Le radici della rivoluzione delle donne curde
In un momento in cui l’attivismo del popolo curdo è diventato centrale nel dibattito internazionale, soprattutto in relazione alla lotta contro lo Stato islamico in Iraq e Siria, dovrebbe essere imprescindibile analizzare le radici del coinvolgimento femminile all’interno del movimento curdo e l’impatto di questo fenomeno sulla realtà curda nel suo complesso. Per ragioni di sintesi e a causa di una maggiore disponibilità di fonti, l’analisi si concentrerà sulle radici storiche ed ideologiche del movimento delle donne curde in Turchia e, in particolare, sulla storia dei militanti politiche del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Un attento esame della letteratura in materia evidenzia, infatti, la leadership delle donne curde in Turchia nella creazione di una specifica teoria della liberazione delle donne. Mutuando parte della tradizione socialista, questa teoria ha subito numerose trasformazioni dovute alla compenetrazione tra teoria generale e realtà locale riuscendo a delineare un processo di empowerment femminile dai caratteri peculiari.
Per una corretta comprensione di queste dinamiche è, quindi, necessario guardare alle contingenze storiche e sociali alla base di questa esperienza. All’inizio del secolo scorso, la liberazione delle donne è stata utilizzata come strumento per subordinarle alla nazione turca. I generali turchi si sono appellati alle donne turche formalmente “emancipate” dallo Stato per evidenziare il divario tra modernità turca e sottosviluppo curdo. Quando migliaia di donne curde hanno iniziato ad allargare le fila del PKK e del suo esercito di guerriglia nel 1990, la Turchia ha lanciato una vasta offensiva contro le guerrigliere. Mentre gli uomini venivano etichettati come terroristi, il nazionalismo ufficiale ha ridotto le donne a prostitute. In una prospettiva patriarcale, le donne non potevano essere considerate terroriste e la loro ribellione contro l’indivisibilità della nazione turca doveva essere degradata in termini sessisti.
Parallelamente, gli stessi nazionalisti curdi hanno impedito l’evoluzione di un movimento femminile indipendente. Anche se, nel corso della sua storia, la società curda è stata principalmente dominata da figure maschili, sono presenti diversi esempi di donne che hanno raggiunto posizioni rilevanti all’interno della comunità. Molti autori curdi hanno interpretato questi casi come prova della posizione di rispetto detenuta da donne e come esempi di una lunga tradizione di parità. I nazionalisti curdi hanno contribuito alla diffusione di tali stereotipi per diversi motivi, ma principalmente per sottolineare le comuni radici culturali tra Occidente e società curda e ottenere consenso per il proprio movimento di liberazione nazionale. Con lo sguardo rivolto alla tradizione, i partiti nazionalisti hanno, così, posticipato l’emancipazione femminile, promuovendo il mito di un’ancestrale libertà delle donne curde.
L’azione dello Stato turco e l’attività dei nazionalisti curdi sono state strettamente interconnesse. Lo Stato turco ha adottato una politica aggressiva di assimilazione nei confronti dei curdi e la reazione dei nazionalisti curdi è stata di forte aderenza alle tradizioni. Questo meccanismo di difesa sociale ha rafforzato la sottomissione delle donne trasformandole in simboli dell’identità curda contro il controllo imperialista della Turchia. Le donne, nella quasi totalità analfabete, parlavano curdo a casa perché era l’unica lingua che conoscevano ed hanno, in questo modo, preservato la memoria storica del proprio popolo. A causa di questa condizione, le donne curde, da un lato, sono state meno soggette alle politiche di assimilazione degli Stati e, dall’altro, hanno avuto un ulteriore stimolo alla mobilitazione. Nel conflitto hanno, dunque, trovato la possibilità di cambiare la loro condizione, anche nei confronti dei propri uomini.
In questo senso è necessario sottolineare che, in una società ancora fortemente patriarcale, la condizione delle donne militanti è considerata da molti analisti, diversa rispetto a quella vissuta della popolazione femminile curda nel suo complesso. Gli strumenti dell’emancipazione sono stati il coinvolgimento politico e militare di queste donne. Il PKK ha, dunque, segnato una significativa rottura con il passato, mobilitando attivamente le donne e, allo stesso tempo, il braccio armato del PKK, il ARGK, ha, fin dal principio, reclutato un significativo numero di giovani donne combattenti. Nei campi di addestramento le donne lavoravano e combattevano al fianco e al pari degli uomini, a volte diventando comandanti militari. Benché le donne siano rimaste quasi totalmente assenti nei livelli più alti dell’organizzazione, la loro partecipazione alla lotta ha posto una sfida alla predominanza maschile sia all’interno del Partito sia nella società. Attraverso l’educazione politica costante in cui i militanti sono formati e attraverso la vita in comunità, il PKK ha, così, creato i presupposti per un cambiamento, in primo luogo individuale.
Gli anni successivi al colpo di stato militare del 1980 hanno, però, cambiato anche l’approccio delle donne curde non-militanti rispetto al PKK. La detenzione di migliaia di uomini curdi ha costretto molte donne ad assumere un ruolo più attivo nella famiglia e nella società. Non solo hanno dovuto prendersi cura della loro famiglia, ma sono state obbligate ad imparare come relazionarsi con la burocrazia dei sistemi giudiziari e delle carceri turche In una società in cui la stragrande maggioranza delle giovani donne non aveva un’istruzione superiore ed era forte l’incidenza di matrimoni precoci, unirsi al PKK ha rappresentato, per molte di loro, una concreta alternativa al ruolo tradizionale. Allo stesso tempo, però, il rischio di incorrere in altri tipi di rapporti ineguali e dei ruoli stereotipati era comunque presente. Benché le donne abbiano ricoperto un ruolo fondamentale nella definizione del proprio ruolo nella società, il loro percorso di emancipazione è stato spesso considerato secondario rispetto alla lotta per la liberazione nazionale.
In questa prospettiva alcuni analisti hanno affermato che il femminismo curdo ha svolto un mero ruolo di supporto rispetto al più vasto nazionalismo curdo. In questo senso le donne sarebbero state “autorizzate” a combattere per i propri diritti solo laddove questo processo poteva portare dei benefici per la realizzazione del progetto nazionale curdo. Questo argomento può essere considerato in parte corretto, ma è necessario evidenziare che la partecipazione alla lotta di liberazione nazionale ha, parallelamente, creato il contesto necessario e fornito gli strumenti per un processo di emancipazione e di ridefinizione del ruolo femminile nella società. Nel 1987, consapevoli della gravità di questo problema, le donne curde hanno fondato il YJWK (Unione Patriottica delle donne del Kurdistan). Questo atto è stata la prima dichiarazione di intenti nella prospettiva di un’organizzazione indipendente delle donne. Allo stesso tempo, mentre il numero delle guerrigliere aumentava, lo sviluppo di una organizzazione militare femminile si è resa necessaria.
Nel 1993, per la prima volta, sono state formate unità di sole donne. In questo modo, le donne non erano più sottoposte ad una linea di comando esclusivamente maschile. Tuttavia questo non era sufficiente e tutti questi progressi non hanno permesso di superare completamente la struttura patriarcale. Così il movimento delle donne è stato rinnovato più volte fino alla fondazione della KJB (Consiglio superiore delle donne) nel 2005. In questo modo, le donne del Kurdistan hanno creato la loro organizzazione ombrello. Questo sistema è costituito da quattro componenti fondamentali: il movimento ideologico delle donne, PAJK, il movimento sociale delle donne, YJA, le forze di autodifesa femminili YJA-STAR e l’organizzazione delle giovani donne. Il processo è stato molto lungo e la strada da fare per giungere ad una reale parità anche all’interno dei gruppi militanti non è ancora finita, ma molti passaggi sono stati fatti. La costruzione di gruppi politici e militari esclusivamente femminili, l’istituzione di case delle donne e centri di sostegno contro la violenza di genere, una formazione specifica per donne e uomini sul rifiuto del patriarcato e l’eliminazione della violenza maschilista nelle relazioni sono solo alcuni di questi passaggi.
In un momento in cui l’attivismo del popolo curdo è diventato centrale nel dibattito internazionale, soprattutto in relazione alla lotta contro lo Stato islamico in Iraq e Siria, dovrebbe essere imprescindibile analizzare le radici del coinvolgimento femminile all’interno del movimento curdo e l’impatto di questo fenomeno sulla realtà curda nel suo complesso. Per ragioni di sintesi e a causa di una maggiore disponibilità di fonti, l’analisi si concentrerà sulle radici storiche ed ideologiche del movimento delle donne curde in Turchia e, in particolare, sulla storia dei militanti politiche del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Un attento esame della letteratura in materia evidenzia, infatti, la leadership delle donne curde in Turchia nella creazione di una specifica teoria della liberazione delle donne. Mutuando parte della tradizione socialista, questa teoria ha subito numerose trasformazioni dovute alla compenetrazione tra teoria generale e realtà locale riuscendo a delineare un processo di empowerment femminile dai caratteri peculiari.
Per una corretta comprensione di queste dinamiche è, quindi, necessario guardare alle contingenze storiche e sociali alla base di questa esperienza. All’inizio del secolo scorso, la liberazione delle donne è stata utilizzata come strumento per subordinarle alla nazione turca. I generali turchi si sono appellati alle donne turche formalmente “emancipate” dallo Stato per evidenziare il divario tra modernità turca e sottosviluppo curdo. Quando migliaia di donne curde hanno iniziato ad allargare le fila del PKK e del suo esercito di guerriglia nel 1990, la Turchia ha lanciato una vasta offensiva contro le guerrigliere. Mentre gli uomini venivano etichettati come terroristi, il nazionalismo ufficiale ha ridotto le donne a prostitute. In una prospettiva patriarcale, le donne non potevano essere considerate terroriste e la loro ribellione contro l’indivisibilità della nazione turca doveva essere degradata in termini sessisti.
Parallelamente, gli stessi nazionalisti curdi hanno impedito l’evoluzione di un movimento femminile indipendente. Anche se, nel corso della sua storia, la società curda è stata principalmente dominata da figure maschili, sono presenti diversi esempi di donne che hanno raggiunto posizioni rilevanti all’interno della comunità. Molti autori curdi hanno interpretato questi casi come prova della posizione di rispetto detenuta da donne e come esempi di una lunga tradizione di parità. I nazionalisti curdi hanno contribuito alla diffusione di tali stereotipi per diversi motivi, ma principalmente per sottolineare le comuni radici culturali tra Occidente e società curda e ottenere consenso per il proprio movimento di liberazione nazionale. Con lo sguardo rivolto alla tradizione, i partiti nazionalisti hanno, così, posticipato l’emancipazione femminile, promuovendo il mito di un’ancestrale libertà delle donne curde.
L’azione dello Stato turco e l’attività dei nazionalisti curdi sono state strettamente interconnesse. Lo Stato turco ha adottato una politica aggressiva di assimilazione nei confronti dei curdi e la reazione dei nazionalisti curdi è stata di forte aderenza alle tradizioni. Questo meccanismo di difesa sociale ha rafforzato la sottomissione delle donne trasformandole in simboli dell’identità curda contro il controllo imperialista della Turchia. Le donne, nella quasi totalità analfabete, parlavano curdo a casa perché era l’unica lingua che conoscevano ed hanno, in questo modo, preservato la memoria storica del proprio popolo. A causa di questa condizione, le donne curde, da un lato, sono state meno soggette alle politiche di assimilazione degli Stati e, dall’altro, hanno avuto un ulteriore stimolo alla mobilitazione. Nel conflitto hanno, dunque, trovato la possibilità di cambiare la loro condizione, anche nei confronti dei propri uomini.
In questo senso è necessario sottolineare che, in una società ancora fortemente patriarcale, la condizione delle donne militanti è considerata da molti analisti, diversa rispetto a quella vissuta della popolazione femminile curda nel suo complesso. Gli strumenti dell’emancipazione sono stati il coinvolgimento politico e militare di queste donne. Il PKK ha, dunque, segnato una significativa rottura con il passato, mobilitando attivamente le donne e, allo stesso tempo, il braccio armato del PKK, il ARGK, ha, fin dal principio, reclutato un significativo numero di giovani donne combattenti. Nei campi di addestramento le donne lavoravano e combattevano al fianco e al pari degli uomini, a volte diventando comandanti militari. Benché le donne siano rimaste quasi totalmente assenti nei livelli più alti dell’organizzazione, la loro partecipazione alla lotta ha posto una sfida alla predominanza maschile sia all’interno del Partito sia nella società. Attraverso l’educazione politica costante in cui i militanti sono formati e attraverso la vita in comunità, il PKK ha, così, creato i presupposti per un cambiamento, in primo luogo individuale.
Gli anni successivi al colpo di stato militare del 1980 hanno, però, cambiato anche l’approccio delle donne curde non-militanti rispetto al PKK. La detenzione di migliaia di uomini curdi ha costretto molte donne ad assumere un ruolo più attivo nella famiglia e nella società. Non solo hanno dovuto prendersi cura della loro famiglia, ma sono state obbligate ad imparare come relazionarsi con la burocrazia dei sistemi giudiziari e delle carceri turche In una società in cui la stragrande maggioranza delle giovani donne non aveva un’istruzione superiore ed era forte l’incidenza di matrimoni precoci, unirsi al PKK ha rappresentato, per molte di loro, una concreta alternativa al ruolo tradizionale. Allo stesso tempo, però, il rischio di incorrere in altri tipi di rapporti ineguali e dei ruoli stereotipati era comunque presente. Benché le donne abbiano ricoperto un ruolo fondamentale nella definizione del proprio ruolo nella società, il loro percorso di emancipazione è stato spesso considerato secondario rispetto alla lotta per la liberazione nazionale.
In questa prospettiva alcuni analisti hanno affermato che il femminismo curdo ha svolto un mero ruolo di supporto rispetto al più vasto nazionalismo curdo. In questo senso le donne sarebbero state “autorizzate” a combattere per i propri diritti solo laddove questo processo poteva portare dei benefici per la realizzazione del progetto nazionale curdo. Questo argomento può essere considerato in parte corretto, ma è necessario evidenziare che la partecipazione alla lotta di liberazione nazionale ha, parallelamente, creato il contesto necessario e fornito gli strumenti per un processo di emancipazione e di ridefinizione del ruolo femminile nella società. Nel 1987, consapevoli della gravità di questo problema, le donne curde hanno fondato il YJWK (Unione Patriottica delle donne del Kurdistan). Questo atto è stata la prima dichiarazione di intenti nella prospettiva di un’organizzazione indipendente delle donne. Allo stesso tempo, mentre il numero delle guerrigliere aumentava, lo sviluppo di una organizzazione militare femminile si è resa necessaria.
Nel 1993, per la prima volta, sono state formate unità di sole donne. In questo modo, le donne non erano più sottoposte ad una linea di comando esclusivamente maschile. Tuttavia questo non era sufficiente e tutti questi progressi non hanno permesso di superare completamente la struttura patriarcale. Così il movimento delle donne è stato rinnovato più volte fino alla fondazione della KJB (Consiglio superiore delle donne) nel 2005. In questo modo, le donne del Kurdistan hanno creato la loro organizzazione ombrello. Questo sistema è costituito da quattro componenti fondamentali: il movimento ideologico delle donne, PAJK, il movimento sociale delle donne, YJA, le forze di autodifesa femminili YJA-STAR e l’organizzazione delle giovani donne. Il processo è stato molto lungo e la strada da fare per giungere ad una reale parità anche all’interno dei gruppi militanti non è ancora finita, ma molti passaggi sono stati fatti. La costruzione di gruppi politici e militari esclusivamente femminili, l’istituzione di case delle donne e centri di sostegno contro la violenza di genere, una formazione specifica per donne e uomini sul rifiuto del patriarcato e l’eliminazione della violenza maschilista nelle relazioni sono solo alcuni di questi passaggi.
In un momento in cui l’attivismo del popolo curdo è diventato centrale nel dibattito internazionale, soprattutto in relazione alla lotta contro lo Stato islamico in Iraq e Siria, dovrebbe essere imprescindibile analizzare le radici del coinvolgimento femminile all’interno del movimento curdo e l’impatto di questo fenomeno sulla realtà curda nel suo complesso. Per ragioni di sintesi e a causa di una maggiore disponibilità di fonti, l’analisi si concentrerà sulle radici storiche ed ideologiche del movimento delle donne curde in Turchia e, in particolare, sulla storia dei militanti politiche del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Un attento esame della letteratura in materia evidenzia, infatti, la leadership delle donne curde in Turchia nella creazione di una specifica teoria della liberazione delle donne. Mutuando parte della tradizione socialista, questa teoria ha subito numerose trasformazioni dovute alla compenetrazione tra teoria generale e realtà locale riuscendo a delineare un processo di empowerment femminile dai caratteri peculiari.
Per una corretta comprensione di queste dinamiche è, quindi, necessario guardare alle contingenze storiche e sociali alla base di questa esperienza. All’inizio del secolo scorso, la liberazione delle donne è stata utilizzata come strumento per subordinarle alla nazione turca. I generali turchi si sono appellati alle donne turche formalmente “emancipate” dallo Stato per evidenziare il divario tra modernità turca e sottosviluppo curdo. Quando migliaia di donne curde hanno iniziato ad allargare le fila del PKK e del suo esercito di guerriglia nel 1990, la Turchia ha lanciato una vasta offensiva contro le guerrigliere. Mentre gli uomini venivano etichettati come terroristi, il nazionalismo ufficiale ha ridotto le donne a prostitute. In una prospettiva patriarcale, le donne non potevano essere considerate terroriste e la loro ribellione contro l’indivisibilità della nazione turca doveva essere degradata in termini sessisti.
Parallelamente, gli stessi nazionalisti curdi hanno impedito l’evoluzione di un movimento femminile indipendente. Anche se, nel corso della sua storia, la società curda è stata principalmente dominata da figure maschili, sono presenti diversi esempi di donne che hanno raggiunto posizioni rilevanti all’interno della comunità. Molti autori curdi hanno interpretato questi casi come prova della posizione di rispetto detenuta da donne e come esempi di una lunga tradizione di parità. I nazionalisti curdi hanno contribuito alla diffusione di tali stereotipi per diversi motivi, ma principalmente per sottolineare le comuni radici culturali tra Occidente e società curda e ottenere consenso per il proprio movimento di liberazione nazionale. Con lo sguardo rivolto alla tradizione, i partiti nazionalisti hanno, così, posticipato l’emancipazione femminile, promuovendo il mito di un’ancestrale libertà delle donne curde.
L’azione dello Stato turco e l’attività dei nazionalisti curdi sono state strettamente interconnesse. Lo Stato turco ha adottato una politica aggressiva di assimilazione nei confronti dei curdi e la reazione dei nazionalisti curdi è stata di forte aderenza alle tradizioni. Questo meccanismo di difesa sociale ha rafforzato la sottomissione delle donne trasformandole in simboli dell’identità curda contro il controllo imperialista della Turchia. Le donne, nella quasi totalità analfabete, parlavano curdo a casa perché era l’unica lingua che conoscevano ed hanno, in questo modo, preservato la memoria storica del proprio popolo. A causa di questa condizione, le donne curde, da un lato, sono state meno soggette alle politiche di assimilazione degli Stati e, dall’altro, hanno avuto un ulteriore stimolo alla mobilitazione. Nel conflitto hanno, dunque, trovato la possibilità di cambiare la loro condizione, anche nei confronti dei propri uomini.
In questo senso è necessario sottolineare che, in una società ancora fortemente patriarcale, la condizione delle donne militanti è considerata da molti analisti, diversa rispetto a quella vissuta della popolazione femminile curda nel suo complesso. Gli strumenti dell’emancipazione sono stati il coinvolgimento politico e militare di queste donne. Il PKK ha, dunque, segnato una significativa rottura con il passato, mobilitando attivamente le donne e, allo stesso tempo, il braccio armato del PKK, il ARGK, ha, fin dal principio, reclutato un significativo numero di giovani donne combattenti. Nei campi di addestramento le donne lavoravano e combattevano al fianco e al pari degli uomini, a volte diventando comandanti militari. Benché le donne siano rimaste quasi totalmente assenti nei livelli più alti dell’organizzazione, la loro partecipazione alla lotta ha posto una sfida alla predominanza maschile sia all’interno del Partito sia nella società. Attraverso l’educazione politica costante in cui i militanti sono formati e attraverso la vita in comunità, il PKK ha, così, creato i presupposti per un cambiamento, in primo luogo individuale.
Gli anni successivi al colpo di stato militare del 1980 hanno, però, cambiato anche l’approccio delle donne curde non-militanti rispetto al PKK. La detenzione di migliaia di uomini curdi ha costretto molte donne ad assumere un ruolo più attivo nella famiglia e nella società. Non solo hanno dovuto prendersi cura della loro famiglia, ma sono state obbligate ad imparare come relazionarsi con la burocrazia dei sistemi giudiziari e delle carceri turche In una società in cui la stragrande maggioranza delle giovani donne non aveva un’istruzione superiore ed era forte l’incidenza di matrimoni precoci, unirsi al PKK ha rappresentato, per molte di loro, una concreta alternativa al ruolo tradizionale. Allo stesso tempo, però, il rischio di incorrere in altri tipi di rapporti ineguali e dei ruoli stereotipati era comunque presente. Benché le donne abbiano ricoperto un ruolo fondamentale nella definizione del proprio ruolo nella società, il loro percorso di emancipazione è stato spesso considerato secondario rispetto alla lotta per la liberazione nazionale.
In questa prospettiva alcuni analisti hanno affermato che il femminismo curdo ha svolto un mero ruolo di supporto rispetto al più vasto nazionalismo curdo. In questo senso le donne sarebbero state “autorizzate” a combattere per i propri diritti solo laddove questo processo poteva portare dei benefici per la realizzazione del progetto nazionale curdo. Questo argomento può essere considerato in parte corretto, ma è necessario evidenziare che la partecipazione alla lotta di liberazione nazionale ha, parallelamente, creato il contesto necessario e fornito gli strumenti per un processo di emancipazione e di ridefinizione del ruolo femminile nella società. Nel 1987, consapevoli della gravità di questo problema, le donne curde hanno fondato il YJWK (Unione Patriottica delle donne del Kurdistan). Questo atto è stata la prima dichiarazione di intenti nella prospettiva di un’organizzazione indipendente delle donne. Allo stesso tempo, mentre il numero delle guerrigliere aumentava, lo sviluppo di una organizzazione militare femminile si è resa necessaria.
Nel 1993, per la prima volta, sono state formate unità di sole donne. In questo modo, le donne non erano più sottoposte ad una linea di comando esclusivamente maschile. Tuttavia questo non era sufficiente e tutti questi progressi non hanno permesso di superare completamente la struttura patriarcale. Così il movimento delle donne è stato rinnovato più volte fino alla fondazione della KJB (Consiglio superiore delle donne) nel 2005. In questo modo, le donne del Kurdistan hanno creato la loro organizzazione ombrello. Questo sistema è costituito da quattro componenti fondamentali: il movimento ideologico delle donne, PAJK, il movimento sociale delle donne, YJA, le forze di autodifesa femminili YJA-STAR e l’organizzazione delle giovani donne. Il processo è stato molto lungo e la strada da fare per giungere ad una reale parità anche all’interno dei gruppi militanti non è ancora finita, ma molti passaggi sono stati fatti. La costruzione di gruppi politici e militari esclusivamente femminili, l’istituzione di case delle donne e centri di sostegno contro la violenza di genere, una formazione specifica per donne e uomini sul rifiuto del patriarcato e l’eliminazione della violenza maschilista nelle relazioni sono solo alcuni di questi passaggi.
Seconda parte
Nella teorizzazione del leader del Pkk Ocalan viene proposto un parallelismo tra l’oppressione delle donne e l’oppressione nazionale dei curdi chiamando ad una doppia liberazione. Questo processo di evoluzione è volto a minare le basi della schiavitù delle donne su tre livelli: ideologica, militare ed economica.
Le radici storiche e ideologiche hanno tracciato le caratteristiche di un movimento solido e ben radicato. Per questo motivo, anche l’analisi del primo contributo teorico del marxismo e dell’ecologismo radicale è cruciale per l’interpretazione di questo fenomeno. Abdullah Ocalan ha studiato il socialismo per lungo periodo di tempo e, pur avendo preso le distanze da molte delle strutture fondamentali del marxismo-leninismo, ha mutuato alcuni tratti della sua analisi da questa esperienza storica. Il concetto di liberazione delle donne è uno di questi.
Secondo il marxismo, la questione della autorità dello Stato sul popolo è intimamente connessa con il potere del padre sulla famiglia. Un’elaborazione organica di questa teoria è stata fatta nel 1884 con il saggio di Friedrich Engels “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.
Secondo Engels, le donne hanno cessato di essere protagoniste della storia, quando l’uomo ha cominciato ad avere una proprietà privata da difendere. L’origine della proprietà privata ha, dunque, segnato l’origine della famiglia monogamica e, di conseguenza, l’origine della schiavitù della donna. In maniera non molto differente, per Ocalan la giustificazione ideologica per concentrare l’attenzione del movimento sulla questione femminile è conseguenza del legame ancestrale tra donna e natura. L’equivalenza tra sottomissione delle donne, sfruttamento della natura e colonizzazione del Kurdistan ha reso le donne elemento inseparabile dalla liberazione nazionale curda e dal progetto di cambiamento sociale. Nell’analisi di Ocalan, i curdi hanno, infatti, perso la loro identità nello stessa fase storica in cui le donne sono state private della loro autodeterminazione. Nella costruzione di una storia curda, i miti tradizionali sono stati, dunque, utilizzati per presentare un quadro in cui la liberazione del Kurdistan sarebbe strettamente dipendente dal cambiamento della condizione delle donne curde.
In questo modo, il femminismo è diventato uno dei pilastri della Confederalismo democratico teorizzato da Ocalan. Nell’analisi del PKK, le donne curde hanno subito una doppia oppressione (tripla adottando la teoria marxista sull’oppressione di classe). La prima, condivisa con gli uomini, è stata quella di essere parte di un popolo sotto il dominio di uno Stato che non ne riconosceva l’esistenza. La seconda è stata quella vissuta come donne. Come in molte parti del mondo, il Kurdistan in questo caso non è un’eccezione, è ritenuto più importante garantire il diritto allo studio degli uomini piuttosto che quello delle donne. Lo spazio pubblico, inoltre, viene considerato esclusivo dominio maschile. Pertanto le donne, prima proprietà privata delle famiglie e, in seguito, dei mariti, erano relegate in casa, private della possibilità di studiare e lavorare, sottoposte ad abusi fisici e psicologici continui al fine di imporre loro docilità e sottomissione.
Il leader del PKK ha, dunque, evidenziato un parallelismo tra l’oppressione delle donne nella società curda e l’oppressione nazionale dei curdi chiamando ad una doppia liberazione. Questo processo di evoluzione è volto a minare le basi della schiavitù delle donne su tre livelli: ideologica, militare (nel senso di uso della forza) ed economica. In quest’ottica, uno degli aspetti centrali per la liberazione delle donne è il libero accesso a tutti i livelli della vita pubblica e il rifiuto di un processo di “casalinghizzazione” inteso come riduzione delle donne a proprietà degli uomini. Il rifiuto del isolamento delle donne nella sfera privata può essere considerato discendente dalla teoria marxista, ma l’analisi di Ocalan è andata al di là della teoria marxista.
Per comprendere questa trasformazione del pensiero sembra necessario analizzare gli scritti della donna che, per prima, ha introdotto nella letteratura il concetto di “casalinghizzazione”: Maria Mies. Nei suoi libri, Maria Mies ha espresso dure critiche alla teoria marxista, introducendo i concetti di “uomo dominante” e di “casalinghizzazione”. A suo avviso l’analisi marxista sul valore della forza-lavoro non pone attenzione al rapporto tra uomo, lavorativamente attivo, e donna casalinga.
Così, se per i capitalisti, il lavoro delle donne in casa è considerato una risorsa naturale, secondo la sua analisi, anche nelle famiglie proletarie il lavoro femminile è considerato marginale. Da questa considerazione deriva il concetto secondo il quale, in assenza di potere contrattuale, le donne sono sottomesse dagli uomini proletari come le colonie sono soggiogate dai colonizzatori. Allo stesso modo, Ocalan in “Liberare la vita. La rivoluzione delle donne “ha definito la base di oppressione delle donne descrivendole come la prima colonia e la classe più oppressa. La “casalinghizzazione” è descritta come la più antica forma di riduzione in schiavitù e la discriminazione di genere è considerata la base di tutti i rapporti di potere diseguali come quelli tra diverse classi e popoli.
Il ruolo fondamentale degli studi di genere nella teorizzazione di Confederalismo Democratico, ha sancito, così, un legame inscindibile tra l’emancipazione femminile e il futuro del popolo curdo. In una prospettiva più ampia il Confederalismo democratico, in parte a causa della guerra in corso in Siria e delle politiche del governo turco nei confronti del Kurdistan, è sempre più considerato dalla maggior parte del popolo curdo come la principale alternativa per la liberazione. La partecipazione attiva delle donne ha indotto un miglioramento della condizione femminile e, nel mentre, ha portato un cambiamento nelle relazioni uomo-donna e ha aumentato la consapevolezza degli uomini sulla questione. In questo senso, uno sguardo alle donne che hanno contribuito in maniera significativa alla storia del PKK e del movimento di liberazione nazionale curdo in Turchia è fondamentale per mostrare come alcune donne abbiano assunto un ruolo di primo piano all’interno e all’esterno del partito. Tuttavia Leila Zana o Sakine Cansiz non devono essere considerate eccezioni e le donne sono sempre più coinvolte nel movimento nazionale curdo.
In questo contesto non può sorprendere la reazione curda di fronte all’avanzata dello Stato Islamico (ISIS, IS, Daesh). Le donne curde, obbligate ad affrontare una serie di ostacoli, come la misoginia dei gruppi islamisti, la repressione politica dei governi centrali, la guerra continua e un’economia in gran parte disintegrata e la società, hanno oggi un ruolo fondamentale nella società curda. Nella vulgata la donna, laddove non passiva e vittima della guerra, viene considerata portatrice di pace e le donne armate sono considerate una contraddizione in termini, un ossimoro. Per le donne curde, invece, la presa d’armi contro Daesh è da considerare una naturale conseguenza del percorso intrapreso. Davanti ad un nuovo soggetto che, imperialisticamente, ha cercato di imporsi, la risposta è stata armata.
Le violenze, gli stupri, i rapimenti che i membri dello Stato islamico hanno compiuto nella loro avanzata più o meno ovunque ed in particolare contro la minoranza curda Yezidi a Shengal, hanno, inoltre, dato la misura della centralità delle donne come strumenti di guerra. La sessualizzazione dello sterminio non è sicuramente una novità e la stessa storia recente è segnata da stupri e violenze a danni delle donne. La violenza sessuale verso le donne curde accusate di sostenere il movimento nazionale curdo è stata per molti anni, infatti, pratica comune del personale di sicurezza turco. Laddove l’onore della famiglia viene rappresentato dalla “purezza” della donna, la violenza contro il genere femminile diventa un’arma di frammentazione della società e viene utilizzata sistematicamente perché considerata legittima in quanto rivolta ad esseri inferiori, da trattare al pari degli oggetti. Così la distruzione di un villaggio, delle opere d’arte o il rapimento e la vendita delle donne sono aspetti diversi di una stessa strategia di cancellazione dell’identità del nemico.
Parallelamente, per il PKK , lo stupro viene visto come una forma di violenza che, come ogni altra, ha lo scopo di costringere gli esseri umani in condizione di obbedienza e può essere resa inefficace solo attraverso la resistenza e la presa di coscienza. Di fronte a questo, l’autodifesa femminile o la difesa condivisa di uomini e donne rappresenta una reale alternativa a ciò che viene, invece, propagandato dallo Stato Islamico. La resistenza curda, a Kobane prima e nei villaggi circostanti e negli altri cantoni ora, è frutto anche di questo. Arrendersi all’IS avrebbe, infatti, significato la fine del modello del Confederalismo democratico e la fine del processo di emancipazione femminile.
Tuttavia, guardando ciò che sta accadendo oggi in Turchia o in Rojava, bisogna sottolineare che si tratta di un contesto bellico e che la presenza di un nemico tangibile, Stato Islamico o Stati nei quali il Kurdistan è diviso, costituisce un forte stimolo alla coesione. La volontà del PKK di perseguire un reale mutamento dei rapporti di genere e la sua capacità di farsi promotore di una società diversa costruita anche sulla parità di genere dovranno essere provate in una successiva fase di pace. Il percorso è stato intrapreso, ma il processo per raggiungere l’uguaglianza completa nella società nel suo complesso sembra essere solo all’inizio.
Le radici storiche e ideologiche hanno tracciato le caratteristiche di un movimento solido e ben radicato. Per questo motivo, anche l’analisi del primo contributo teorico del marxismo e dell’ecologismo radicale è cruciale per l’interpretazione di questo fenomeno. Abdullah Ocalan ha studiato il socialismo per lungo periodo di tempo e, pur avendo preso le distanze da molte delle strutture fondamentali del marxismo-leninismo, ha mutuato alcuni tratti della sua analisi da questa esperienza storica. Il concetto di liberazione delle donne è uno di questi.
Secondo il marxismo, la questione della autorità dello Stato sul popolo è intimamente connessa con il potere del padre sulla famiglia. Un’elaborazione organica di questa teoria è stata fatta nel 1884 con il saggio di Friedrich Engels “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.
Secondo Engels, le donne hanno cessato di essere protagoniste della storia, quando l’uomo ha cominciato ad avere una proprietà privata da difendere. L’origine della proprietà privata ha, dunque, segnato l’origine della famiglia monogamica e, di conseguenza, l’origine della schiavitù della donna. In maniera non molto differente, per Ocalan la giustificazione ideologica per concentrare l’attenzione del movimento sulla questione femminile è conseguenza del legame ancestrale tra donna e natura. L’equivalenza tra sottomissione delle donne, sfruttamento della natura e colonizzazione del Kurdistan ha reso le donne elemento inseparabile dalla liberazione nazionale curda e dal progetto di cambiamento sociale. Nell’analisi di Ocalan, i curdi hanno, infatti, perso la loro identità nello stessa fase storica in cui le donne sono state private della loro autodeterminazione. Nella costruzione di una storia curda, i miti tradizionali sono stati, dunque, utilizzati per presentare un quadro in cui la liberazione del Kurdistan sarebbe strettamente dipendente dal cambiamento della condizione delle donne curde.
In questo modo, il femminismo è diventato uno dei pilastri della Confederalismo democratico teorizzato da Ocalan. Nell’analisi del PKK, le donne curde hanno subito una doppia oppressione (tripla adottando la teoria marxista sull’oppressione di classe). La prima, condivisa con gli uomini, è stata quella di essere parte di un popolo sotto il dominio di uno Stato che non ne riconosceva l’esistenza. La seconda è stata quella vissuta come donne. Come in molte parti del mondo, il Kurdistan in questo caso non è un’eccezione, è ritenuto più importante garantire il diritto allo studio degli uomini piuttosto che quello delle donne. Lo spazio pubblico, inoltre, viene considerato esclusivo dominio maschile. Pertanto le donne, prima proprietà privata delle famiglie e, in seguito, dei mariti, erano relegate in casa, private della possibilità di studiare e lavorare, sottoposte ad abusi fisici e psicologici continui al fine di imporre loro docilità e sottomissione.
Il leader del PKK ha, dunque, evidenziato un parallelismo tra l’oppressione delle donne nella società curda e l’oppressione nazionale dei curdi chiamando ad una doppia liberazione. Questo processo di evoluzione è volto a minare le basi della schiavitù delle donne su tre livelli: ideologica, militare (nel senso di uso della forza) ed economica. In quest’ottica, uno degli aspetti centrali per la liberazione delle donne è il libero accesso a tutti i livelli della vita pubblica e il rifiuto di un processo di “casalinghizzazione” inteso come riduzione delle donne a proprietà degli uomini. Il rifiuto del isolamento delle donne nella sfera privata può essere considerato discendente dalla teoria marxista, ma l’analisi di Ocalan è andata al di là della teoria marxista.
Per comprendere questa trasformazione del pensiero sembra necessario analizzare gli scritti della donna che, per prima, ha introdotto nella letteratura il concetto di “casalinghizzazione”: Maria Mies. Nei suoi libri, Maria Mies ha espresso dure critiche alla teoria marxista, introducendo i concetti di “uomo dominante” e di “casalinghizzazione”. A suo avviso l’analisi marxista sul valore della forza-lavoro non pone attenzione al rapporto tra uomo, lavorativamente attivo, e donna casalinga.
Così, se per i capitalisti, il lavoro delle donne in casa è considerato una risorsa naturale, secondo la sua analisi, anche nelle famiglie proletarie il lavoro femminile è considerato marginale. Da questa considerazione deriva il concetto secondo il quale, in assenza di potere contrattuale, le donne sono sottomesse dagli uomini proletari come le colonie sono soggiogate dai colonizzatori. Allo stesso modo, Ocalan in “Liberare la vita. La rivoluzione delle donne “ha definito la base di oppressione delle donne descrivendole come la prima colonia e la classe più oppressa. La “casalinghizzazione” è descritta come la più antica forma di riduzione in schiavitù e la discriminazione di genere è considerata la base di tutti i rapporti di potere diseguali come quelli tra diverse classi e popoli.
Il ruolo fondamentale degli studi di genere nella teorizzazione di Confederalismo Democratico, ha sancito, così, un legame inscindibile tra l’emancipazione femminile e il futuro del popolo curdo. In una prospettiva più ampia il Confederalismo democratico, in parte a causa della guerra in corso in Siria e delle politiche del governo turco nei confronti del Kurdistan, è sempre più considerato dalla maggior parte del popolo curdo come la principale alternativa per la liberazione. La partecipazione attiva delle donne ha indotto un miglioramento della condizione femminile e, nel mentre, ha portato un cambiamento nelle relazioni uomo-donna e ha aumentato la consapevolezza degli uomini sulla questione. In questo senso, uno sguardo alle donne che hanno contribuito in maniera significativa alla storia del PKK e del movimento di liberazione nazionale curdo in Turchia è fondamentale per mostrare come alcune donne abbiano assunto un ruolo di primo piano all’interno e all’esterno del partito. Tuttavia Leila Zana o Sakine Cansiz non devono essere considerate eccezioni e le donne sono sempre più coinvolte nel movimento nazionale curdo.
In questo contesto non può sorprendere la reazione curda di fronte all’avanzata dello Stato Islamico (ISIS, IS, Daesh). Le donne curde, obbligate ad affrontare una serie di ostacoli, come la misoginia dei gruppi islamisti, la repressione politica dei governi centrali, la guerra continua e un’economia in gran parte disintegrata e la società, hanno oggi un ruolo fondamentale nella società curda. Nella vulgata la donna, laddove non passiva e vittima della guerra, viene considerata portatrice di pace e le donne armate sono considerate una contraddizione in termini, un ossimoro. Per le donne curde, invece, la presa d’armi contro Daesh è da considerare una naturale conseguenza del percorso intrapreso. Davanti ad un nuovo soggetto che, imperialisticamente, ha cercato di imporsi, la risposta è stata armata.
Le violenze, gli stupri, i rapimenti che i membri dello Stato islamico hanno compiuto nella loro avanzata più o meno ovunque ed in particolare contro la minoranza curda Yezidi a Shengal, hanno, inoltre, dato la misura della centralità delle donne come strumenti di guerra. La sessualizzazione dello sterminio non è sicuramente una novità e la stessa storia recente è segnata da stupri e violenze a danni delle donne. La violenza sessuale verso le donne curde accusate di sostenere il movimento nazionale curdo è stata per molti anni, infatti, pratica comune del personale di sicurezza turco. Laddove l’onore della famiglia viene rappresentato dalla “purezza” della donna, la violenza contro il genere femminile diventa un’arma di frammentazione della società e viene utilizzata sistematicamente perché considerata legittima in quanto rivolta ad esseri inferiori, da trattare al pari degli oggetti. Così la distruzione di un villaggio, delle opere d’arte o il rapimento e la vendita delle donne sono aspetti diversi di una stessa strategia di cancellazione dell’identità del nemico.
Parallelamente, per il PKK , lo stupro viene visto come una forma di violenza che, come ogni altra, ha lo scopo di costringere gli esseri umani in condizione di obbedienza e può essere resa inefficace solo attraverso la resistenza e la presa di coscienza. Di fronte a questo, l’autodifesa femminile o la difesa condivisa di uomini e donne rappresenta una reale alternativa a ciò che viene, invece, propagandato dallo Stato Islamico. La resistenza curda, a Kobane prima e nei villaggi circostanti e negli altri cantoni ora, è frutto anche di questo. Arrendersi all’IS avrebbe, infatti, significato la fine del modello del Confederalismo democratico e la fine del processo di emancipazione femminile.
Tuttavia, guardando ciò che sta accadendo oggi in Turchia o in Rojava, bisogna sottolineare che si tratta di un contesto bellico e che la presenza di un nemico tangibile, Stato Islamico o Stati nei quali il Kurdistan è diviso, costituisce un forte stimolo alla coesione. La volontà del PKK di perseguire un reale mutamento dei rapporti di genere e la sua capacità di farsi promotore di una società diversa costruita anche sulla parità di genere dovranno essere provate in una successiva fase di pace. Il percorso è stato intrapreso, ma il processo per raggiungere l’uguaglianza completa nella società nel suo complesso sembra essere solo all’inizio.
di Francesca La Bella
per Nena News
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