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La mobilitazione femminista in Cile e le sfide del femminismo intersezionale

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Pubblichiamo la traduzione di un articolo uscito sul sito femminista argentino macha.org sulla Ola Feminista cilena che dal 17 aprile, con l’occupazione dell’Universidad Austral nel sud del Cile, ha visto un crescendo di mobilitazioni in tantissime città del paese. Il 25 maggio è stata occupata con numeri altissimi la sede centrale della Universidad Cátolica di Santiago del Cile e per il 6 giugno il movimento ha lanciato un corteo nazionale antisessista.

Da diverse settimane, il Cile è scosso da quella che molti hanno qualificato come la mobilitazione femminista più importante dagli anni settanta in poi. In seguito a varie denunce di molestie sessuali in prestigiose università del paese, le studentesse hanno deciso di sospendere le proprie attività accademiche o di occupare le università per esigere un cambiamento del sistema educativo. Ad oggi, più di una decina di università e licei hanno aderito al movimento.

Queste mobilitazioni sono emerse dopo anni di lavoro da parte delle femministe nelle università, impegnate nella creazione di reti di appoggio alle vittime della violenza machista e di protocolli contro gli abusi e le molestie sessuali. Già nel movimento studentesco del 2011, che fu la più grande mobilitazione sociale dal ritorno della democrazia, le studentesse sottolineavano l’importanza di una istruzione femminista e antisessista. A questa organizzazione lenta e progressiva, si sono aggiunti due elementi detonatori.

Il primo riguarda la Facoltà di Scienze della Universidad Austral, dove, in seguito a un’accusa di molestie fatta da una funzionaria dell’università, il rettore decise meramente di trasferire il professore accusato. In precedenza, un’investigazione interna e l’ispettorato del lavoro avevano confermato che si trattasse di un caso di “grave molestia sessuale” e di “acoso ambiental” (dal punto di vista giuridico si tratta delle molestie legate agli ambienti lavorativi, ndt), raccomandando il licenziamento del colpevole. Di fronte a tale situazione, la comunità accademica si organizzò per opporsi alla decisione del rettore, che dovette fare marcia indietro e licenziare il professore. Il secondo caso riguarda la studentessa della Facoltà di Diritto della Universidad de Chile che denunciò per abusi sessuali il prestigioso professore Carlos Carmona, ex presidente del Tribunale Costituzionale del paese. Il ritardo nelle indagini e l’assenza di misure per proteggere la studentessa provocarono la mobilitazione delle sue compagne, che si opposero alla permanenza del professore nelle sue funzioni di docente durante l’investigazione.

A poco a poco, ulteriori casi di molestie e abusi sono emersi tramite le denunce di studentesse nei confronti di colleghi e docenti. Tristemente celebre è la raccolta di storie di studentesse della Facoltà di Diritto della Pontificia Universidad Católica de Chile, dove alcuni professori hanno sostenuto in cattedra, per esempio, che le donne non vanno all’università per studiare ma per cercar marito, o si sono sentiti liberi di commentare le scollature delle studentesse («Lei è venuta a fare un esame orale o a farsi mungere?»).

Gli scioperi e le occupazioni si sono così diffusi in tutto il paese, spingendo la questione al centro del dibattito pubblico, come dimostrato dal gigantesco corteo contro l’istruzione sessista del 16 maggio e dall’ingresso delle discussioni sul femminismo in spazi prima ermeticamente chiusi come le trasmissioni televisive mainstream.

Le studentesse rivendicano, tra l’altro, la rapida risoluzione dei casi di molestie e abusi sessuali ancora aperti, la elaborazione di un protocollo unico per la gestione delle denunce in ambito educativo, la fine della segregazione di genere nei licei pubblici dove essa è ancora in vigore, un’educazione sessuale anti-sessista, corsi di femminismo e studi di genere per studenti, docenti e funzionari. In sintesi, le studentesse ritengono che l’elaborazione e l’approvazione di protocolli contro gli abusi attacchino la punta dell’iceberg di un paradigma che è necessario stravolgere, poiché non si tratta solo dei molestatori ma di tutta la comunità. Per questo esigono una scuola pubblica, femminista e anti-sessista.

Le sfide del movimento femminista

Il movimento femminista comincia già a mostrare risultati e proprio per questo emergono importanti sfide, una di queste è dare contenuto a ciò che intendiamo con “femminismo”, nel modo più chiaro possibile. Secondo le autrici del presente articolo, che combattono il patriarcato dall’interno di un movimento politico misto che si pone l’obiettivo di costruire un’alternativa politica nel paese, tale sfida è estremamente ambiziosa, perché nella nostra diagnosi il patriarcato non è l’unica forma di oppressione. Stando così le cose, e dato che la struttura e i fini della nostra organizzazione ci spingono a pensare in modo olistico, sosteniamo che il femminismo sia resistenza a ogni forma di oppressione e che perciò debba essere necessariamente intersezionale.

Il patriarcato opprime perché ci educa dall’infanzia attraverso le nostre famiglie, i nostri quartieri, le nostre scuole, sui ruoli che ci si aspetta da noi in quanto “donne” e “uomini”. In quest’ordine, si nascondono le forme d’oppressione che poi riprodurremo nei luoghi dove viviamo, lavoriamo e passiamo il nostro tempo libero. Ma in tale processo, il patriarcato non agisce solo, e perciò il nostro femminismo è intersezionale. Questo significa che le riflessioni e le proposte femministe devono giocoforza ed esplicitamente tenere presente che l’oppressione non è determinata solo dal genere e dall’orientamento sessuale, ma anche dalla classe sociale. Nessuno può negare che storicamente le donne povere siano state le più marginalizzate, e per analizzare adeguatamente quest’oppressione è indispensabile considerare anche se fossero lesbiche e/o trans o se avessero subito omofobia o transfobia. A questo si aggiungono l’etnia, la razza e la nazionalità, che contribuiscono a determinare l’esperienza di oppressione nel corso della vita delle persone. La lista non è breve e il grado di importanza di questi fattori non può essere misurato matematicamente, influiscono anche disabilità, età, obblighi a seguire (o a non seguire) una religione, tra le altre cose.

Una seconda sfida riguarda le lezioni che dobbiamo imparare all’interno del movimento stesso, nelle università e nelle strutture che lo compongono, per organizzare le nostre vite e la nostra militanza in modo intersezionale. Se la repressione è sistematica e intersezionale, la resistenza dev’esserlo ugualmente. In questo percorso, nessuno è di troppo e tutti e tutte sono chiamati/e a impegnarsi. Come è necessario denunciare l’oppressione per renderla visibile, lo è anche lavorare insieme nonostante le difficoltà di farlo nella coscienza di tale oppressione. Nessuno sforzo per (ri)costruire la nostra determinazione è invano, perché la soluzione sta nell’unirci in un solo cammino di trasformazione femminista.

In quanto femministe, ci troviamo di fronte alla sfida di organizzarci in un contesto dominato dalle regole culturali del patriarcato. È imprescindibile rivendicare con forza l’applicazione dei protocolli contro le molestie, valorizzare il contributo che apportiamo alle nostre strutture, sostenere leadership femminili e femministe, ripensare le nostre modalità di sostegno alle leadership maschili, favorire la partecipazione politica di coloro che devono farsi carico del lavoro domestico e rafforzare l’apprendimento del rispetto e della fiducia tra compagni e compagne. A nessuno fa male una lezione di antisessismo e le organizzazioni politiche non fanno eccezione. Se ci siamo date obiettivi ambiziosi, come quello di costruire un’alternativa politica per il Cile che sia femminista e intersezionale, dobbiamo fare il possibile per lavorare collettivamente. Le studentesse cilene ci stanno mostrando il cammino, dobbiamo solo metterci in marcia.

Traduzione a cura di globalproject.info

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