Nel cuore di tenebra della Libia
Pubblichiamo un articolo di Nique la Police uscito su Senza Soste. L’articolo ha il merito di riflettere sulle peciliarità che caratterizzano la “guerra dei volenterosi”, peculiarità che impongono una riflessione sull’uso della categoria di governance e di sovranità nelle imprese belliche post-guerra infinita. (Redazione)
La via d’accesso a Kurtz era lastricata di così tanti pericoli quasi fosse una principessa addormentata sotto l’effetto di un incantesimo in un favoloso castello. (Conrad, Cuore di Tenebra)
La guerra di Libia del 2011, remake tecnologico dell’avventura coloniale italiana del 1911, può essere spiegata chiudendo con le metafore dell’impero e le categorie della governance delle relazioni internazionali che sono state utilizzate lungo tutto il decennio bushiano. Questo non certo per amore di polemica verso chi, a volte produttivamente altre meno, ha utilizzato queste categorie. Ma perché l’ibrido rappresentato dal tipo di guerra messa in atto dalla coalizione dei volenterosi, tra modalità di intervento tipiche del periodo Bush e altre del periodo Clinton, ha delle peculiarità che marcano la fine di un’epoca. Quando c’è infatti una guerra in corso che a qualche giorno dall’inizio non ha ancora trovato una catena di comando, né un’alleanza definita, è impossibile parlare di impero. Manca la sovranità diretta, di fondo, immediatamente riconoscibile del potere imperiale (anche se trasfigurato e dislocato nelle costellazioni politiche odierne). Certo, c’è l’impatto dal cielo delle tecnologie belliche. Che però, in assenza di un potere riconoscibile, somigliano più ad una maledizione che al segno imperiale del comando. Non sono perciò meno sinistre ma esprimono un potere politico indeterminato. E la composizione del “chi comanda” in guerra è decisiva per le sorti di un conflitto. E se manca un simbolico imperiale, in una guerra la cui origine politica è l’assenza di comando (per rispondere immediatamente ad un’assenza di governo in Libia), non è presente però una strategia di governance del conflitto. Se prendiamo Governing as Governance di Ian Kooiman, che è un’ottima classificazione delle tipologie di governancegovernance visto per quasi un ventennio come costitutivo per il superamento delle crisi. E’ saltata la credibilità della razionalità di governo ovvero la meta-norma di governo (secondo Kooiman) che fa riconoscere una istituzione come tale in qualsiasi frangente e soprattutto all’interno, là dove si manovra. Ed è saltata poi la gerarchia, che è un prerequisito irrinunciabile della governance. Ovvero della gestione di un terreno di interesse pubblico (in questo caso il militare) che tenga conto di una pluralità di interessi ma anche di precise gerarchie di decisione che la rendono possibile. Nel caso della guerra di Libia, nel momento in cui non è chiaro chi partecipa, e c’è confusione sulla gerarchia, la governancecorporation dell’energia, nel ridefinirsi precipitoso e conflittuale delle alleanze. Separare la formazione del terreno della strategia politica (il governo) dall’atto che mette in pratica le decisioni (la governance) a partire dall’inizio degli anni ’90 era ritenuto il comportamento politico più complesso ed efficace da adottare in caso di crisi. Alla prova dei fatti di oggi entrambi i piani si dissolvono. Ed è il campo, là dove si fa la guerra, che si registranno gli effetti di questa mutazione. Già l’Afghanistan, più dell’Iraq, aveva messo in crisi le pratiche di governance militare. Ancora oggi non è chiaro quali siano i livelli di razionalità politica per il governo della crisi afghana e le gerarchie di governance militare. La Libia ratifica la crisi di un modello entrato in grande difficoltà in Asia. Le prime ore di bombardamento di Tripoli sono, dal punto di vista della governance militare, una sorta di anarchia creativa nei bombardamenti e nelle incursioni. Ciò che si temeva, e si teme, a Kabul si è imposto come prassi a Tripoli.
specie quando si intrecciano con le categorie tattiche di governo, ci rendiamo conto di come la guerra in Libia non risponda neanche alle leggi di quel mondo. Nella confusa ed improvvisata alleanza dei volenterosi, formatasi per la guerra di Libia, sono saltate immediatamente quelle due caratteristiche fondamentali dell’intreccio tra governo e passa dall’essere una tecnologia di governo al definirsi come semplice caso da manuale. Il punto più intelligente delle tecnologie politiche capitalistiche del mondo globale salta quindi da solo sotto la spinta della velocità della crisi, degli interessi delle
Nonostante si sia alla quinta guerra umanitaria in vent’anni siamo di fronte ad un fatto storico: dalla prima guerra del Golfo di Bush padre (1991), mossa esplicitamente in nome di un new worldorder successivo alla caduta del muro, hanno tenuto banco nel linguaggio della teoria politica la simbolica dell’impero e le categorie della governance. Sono entrambe saltate, la cosa fa sorridere se si pensa che James Rosenau, uno degli studiosi di punta di questo genere di categorie politiche, si era addirittura adoperato per la costruzione di una ontologia della governance. Ma radicalizzare fino alle categorie dell’Essere i concetti politici è sempre un sintomo della incombente crisi di questi ultimi. Ora ci penserano gli stregoni dello star-system internazionale delle scienze politiche, assieme a quelli del marketing, a costruire qualche nuovo rito teorico per l’esorcizzazione delle crisi.
Ma come leggere l’intervento della coalizione in Libia? Con quali categorie politiche? Se si danno risposte efficaci a queste domande allora si può prevedere quello che può accadere sul campo. E se gli eventi prendono una piega che prevede la mobilitazione della popolazione anche agire con una certa efficacia.
Qui in un punto dobbiamo prendere per vera la pesante retorica di Gheddafi. Quando, come un paio di giorni fa alla radio libica, parla di intervento dell’occidente come una nuova crociata. Dal punto di vista dell’antropologia politica si tratta proprio di questo. Ovviamente dobbiamo evitare inutili suggestioni sullo scontro tra civiltà. La civiltà capitalistica dei consumi ha unificato da tempo i mondi: lo scontro è sempre all’interno di questo genere di civiltà. Ma Gheddafi, pur utilizzando un simbolico utile per l’opinione pubblica araba, qualcosa ha indovinato. L’Onu non si muove, non determina potere politico secondo comportamenti da impero ma secondo logiche di papato. Precisamente con le modalità antropologico-politiche di creazione e di distribuzione del potere proprie della crociata. Ban Ki Moon ha infatti parlato della risoluzione 1973 del consiglio di sicurezza delle nazioni unite come di un “importante precedente”. Vediamo di quale tipo. La risoluzione autorizza qualsiasi nazione, organismo di cooperazione, coalizione ad agire immediatamente a difesa delle popolazioni libiche. Non fissa i requisiti degli organismi di cooperazione o delle coalizioni, quindi non ci sono metacriteri di governance, ma per accellerare l’intervento in Libia legittima chiunque sia in grado di intervenire. Ban Ki Moon ricorda quindi Urbano II dopo la prima vittoriosa crociata a Gerusalemme. Sotto la pressione di potenze politiche discordanti, ma unite dalla necessità di legittimazione per l’intervento, legittima una nuova crociata rendendo così politicamente possibile, a potenze alleate ma anche in conflitto tra loro, lo scatenarsi di un nuova guerra oltre i confini di Gerusalemme. In questo senso tra il Ban Ki Moon di oggi e il Kofi Annan del Kosovo c’è una forte differenza di ruolo politico. Annan fu ripescato da Clinton, e portato davanti alle telecamere, un paio di settimane dopo i bombardamenti umanitari sulla Serbia. Un gesto di concessione della governance militare alla forma legale del potere Onu. Ban Ki Moon legittima, e fa partire, una crociata tra interessi diversi e conflittuali. Un potere di legittimazione dell’intervento militare una volta saltati i livelli di governo e di governance. Dopo l’impero il simbolico della politica mondiale si volge così al papato. Molto più efficace come potere tra i poteri, che si specializza nel legittimare forze in contrasto tra loro, pur nella stessa azione, senza dover pagare il prezzo politico del logoramento sul campo. Una modalità di esternalizzazione dei rischi politici e militari, quella si erede della partizione tra governo e governance. Partizione che è stata alle radici della nascita della Ue, che viene definita un organismo di governance multi-livello, che infatti sulla Libia si è infatti evaporata su più piani.
Ma se la governance, con la Libia, salta come tecnologia politica di intervento militare, da cosa viene sostituita?
Nella sociologia delle organizzazioni, disciplina con minor spessore ontologico e cognitivo delle teorie della governance ma dotata di maggior agilità su un terreno operativo (quello del capitalismo che non ha alcuna nozione di valore), il caos non è un problema ma una modalità operativa. E il caos, all’apertura della guerra di Libia, è il dato fenomenico e politico più importante. Frutto della crisi di complessità contemporanea dei grandi organismi sovranazionali, come di quelli nazionali, dell’urgenza militare dettata dai tempi accellerati della crisi libica, della necessità di portare velocemente a bilancio la nuova situazione politica da parte delle multinazionali, delle merchant bank e delle borse globali. Nella sociologia delle organizzazioni il management, in questi casi di caos, deve essere consapevole di governare organismi imprevedibili. I cui difetti di funzionamento nel caos, pur opportunamente tenuti in conto, generano effetti a loro volta imprevedibili. Ecco la razionalità politica, in questo molto diversa dalla governance, con la quale si è entrati in guerra da parte dei volenterosi: con la consapevolezza logistica, diplomatica e militare di generare effetti imprevedibili, all’interno di alleanze variabili e non stabilizzate, naturalizzando il caos come modalità razionale implicita nella guerra moderna. E questo è possibile perché esiste un fattore di stabilizzazione dell’opinione pubblica, ovvero i media, che rende lineare, comprensibile ed accettabile il racconto sulla guerra neutralizzando i comportamenti della popolazione grazie all’egemonia che esercita nello svolgersi di questo racconto. Non a caso quindi siamo arrivati con la Libia al risultato, solo apparentemente paradossale, che ci rende il caos organizzativo come pratica di scatenamento del conflitto ed una uniforme tranquillità dell’opinione pubblica di fronte allo scatenamento della guerra. Il simbolico del papato e il caos organizzativo, a tattiche e alleanze variabili, sono le due categorie (antropologico-politiche e di tecnologia politica) che escono quindi dallo scoppio della guerra libica. Saranno sicuramente affinate. Le guerre accellerrano, per natura, le costruzioni del simbolico e le evoluzioni delle tecnologie, anche di quelle politiche.
Ma sul campo qual è il risultato politico-militare che, per quanto originato dal caos, porta a stabilità e quindi a profitti?
Sostanzialmente uno: quello che vuole Gheddafi colpito da un missile, o cacciato dagli insorti (opportunamente armati dalla coalizione), oppure neutralizzato fino all’eutanasìa politica da una forza di interposizione fatta dai paesi arabi, entro un quadro politico stabilizzato di alleanze tra volenterosi e soggetti che hanno peso nell’area. Una volta consolidatosi questo scenario può aprirsi la fase finale della guerra: quella che si svolge discretamente dietro le quinte per la ripartizione del potere e dei profitti generati dalla Libia (come accadde dopo la crociata del 1101, lanciata da Urbano II, per la ripartizione delle terre conquistate agli infedeli). E’ uno scenario dove tutti, a parte Gheddafi, vincono in diretta globale. Giocando il simbolico televisivo mondiale del ripristino dell’ordine. Anche chi, nelle segrete stanze di compensazione, di fatto ha preso meno di quanto calcolato all’inizio della guerra.
Fuori da questo scenario il caos originario della guerra di Libia non genererà stabilità ma aprirà al cuore di tenebra libico. Lastricato di così tanti pericoli, sul campo e in casa propria, da paralizzare governi, affari, azioni di guerra. Tanto più la Libia genererà effetti imprevedibili tanto più questi pericoli si faranno chiari. Sun Tzu ne L’arte della guerra diceva “in ogni conflitto le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria”. La scommessa dei volenterosi trova una razionalità nel rovesciamento di questo assunto: partire dal caos, da una imprevedibilità non voluta, per arrivare a stabilizzare le forze evocate e quindi vincere. Si vuole così arrivare, con altri mezzi, ad un Kosovo in poche settimane. Ma se questo non accade, se Sun Tzu ha ancora ragione, se la Libia da deserto si fa cuore di tenebra, si entra nel terreno dell’inedito e dell’inesplorato. Che è metodo di governo del conflitto, come abbiamo visto, materia da governare da parte dei media ma anche tema di forte inquietudine sociale (oltre che produttore di vittime). E, per dirne una, in questo paese si sono sovrapposte troppe tensioni per non pensare che non succeda qualcosa di serio se la guerra produce un effetto inedito e devastante. Il cuore di tenebra libico può essere quello che disintegra certezze morali e materiali di un paese moderno come avviene nella rilettura di Conrad da parte di Coppola. Che si chiama, appunto, Apocalypse Now.
Se così fosse arriveremo ad un rovesciamento dell’assunto politico di Schmitt che accompagna la filosofia politica da diversi decenni. Quello che vuole che sia sovrano il potere che decide in stato di emergenza. Ma davvero si tratta di una legge aurea dell’antropologia politica? Da Baghdad a Kabul chi ha deciso in stato d’emergenza si è trovato ad essere disarcionato come sovrano. Il cuore di tenebra libico può santificare questa tendenza, renderla a sua volta legge aurea. D’altronde Schmitt aveva una visione della politica che affondava, nonostante tutto, nella teologia cristiana e nel successo a lui contemporaneo delle guerre coloniali. Vedremo cosa accadrà nel mondo postcoloniale. Intanto un dato politico lo si può intravedere: se il cuore di tenebra libico farà valere la sua presenza, se la scommessa dei volenterosi sarà persa, si aprono scenari inediti per questo paese. E’ un soggetto politico quello che, eventualmente, saprà coglierli e portarli verso le rotte dell’eguaglianza.
per Senza Soste, nique la police
21 marzo 2011
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