non volevano apprendere nuovi processi pedagogici, che non desideravano essere in una classe diversa dalla norma. Per questi studenti, trasgredire i confini era spaventoso. E sebbene non fossero la maggioranza, la loro strenua resistenza sembrava essere assai più potente di qualsiasi volontà di apertura intellettuale e piacere nell’apprendimento. Più di qualsiasi altra classe alla quale ho insegnato, questa mi ha costretto ad abbandonare l’idea che chi insegna possa, per pura forza di volontà e desiderio, rendere la classe una comunità stimolante e istruttiva.
Prima di questo corso, ero convinta che Insegnare a trasgredire sarebbe stato una raccolta di saggi principalmente rivolto agli insegnanti. Alla fine delle lezioni, ho iniziato a scrivere con la consapevolezza che mi stavo rivolgendo a entrambi, studenti e docenti. […] Le mie pratiche pedagogiche sono emerse dalle interazioni illuminanti di pedagogie anticoloniali, critiche e femministe. Questa combinazione complessa e unica di molteplici punti di vista ha rappresentato una prospettiva coinvolgente e potente con cui lavorare, che mi ha permesso di superare confini, di immaginare e mettere in atto pratiche pedagogiche utili a mettere in discussione, senza mezzi termini, i pregiudizi che rinforzano i sistemi di dominio (come il razzismo e il sessismo) nei programmi di studio, fornendo contemporaneamente nuovi modi di insegnare a gruppi di studenti differenti.
In questo libro condivido approfondimenti, strategie e riflessioni critiche sulla pratica pedagogica. Considero questi saggi alla stregua di un intervento capace di contrastare la svalutazione dell’insegnamento, anche se affrontano la necessità urgente di cambiarne le pratiche. Devono servire come commenti costruttivi, pieni di speranza ed esuberanti, e trasmettere il piacere e la gioia che provo a insegnare; questi saggi sono celebrativi! Sottolineano che il piacere dell’insegnamento è un atto di resistenza che contrasta la noia opprimente, il disinteresse e l’apatia che così spesso caratterizzano il modo in cui docenti e studenti considerano l’insegnamento, l’apprendimento e l’esperienza in classe.
Ogni saggio affronta temi comuni che emergono ciclicamente nelle discussioni sulla pedagogia, offrendo modi di ripensare le pratiche di insegnamento e strategie costruttive per migliorare l’apprendimento. […] Anche se condivido alcune strategie, questi saggi non offrono schemi utili a rendere la classe un luogo di apprendimento entusiasmante. Farlo minerebbe l’insistenza sul fatto che la pedagogia impegnata riconosce ogni classe come diversa, che le strategie devono essere costantemente modificate, inventate, riconcettualizzate per affrontare ogni nuova esperienza di insegnamento.
L’insegnamento è un atto performativo. Ed è l’aspetto del nostro lavoro che dà spazio al cambiamento, all’invenzione, ai mutamenti spontanei, e può fungere da catalizzatore per far emergere gli elementi unici di ogni classe. Per abbracciare l’aspetto performativo dell’insegnamento, siamo costretti a coinvolgere il “pubblico”, a considerare la questione della reciprocità. Chi insegna non è un “interprete” nel senso tradizionale della parola, in quanto il nostro lavoro non vuole essere uno spettacolo. Tuttavia, è destinato a fungere da catalizzatore, a invogliarci a essere sempre più coinvolti, a diventare partecipanti attivi dell’apprendimento.
Così come il modo in cui eseguiamo il nostro spettacolo cambia, anche la nostra idea di “voce” dovrebbe cambiare. Nella vita quotidiana parliamo in modi differenti a persone differenti, e comunichiamo meglio quando scegliamo un modo di parlare informato dalla particolarità e unicità di coloro con cui parliamo. In linea con questo spirito, questi saggi non suonano tutti uguali. Riflettono il mio sforzo di usare il linguaggio per parlare a contesti specifici, così come il mio desiderio di comunicare con un pubblico diversificato. Per poter insegnare nelle diverse comunità non devono cambiare solo i nostri paradigmi, ma anche il modo in cui pensiamo, scriviamo, parliamo. La voce impegnata non deve mai essere fissa e assoluta: deve cambiare costantemente, evolversi nel dialogo con un mondo al di là di sé.
Questi saggi riflettono la mia esperienza di discussioni critiche con docenti, studenti e individui che hanno assistito alle mie lezioni. Sono pensati per essere testimonianza dell’educazione come pratica della libertà. […] L’istruzione è gravemente in crisi. Gli studenti spesso non vogliono imparare e gli insegnanti non vogliono insegnare. […] Con questi saggi, la mia voce si unisce alla richiesta collettiva di rinnovamento e svecchiamento delle nostre pratiche di insegnamento, esortando tutte e tutti noi ad aprire le nostre menti e i nostri cuori, in modo da sviluppare una conoscenza che vada al di là dei confini di ciò che è considerato accettabile. Celebro l’insegnamento che rende possibili le trasgressioni – un movimento contro e oltre i confini – per poter pensare, ripensare e creare nuove visioni. È quel movimento che rende l’educazione la pratica della libertà.
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