Non è un paese per giovani
A Rovigo, nella notte, un ragazzo, 22 anni, ha raggiunto la ferrovia con la sua macchina. È sceso dalla vettura, ha attraversato qualche binario e ha aspettato il primo treno ad alta velocità per farla finita. Un portafogli sul pietrisco ha permesso di risalire all’identità di questo ragazzo. Oggi si sarebbe dovuto laureare. Che traguardo. Era tutto pronto per la festa. Ma era una cazzata, tessuta con cura per sostenere le aspettative richieste. Si era inventato tutto. Il rifiuto a consumare quel prodotto così distante dalle aspettative personali, il rifiuto a sbattersi per quel traguardo collezionando crediti, aveva scavato più a fondo. Colmare la distanza con quell’invenzione parallela e abbracciarne la realtà insostenibile era diventato ormai impossibile. Anche per la solitudine, forse, o semplicemente perché, un po’ come quando proviamo a venderci al meglio in ogni colloquio di lavoro affrontato, dove qualcuno è pronto a giudicarci per farci ottenere qualche impiego di merda, ci inventiamo le cazzate più fantasiose, pur di spuntarla almeno una volta e invece a ogni ripresa smarriamo un pezzo di noi stessi. Perché succede così: a essere costretti a dire le cazzate per sfangarla uno non può non cambiare, perdersi, diventare uno che non sa bene più cosa deve accettare e cosa no di quello che lo circonda.
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Veniamo a conoscenza di queste vicende mentre i frammenti della lettera di Michele, il grafico friulano suicidato dalla crisi, tornano ancora alla memoria come storia presente. Sarà per un fatto morale o per la paura, ma la morte ancora fa scandalo e questo apre già all’alternativa che sta nello sfuggirle. È il punto ultimo. È la crisi irrevocabile che consuma ogni speranza in questo mondo, ed è per questo che rappresenta sempre un fatto collettivo, a partire dalla sua elaborazione e dal rifiuto ad accettarla per chi ha ancora i piedi piantati a terra per camminare in cerca di qualche sentiero praticabile nell’ignoto; verso un altro colloquio, qualche voucher e una laurea inservibile in tasca o verso il sogno di rovesciare tutto. Di strade già battute non ce n’è o meglio, sono delle pietraie, che costringono a viaggi faticosi, interminabili e senza meta. Non c’è mai un orizzonte aperto. Quel mondo che ci propongono è stretto e buio, non promette nulla. E’ il capitalismo in questo tornante della crisi che scopre le ossa di quello scheletro che consuma la vita sotto lo sfruttamento, strappandoci a una vita per noi, organizzandola per fini non nostri. Nessuna promessa di emancipazione dal presente si intravede, nessuna offerta vantaggiosa per accettare un presente che costringe comunque “a combattere per sopravvivere”. Sono ancora le parole di quella lettera definitiva che ruotano dentro la testa rispecchiandosi nel quotidiano della stragrande maggioranza dei giovani tra i 16 e i 30 anni in questo paese.
A varie intensità lo scandalo di questo bollettino di guerra fatto di suicidi inaccettabili attraversa in questi giorni il mainstream. In tanti, a bassa voce, cominciano a dire quello che tutti pensano. C’è un grido soffocato, una generazione che è stata zitta per troppo tempo e ha perso anche la capacità di parlare. È il segnale di un conflitto che attraversa dimensioni sociali ampie ed è anche il tentativo di riassorbirlo in una rappresentazione confinata alla pietà e all’impotenza davanti alla morte oppure, con arroganza maggiore, allo scontro tra i brizzolati che ce l’hanno fatta e una generazione senza coraggio. Sono strategie nemiche.
Lo diciamo chiaramente. I giovani come soggetto non esistono. Non esiste la gioventù come soggetto collettivo portatore di fini autonomi, già interprete di un antagonismo politico preso in sé per sé: “Avevo vent’anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita” è più l’incipit buono per ogni vicenda umana privata di un’orizzonte di alterità, della libertà di proclamare obiettivi propri per migliorare le condizioni di vita. C’è dell’altro però… c’è una potenza di agire umano collettivo costretta alla subalternità in termini di aspirazioni e condizioni di esistenza. La dimensione giovanile taglia oggi trasversalmente la classe degli sfruttati. Già qui si scorge una stratificazione, perché non è a tutti i livelli di una generazione che emerge quell’insofferenza che segnala un antagonismo latente e la possibilità di negarlo – fino al darsi la morte, ahinoi – e rovesciarlo – per restare in vita e vivere meglio. Chi è che non sopporta più quanto lo circonda oggi? E’ chi non considera vantaggiose le condizioni di auto-valorizzazione di sé stesso per le quali ci obbligano a combattere quotidianamente, chi non considera arricchente la forma di vita imposta come integrazione al rapporto di capitale perché, in ultimo, non concede neanche l’illusione di potersi costruire una possibilità di essere altrimenti o di governare la propria esistenza con una relativa autonomia. Tutto questo compromette la stessa ragion d’essere di ciascuno, scalfisce l’umano in quel fondo che rigetta di alienarsi per preservare un po’ di forza per esprimere la propria potenza. Per usarla per sé.
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