Notre Dame des Landes 2013. Report dalla lotta contro l’aeroporto in Francia
Pubblichiamo un report articolato della situazione odierna sul sito della ZAD a Notre Dame des Landes, dove il progetto di costruzione di un aeroporto ha prodotto una delle lotte più importanti nella Francia degli ultimi anni.Il report è frutto dell’elaborazione collettiva di alcuni compagn* italian* che hanno partecipato alle mobilitazioni dello scorso aprile.
Il 21 aprile 2013 gli effettivi della gendarmerie francese impegnati nel controllo dell’area di Notre Dame des Landes, un paesino della Loira Atlantica (estremo ovest della Francia), si sono ritirati con discrezione dalla zona, come aveva anticipato un comunicato della locale prefettura. Il ritiro delle forze dell’ordine sospende, in parte, quella che il movimento contro la costruzione dell’aeroporto Nantes NDL non esita a definire “occupazione militare”, ed è una delle iniziative del governo Ayrault per superare la fase di alta tensione iniziata con le manifestazioni e gli scontri dell’ultimo autunno. Ancora il 15 aprile la polizia ha accusato alcuni degli occupanti della ZAD (Zone à Defendre: Zona da Difendere, il nome dato dagli oppositori all’area espropriata per costruire l’aeroporto) di aver lanciato pietre, bottiglie e molotov contro gli agenti mentre questi ultimi si apprestavano a invadere un settore della zona di resistenza con i loro mezzi, per reinstallare un check-point che avevano abbandonato tre giorni prima, quando un centinaio di “zadisti” li aveva attaccati e costretti alla smobilitazione.
Poche ore dopo la piccola battaglia che aveva portato alla riconquista dell’incrocio conteso con la polizia, dai paesini di Le Paquelais e Notre Dame des Landes, rispettivamente a sud e a nord della ZAD, erano partiti due cortei. Lo scenario vedeva tutti i negozi e i bar chiusi, le strade deserte; d’altra parte, è spesso così nelle migliaia di minuscoli e anonimi paesini che descrivono la geografia politica della Francia. I due cortei sono penetrati nella ZAD dai due lati, per promuovere una semina collettiva dei terreni da parte di tutti i comitati contro l’aeroporto che, negli ultimi mesi, sono fioriti su tutto il territorio nazionale. La ZAD è una regione agricola di centinaia di ettari. Il faraonico aeroporto a due piste che la distruggerebbe dovrebbe sostituire, secondo un progetto degli anni Sessanta, il già esistente Nante Atlantique, più vicino al mare. Quest’area si è riempita, nel corso degli ultimi anni, di decine di presidi, baracche, casette e taverne autogestite costruite dagli oppositori al progetto, ed è divenuta un’enorme terra occupata dal movimento, in cui ognuno è libero di sperimentare forme di opposizione “all’aeroporto e al suo mondo”.
Il corteo, con alcuni trattori al seguito, esibiva una composizione principalmente giovanile, ma non soltanto: c’erano anche persone più avanti con gli anni, come Gustave, vecchio militante di Action Directe (il principale gruppo armato francese degli anni Settanta-Ottanta), uscito di prigione pochi anni fa: “Con le difficoltà che attraversa il governo socialista in questo momento, subissato dagli scandali giudiziari, l’opposizione all’aeroporto ha una reale possibilità di vittoria. Le contraddizioni non mancano anche in seno al partito e al governo, su questo punto, se è vero che ben quattro ministri sono contrari al progetto”. Poi aggiunge: “Non dimentichiamo che i contadini, principali vittime dell’aeroporto, sono da sempre un elettorato problematico per la sinistra, e ai socialisti potrebbe far comodo una riverniciatura in senso ‘paysan’ e ambientalista”.
Nel corteo non ci sono famiglie, e la presenza della popolazione del luogo non appare massiccia: il coordinamento delle associazioni contadine e degli oppositori locali non ha aderito. Alle Planchette, un’area attrezzata per la cucina popolare, inizia l’azione “Semina la tua ZAD”: si piantano semi nella terra per far nascere qualcosa là dove il capitalismo vuol portare cementificazione e morte perché, come grida al microfono un manifestante, “se semineranno cemento raccoglieranno resistenza e lotta”. Un comunicato letto dal camion rivendica il carattere illegale ma legittimo di molte pratiche di resistenza messe in campo, e la determinazione a resistere qualora il governo volesse ritentare la via dello sgombero, come accaduto lo scorso ottobre con l’operazione “Cesar” del governo Ayrault (che nome infelice da parte di un governo francese!). L’operazione “Cesar” è stata, in termini valsusini, il “6 dicembre 2005” di questa lotta: migliaia di poliziotti e gendarmi hanno circondato l’area e l’hanno attaccata da più lati, procedendo allo sgombero forzato dei terreni, dei presidi e delle baracche. Tutto ciò che era stato costruito, con anni di passione e sacrifici, è stato distrutto in poche ore con le escavatrici, e centinaia di persone sono state picchiate e arrestate. La reazione del movimento, il 16 novembre 2012, ha portato 40.000 persone a sparpagliarsi per i campi aggirando i blocchi della polizia in quella che è stata chiamata dal movimento, senza sorprese, “Operazione Asterix”. L’area è stata in gran parte rioccupata, molte baracche sono state ricostruite, e nuovamente gli zadisti hanno potuto impiantarsi sul territorio.
Come in Valsusa nel 2006?
A dicembre è stato costruito, tra le altre cose, un complesso di casette in legno chiamato Chat Taigne, che funge da punto di ristoro, di accoglienza e dormitorio, e in mezzo c’è una piccola taverna che, in onore alla Val di Susa, è stata chiamata “No Tav/erne”. Per farsi un’idea della fisionomia della ZAD occorre immaginare la difficoltà – anche per gli oppositori – a occupare e difendere una zona così grande, dove è necessario camminare anche mezz’ora in mezzo ai campi e ai prati per raggiungere il presidio successivo (ed esistono presidi che distano più di un’ora di cammino gli uni dagli altri; né è sempre è possibile, o consigliato, raggiungerli in macchina). L’aggravante è che, dal punto di vista geografico, quest’area è una “zona umida”: impossibile percorrerla senza stivali o scarponi, e talvolta si sprofonda a tal punto nel fango che sembra di essere nelle sabbie mobili. Come in valle, d’altra parte, sono state queste difficoltà pratiche a rendere pensabili le soluzioni più belle: alla Chat Taigne le casette sono collegate tra loro, e ad altri punti della ZAD, da un sistema di piccoli ponti in legno sopraelevati dal terreno fangoso, costruiti con rami secchi e pezzi di tronchi, che danno al luogo un aspetto eccezionale, frutto di un’umanizzazione grezza e affascinante del territorio.
Gli occupanti si ingegnano nella trasformazione del luogo a partire da materiali naturali e biodegradabili, scrivendo opuscoli sulla superiorità – tecnica e ideale a un tempo – delle palafitte paleolitiche rispetto all’edificio moderno in mattoni o cemento armato. La polizia ha mantenuto per mesi i suoi presidi qua e là, approfittando dei momenti di minore mobilitazione per incrementare la propria presenza, e tentando di renderla, al tempo stesso, il più possibile discreta. Le giornate di ottobre e novembre, infatti, hanno messo il governo in difficoltà: la violenza poliziesca e la resistenza dei manifestanti hanno prodotto una mediatizzazione senza precedenti della lotta, e non soltanto il pubblico televisivo francese è stato (dis)informato sulla lotta di Notre Dame des Landes, ma ha in gran parte simpatizzato per essa. In un paese dove tutto il potere politico, e gran parte di quello economico, è concentrato nella famosa capitale, non manca un istinto di ribellione contro l’arroganza di chi vuole espropriare, distruggere, ricostruire senza tenere in considerazione la volontà delle popolazioni locali, soprattutto agricole. In questa situazione, con la crisi che avanza e produce nei francesi un’inquietudine che si esprime con frasi del tipo “finiremo come l’Italia” (e con gli zadisti nuovamente impiantati sui campi) il governo tenta oggi la strada del “dialogo”.
La questione dell’aeroporto si trova così in una situazione di stallo, proprio come è accaduto per il Tav nel 2006. Se in quegli anni, in Italia, venne creato l’Osservatorio sulla Torino-Lione diretto da Mario Virano (con il fine di ottenere il consenso degli amministratori al progetto) il governo francese ha creato a dicembre la “Commission du Dialogue”, a cui sono stati invitati a partecipare gli amministratori contrari al progetto (da tempo riuniti in un collettivo) e alcuni tecnici (piloti che hanno a più riprese contestato l’utilità dell’aeroporto). Anche l’ACIPA (Associazione Intercomunale delle Popolazioni e dei Cittadini contro l’Aeroporto) è stata invitata a partecipare a dicembre, ma ha rifiutato, ponendo come prerequisito alla discussione tre richieste: (1) Ritiro delle forze dell’ordine dall’area (2) Fine degli sgomberi e delle distruzioni dei presidi (3) Assicurazione che ogni posizione in relazione al progetto sarà presa in considerazione (compresa quella che in valle è chiamata “opzione zero”, ossia la possibilità di rinunciare completamente al progetto). La Commision du Dialogue non ha, al momento, recepito in modo univoco queste richieste (è stata d’altronde creata, analogamente all’Osservatorio, per decidere non se, ma come fare l’opera) quindi soltanto gli amministratori e i piloti ne fanno parte, mentre ne è esclusa, oltre all’ACIPA, anche l’ADECA (Associazione in Difesa degli Espropriati per l’Aeroporto, fondata nel lontano 1972) che, con l’ACIPA, la Confederation Paysanne della Loira Atlantica (sindacato contadino di sinistra), e molti altri gruppi politici ed ecologisti, costituisce la Coordination des Opposés à l’Aeroport.
Le ragioni dell’opposizione
La lotta di Notre Dame des Landes è ancora più antica di quella contro il Tav, anche se, come quest’ultima, ha avuto il suo vero sviluppo negli ultimi dieci anni. Negli anni Sessanta, all’epoca dell’urbanismo in pieno boom del dopoguerra, lo stato francese ipotizzò un processo di decentralizzazione infrastrutturale del paese. Le città francesi, tutte molto più piccole della capitale (già allora metropoli globale in rapida espansione), avrebbero dovuto connettersi su scala regionale per creare delle “metropoli d’equilibrio”: conurbazioni che avrebbero dovuto svilupparsi sul piano dei trasporti e della produzione/circolazione delle merci. In questo quadro, nel 1963, la regione del “grande ovest” fu investita dal progetto di un enorme aeroporto a due piste, su 1.225 ettari, che avrebbe sostituito il già esistente Nante Atlantique, di dimensioni ordinarie. L’idea però restò sulla carta, perché nel 1973 scoppiò la crisi petrolifera internazionale e una fase di depressione economica si avviò per tutto l’occidente; sempre in quegli anni nacquero le prime associazioni agricole di opposizione al progetto, che avrebbe distrutto una porzione di terreni coltivabili e aree ad alta densità e diversità faunistica e vegetale.
Ciononostante, importanti settori imprenditoriali e finanziari continuarono a spingere per la realizzazione del progetto, anche perché, se l’idea dell’urbanismo come sostegno alla sfera della produzione e della distribuzione è caratteristica dei periodi di espansione produttiva, la sua versione in salsa keynesiana (cementificazione e ristrutturazione per irrorare di finanza pubblica il capitale privato, lasciando ad esso i profitti) è sempre buona per i periodi di crisi. Ecco allora svilupparsi la cordata dei “favorevoli all’aeroporto” che, come avverrà con l’Alta Velocità italiana negli anni Novanta, si dotò di un’ideologia tanto flessibile quanto strumentale. Inizialmente, NDL fu detto necessario per permettere l’atterraggio dei nuovi velivoli Concorde; poi, lungo tutti gli anni Settanta, si disse che esso avrebbe fatto di Nantes la nuova “Rotterdam aerea”, ossia il principale luogo di comunicazione via cielo tra Europa e America. Negli anni Novanta, accantonata questa idea con la ridefinizione degli scambi e delle traiettorie a livello globale, NDL è divenuto addirittura il possibile “terzo aeroporto parigino” (l’idea forse più forzata, vista la distanza geografica e la concezione ispiratrice decentralizzante del progetto originario).
Nel 2000, dopo nove anni di euforia finanziaria nel nuovo mondo senza socialismo reale, il governo socialista di Lionel Jospin ha resuscitato il progetto, anche se proprio alla vigilia della grande crisi del trasporto aereo seguita agli eventi dell’11 settembre 2001, e della fase di guerre globali e contrazioni dei consumi che ne è seguita. In risposta al rilancio del progetto nove cittadini della zona fondano la già citata ACIPA, che raccoglie in poche settimane 3.500 iscritti. Nel 2002 viene creata una commissione istituzionale di studio, che nel 2007, quando Nicolas Sarkozy è presidente, giudica NDL “progetto di pubblica utilità”, ciò che viene confermato da un indirizzo ufficiale del governo all’inizio del 2008. 3.000 persone sfilano a Nantes in segno di protesta contro questa decisione, avviando la fase della resistenza, e la Comunità dei Comuni d’Erdre e Gresvres (una serie di paesi dei dipartimenti della Loira) si oppone con un ricorso alla magistratura, che però perderà. Nello stesso anno il governo lancia la gara d’appalto, che viene vinta dal Gruppo Vinci, gigante della gestione aeroportuale, autostradale e dei parcheggi, mentre sul territorio si formano la Coordination des Opposés (2007) e il collettivo degli amministratori contrari all’aeroporto (2008).
L’opposizione si informa e fa circolare le informazioni, affinché chi abita il territorio possa difendersi dalla retorica della potente lobby Vinci e del governo. Decine di pamphlet e opuscoli sono prodotti per smentire l’ideologia di una necessità obiettiva dell’opera, senza la quale la Francia e la Loira sarebbero perdute. Anzitutto gli oppositori ricordano che un’istituzione per la programmazione dell’intervento sull’ambiente, creata da Sarkozy stesso nel 2007 (la Grenelle de l’Environment) aveva dato parere negativo alla costruzione di nuovi aeroporti. In secondo luogo, si contesta che l’aeroporto già esistente, il Nantes Atlantique, debba essere sostituito, perché non appare vicino alla saturazione: gli aeroporti di Ginevra, Gatwick e San Diego, che sono interessati da movimenti da tre a cinque volte superiori, e da un numero di passeggeri fino a 11 volte superiore, possiedono una superficie della pista e una superficie totale analoga o inferiore a Nantes Atlantique. Il nuovo NDL avrebbe ben due piste, per una superficie su pista doppia rispetto a San Diego e Nantes Atlantique, e una superficie totale di quasi quattro volte San Diego e Gatwick; e questo nonostante le previsioni governative (verosimilmente gonfiate al rialzo) siano di un numero di passeggeri/movimenti aerei della metà o di un terzo rispetto a Ginevra, Gatwick e San Diego.
Allora, ci si può chiedere, perché i governi francesi di sinistra e di destra si ostinano a perseguire questo progetto? Apparentemente, esso non soltanto è nocivo agli abitanti e al territorio, ma è irrazionale sul piano stesso dello sfruttamento capitalistico dello spazio. L’urbanistica, tuttavia, non è esclusivamente l’accompagnamento servile delle scienze urbane ai movimenti di capitale; è il capitale finanziario stesso che, alla disperata ricerca di settori di investimento non saturi (ad esempio territori non edificati), individua prima lo spazio da saturare e successivamente propone giustificazioni, tanto in termini economico-strategici quando con l’ideologia di un interesse collettivo indifferenziato e astratto. Come nel caso del Tav, infatti, nulla è comprensibile di Nantes NDL se non si tengono in conto i legami tra potere politico e potere economico, funzionari e lobbies. Il costo del progetto è stimato dallo stato in circa 550 milioni di euro, ma la porzione statale di investimento (soldi pubblici che sarebbero regalati a Vinci per la costruzione dell’opera, la cui gestione sarebbe poi completamente privata) è salita dal 16% nel 2008 al 44% nel 2010.
Naturalmente è soltanto un caso se Bernard Hagelsteen, prefetto della Loira Atlantica (il dipartimento dove è situato il sito), sia divenuto manager di Vinci Autoroutes subito dopo il suo mandato, e se Nicolas Notebaert, consigliere tecnico del ministero dei trasporti tra il 2000 e il 2002 (gli anni in cui il progetto è stato “resuscitato” da Jospin) è in seguito divenuto presidente di Vinci Aeroports. Gli oppositori negano allora, con evidente ragione, che si tratti di “utilità pubblica”, ma affermano l’evidenza di una svendita di denaro pubblico ad interessi privati, per di più attraverso la distruzione di centinaia di ettari di terreni che metterebbe in ginocchio l’agricoltura di prossimità di quella parte della Loira. Utilità pubblica e strategia a lungo raggio sarebbero, per gli oppositori riuniti nel coordinamento, investire sul treno come mezzo meno inquinante e costoso (considerato che il prezzo del petrolio, che era 30 dollari al barile nel 2002, ha oscillato tra i 100 e i 140 dopo il 2008) e, se davvero necessario, ristrutturare l’aeroporto già esistente, oggi ampiamente sottoutilizzato.
La ZAD
La contestazione dell’aeroporto è portata avanti, tuttavia, anche in nome di un rifiuto generalizzato della società capitalista e dei suoi piani di sviluppo. Dal 1974 lo stato francese ha dichiarato l’area dove dovrebbe sorgere l’aeroporto Zone d’Aménegement Différé (ZAD); i primi occupanti che si sono installati sulla zona nel 2008, dopo la ripresa delle mobilitazioni a Nantes, l’hanno ribattezzata ironicamente, invece, Zone à Defendre, zona da difendere. Con l’organizzazione di un Climat Camp internazionale sull’area, nel 2009, il numero degli occupanti è ulteriormente aumentato, fino a raggiungere il suo picco con la tensione politica dell’estate/autunno 2012. Oggi sulla ZAD vivono almeno un centinaio di persone, e migliaia l’attraversano per pochi giorni o per mesi, vivendo una forma di resistenza che è anche sperimentazione di differenti relazioni sociali. Alla ZAD è in atto, in effetti, un processo di ricomposizione dinamico di una parte del tessuto giovanile francese.
La società dei consumi, con la sua totalitaria organizzazione mercantile della vita – traslata fin sul piano della produzione creativa delle forme e dei segni, dei piaceri e degli affetti – produce da decenni un rifiuto ambivalente da parte di alcuni settori sociali, soprattutto giovanili. La tendenza a preferire il viaggio alla stabilità, i tempi liberati dal lavoro all’ossessione dei consumi o della carriera, o un’idea di ricchezza diversa da quella che il capitale propone in cambio del furto del 90% del proprio tempo e delle proprie energie psicofisiche, esiste da decenni in Europa come in America, e in tutto il mondo. Se non si tratta di un movimento politico in senso organizzato, ma di un movimento sociale nel senso etimologico e dinamico dell’espressione, esso è dotato di una politicità intrinseca. È l’effetto concreto di milioni di piccole scelte di vita, che permettono a molti di sottrarre parte della propria esistenza a ritmi e logiche di cui non comprendono il senso, o delle quali il senso è loro fin troppo evidente.
Le centinaia di ettari di campagna paludosa, costellata di boschi, che formano la ZAD hanno funzionato da calamita per la fazione più radicale di questa gioventù, in Francia. In molti vivono qui ormai da tempo, ma va detto che, nelle birrerie, nei posti occupati e nelle università di tutta la Francia è facile incontrare qualche mente curiosa o critica che parte l’indomani per la ZAD, o ne è appena tornata. Ci sono stati anche casi di minori che sono fuggiti dalla famiglia per raggiungerla, protetti dalla solidarietà degli occupanti a fronte delle ricerche della polizia. Andare alla ZAD è un’esperienza che non coincide necessariamente con la presenza di un corteo o di una battaglia campale. Si va per aiutare nelle coltivazioni, per costruire delle serre o delle amache, dei ponti o delle cucine, o semplicemente per respirare l’aria di campagna e sentirsi liberi dalle merci, dal lavoro e dalla legge. In verità, oggi in Francia dire “sono stato alla ZAD” è quasi uno status-symbol capovolto: è simbolo di evasione e resistenza, di tendenza (antagonista) anche; ed è un dovere, in qualche forma, nella misura in cui là c’è gente che lotta e rischia, ed è bene spostarsi, quando si può, per dare una mano. Impossibile non cogliere un’analogia con quanto accade in Italia in riferimento all’esperienza “della valle”…
A Notre Dame des Landes come a Chiomonte, questa soggettività dinamica e parzialmente “sradicata” dai propri territori, o dai valori che a quei territori dovrebbero legarla, è un elemento essenziale non solo della lotta – che allarga la sua potenza di rappresentazione delle contraddizioni materiali – ma del carattere che il rifiuto assume nelle società contemporanee. D’altra parte, non è proprio sulla libertà di movimento che si regge tutta la retorica che vorrebbe giustificare la devastazione per nuove linee ferroviarie e nuovi aeroporti? Allora, ecco qui una voglia di movimento completamente diversa, del tutto contrapposta: migliaia di persone si spostano ogni anno in Italia e in Francia in autostop, condividendo l’automobile, in bici e persino a piedi (se non in aereo o in treno, visto che sovente gli oppositori criticano non la tecnica come tale, ma il segno capitalistico del suo uso sociale) per contrapporsi completamente a progetti che non sentono consoni ai propri interessi e/o al proprio modo di essere. In Italia sono le montagne, in Francia le campagne, ma in entrambi i casi un luogo di lotta diviene polo di attrazione per coloro che sentono di voler rompere con la quotidianità della sottomissione a un potere che possono immaginarsi in molti modi, ma di cui comunque si sentono nemici.
Ciò che ha permesso a questi soggetti di attraversare esperienze di lotta dal grande potenziale liberatorio è stata (ed è), in ogni caso, l’opposizione che questi progetti hanno già trovato sul terreno, sedimentata dalle popolazioni locali. Queste ultime hanno senz’altro, al loro interno, alcuni elementi inclini alla sperimentazione di nuove relazioni, ma il modo in cui queste relazioni vengono immaginate e desiderate è tutt’altro che unanime tra i soggetti e gli individui coinvolti. Talvolta persone che sono contro il Tav, o contro l’aeroporto, perché non vogliono la devastazione del proprio territorio, accolgono con scetticismo e persino fastidio i giovani che arrivano sulle loro terre per contribuire alla lotta, mantenendo una silenziosa opposizione tanto “all’opera” quanto “al movimento”. Il 3 febbraio il quotidiano “France Ouest” ha dedicato una pagina intera (con evidenti intenti strumentali) alle dichiarazioni, rigorosamente anonime, di cittadini del luogo che sostenevano di essere danneggiati dalla presenza degli zadisti. È un fatto di cui non va esagerata la portata, ma che sarebbe ipocrita sottacere, anche perché è interessante: è proprio una certa “rigidità”, anche culturale se si vuole – ora montana ora contadina, in provincia di Torino come nella Loira – ad aver permesso lo sviluppo di opposizioni che sono durate negli anni e nei decenni, e che hanno formato uno sbarramento ad alcuni progetti concreti del capitale.
Questo istinto montanaro/contadino di attaccamento al territorio ha contribuito, in modo non necessariamente prevedibile, ad alimentare movimenti che vogliono cambiare completamente l’esistente, fuggire da esso, o esibiscono il carattere affermativamente precario, de-territorializzato e sradicato della gioventù contemporanea. Movimenti per la tutela, quindi, e al tempo stesso per la distruzione dell’esistente? Movimenti per la tutela di animali, prati e boschi, ma per la trasformazione dei rapporti sociali? La resistenza alla devastazione ambientale è ciò che unisce, a ben vedere, la scelta delle relazioni sociali da costruire/sperimentare/attaccare è, potenzialmente, ciò che divide. Per un paradosso storico, vasti settori delle popolazioni valligiane o contadine si ritrovano infine fuori dai loro panni, a voler moderare le tendenze più radicali di secessione dalla società presente, rivendicando la loro volontà di restare dentro una certa “modernità” o “civilizzazione” di matrice capitalista, anche se in modo diverso da quello loro prospettato dal potere politico ed economico. Molto sovente la componente locale della lotta (quella senza cui essa sembrerebbe perdere di significato) reclama la propria volontà di vivere una vita tranquilla, di fare il proprio lavoro in modo dignitoso, di curare la propria famiglia, di avere il “tempo libero” indispensabile per passeggiare su un territorio non completamente cementificato. Rivendicazioni modeste, anche se già in irriducibile conflitto con i piani dello sviluppo capitalistico, che segnalano la distanza tra questa idea di vita e quella, propria di chi ha scelto altre strade, che ricerca la negazione della distinzione stessa tra tempo libero e tempo dedicato al lavoro.
Diversi soggetti, un’unica lotta?
Queste differenze non si imparano dai giornali, pessimi riferimenti per la conoscenza dei movimenti sociali, ma dall’attraversamento concreto della ZAD e del suo territorio. L’azione di semina del 13 aprile ha radunato 3.500 persone, che si aggiravano per i presidi e per i campi sotto una pioggia incessante che ha reso il terreno paludoso, ma che non ha impedito che un po’ ovunque si tenessero banchetti a prezzo libero, condivisione di bevande, momenti di socialità, e che nuove capanne e serre venissero costruite collettivamente – finché, la domenica, non è arrivato anche il sole. Durante il pasto Philippe racconta la sua esperienza: “Io sono originario di Parigi, ho sempre vissuto in occupazioni di case, anche in Italia, per molti anni. Tre mesi fa sono venuto a vedere la ZAD per passarci tre giorni e non me ne sono più andato”. Una vita senza istituzioni, senza proprietà e senza mercato, questo è quello che sembra interessare a Philippe. Alexandra, italiana in Francia da diversi anni, racconta dei primitivisti che coltivano alcuni settori della ZAD senza macchinari o prodotti chimici, vivendo senza luce e senza gas, contrari a qualsiasi forma di “civilizzazione”. Per loro, racconta, anche l’idea di prendere un appuntamento è autoritaria: perché dovremmo imporci dei doveri riguardo al futuro, foss’anche di qui a poche ore?
Presso i presidi compaiono volantini dove emerge la critica della condizione contadina per come è stata imposta dal “capitalismo verde”: individui espropriati del loro rapporto comune con la terra da parte del grande mercato agricolo, dagli interessi nazionali e da quelli capitalistici; comunità di operai della terra che hanno vissuto nei decenni l’evoluzione contraddittoria del loro rapporto con le macchine. Come nelle fabbriche, il rapporto con il lavoro e con la tecnica è centrale nella riflessione sulla trasformazione dei rapporti di produzione; in effetti ciò che ha avuto luogo nei secoli, nelle campagne europee e poi mondiali, è l’applicazione all’agricoltura del sistema industriale, legato all’automazione tanto della materia (i macchinari) quanto, in senso lato, dei movimenti umani. Non sembrano mancare alla ZAD tendenze che rifiutano non soltanto il capitalismo come sistema di sfruttamento dell’essere umano, ma la società industriale come tale (la quale, di per sé, non è necessariamente da pensarsi in un certo modo di produzione).
Primitivismi o meno, molti zadisti condividono una critica profonda della città, dell’urbanesimo e della tecnologia. COPAIN (Collettivo delle Organizzazioni Professionali Agricole INdignate) sembra essere un’eccezione a questa regola: è un gruppo organizzato che ha occupato una fattoria poche settimane fa. Il proprietario era stato espulso dalla polizia e se ne era andato senza resistere, ed aveva anzi distrutto il quadro elettrico, prima di andarsene, per sabotare l’occupazione: “Inizialmente sembrava una brava persona, poi si è capito che era un coglione”, spiega uno degli occupanti. Alcuni attivisti di COPAIN offrono caffè a chi ha dormito nelle tende, e spiegano che in questo tempo di corruzione politica e crisi lottare contro l’aeroporto significa anche anzitutto rivendicare il valore del lavoro umano sulla terra.
Philippe, che sembra aver trovato qui il suo luogo naturale, ha un’altra visione. Gli chiediamo quali siano rapporti tra gli occupanti della ZAD e le associazioni di cittadini contro l’aeroporto: “Fortunatamente – dice – abbiamo quasi eliminato questi rapporti. Si tratta di realtà legate alla società capitalista, alla logica del lavoro, e non di rado hanno rapporti di interlocuzione con chi comanda”. Non si tratta di una visione residuale alla ZAD, se è vero che molti considerano l’ACIPA e l’ADECA quasi alla stregua di nemici, come si legge anche su diversi siti. È possibile, allora, pensare al movimento contro l’aeroporto come a un soggetto politico, un po’ come avviene con il Movimento No Tav? Henriette, militante parigina, spiega che a Notre Dame des Landes le cose sono diverse rispetto alla valle. “Esiste una pluralità di livelli, ora formali ora informali, che costituisce l’insieme della lotta. Nella ZAD ben pochi accetterebbero di identificarsi in un gruppo, in un collettivo permanente, in un’assemblea permanente: tutto ciò è rifiutato, così come l’idea di cittadinanza presupposta dall’ACIPA, cui quella di autogestione viene contrapposta. Frizioni e contraddizioni emergono continuamente dentro la ZAD, o tra qualcuno nella ZAD e il movimento dei residenti e dei contadini”.
Ciò che dice Henriette diviene palese il 14 aprile, quando ha luogo, presso la grande stalla chiamata “La Vache Rit”, l’assemblea generale di tutti i comitati di sostegno (circa 200) che sono nati in Francia in seguito alla battaglia dell’autunno (e non sono mancate nuove piccole ZAD, inaugurate qua e là contro altri progetti di cementificazione sul territorio nazionale). Il presidente del coordinamento ne approfitta per lanciare la partecipazione a una catena umana che è stata organizzata per l’11 maggio attorno ai terreni espropriati, ma subisce una contestazione: l’iniziativa non è stata discussa, gridano alcuni dei presenti. Ne nasce una bagarre: “L’iniziativa è stata discussa in più occasioni in seno al coordinamento, ed è un’iniziativa del coordinamento; occorre avere fiducia, come noi abbiamo avuto fiducia negli zadisti per l’iniziativa della giornata di ieri” risponde il presidente. Marie, sulla cinquantina, contadina espropriata e appartenente all’ADECA, prende il microfono: “Volete capire cosa significa abitare qui, avere tutti i giorni un’occupazione militare della polizia e tensione attorno? Noi siamo ben felici che tutti possano contestare il mondo che l’aeroporto incarna, ma abbiamo anche una lotta concreta da portare avanti. Ricordiamo che la lotta è anzitutto lotta contro l’aeroporto!”. Un uomo dalla lunga barba grigia grida: “Venite nelle citées, venite nelle banlieues delle città, e vedrete chi è abituato da tutta la vita a subire l’occupazione militare! Ora tocca anche a voi!”.
Un uomo del sud dichiara che in molti non verranno alla catena umana, perché non condividono la forma di lotta, che non è stata discussa fuori dal coordinamento, e un altro gli risponde: “Vinci ve ne sarà grata!”. Una ragazza interviene per i comitati della Bretagna, che si rifiutano di intervenire con il resto dell’ovest francese, perché incarnano una diversa tendenza politica: “Bisogna gettare merda sugli amministratori, perché sono dei rappresentanti, e sono i rappresentanti che ci gettano nella merda!”, e propone una giornata nazionale contro la repressione. Un uomo, verso la conclusione, prende il microfono e dice: “Noi viviamo qui, lottiamo contro questo progetto da prima che molti di voi arrivassero o addirittura nascessero; abbiamo lottato, lottiamo e siamo giudicati in tribunale per questo. Sappiate che non ci lasceremo insegnare da nessuno quello che dobbiamo fare; la solidarietà e il contributo dall’esterno sono i benvenuti, gli occupanti della ZAD sono i benvenuti, ma soltanto finché avranno rispetto, e non disprezzo, per chi qui lotta da quarant’anni”.
Pluralità e contraddizioni
Dopo l’assemblea diverse persone vanno a parlare con Marie: “Voi siete dei proprietari!”, le dicono; “Ma certo… Questo è il nostro lavoro, e non è facile farlo quando da un lato lo stato ti espropria e ti reprime, e dall’altro l’area è invasa da persone che lottano, sono solidali, ma talvolta hanno atteggiamenti sprezzanti… Senza contare l’abuso che di stalle come questa è stato fatto per mesi, con tutta la sporcizia lasciata a marcire!”. Le viene risposto un’altra volta che “finalmente” anche loro vedono cos’è la repressione, loro che prima non l’avevano mai vista. Aggiungono: “Pensi, signora, alla Val di Susa!”, ma il genere di polemica sembra rendere proprio quel riferimento fuori luogo. Le dicono che sì, è vero, talvolta alcuni hanno comportamenti inammissibili, ma è richiesta tolleranza data la situazione. “Tu non sai quanto sono tollerante…”, risponde lei, sorridendo, e quando lui le fa notare che ci sono le assemblee per risolvere i problemi, lei esclama: “E’ vero, ma ad ogni assemblea sulla ZAD la maggior parte della gente non è più la stessa!”. Infine, quando le dicono che il coordinamento è costruito per delega e non con l’autogestione, lei nega che ciò sia vero, sostenendo che le associazioni locali non si costruiscono sulla delega e sono per l’autogestione di base della lotta.
I rapporti tra coordinamento locale e zadisti appare ambivalente e complesso. Se prevale, nei fatti, l’unità contro il progetto (la solidarietà alla ZAD da parte del coordinamento è stata inequivocabile nei mesi di ottobre e novembre), si tratta di due mondi che sembrano avere qualche difficoltà a capirsi. La parte più attiva e mentalmente aperta degli abitanti dell’area accetta e talvolta apprezza le sperimentazioni sociali che avvengono sui terreni, ma non sembra interessata a farne parte – in ogni caso non a tempo pieno – adducendo come giustificazione anche un’organizzazione della settimana basata sul lavoro. Questa parte attiva dei contadini, inoltre, non sembra volersi far imporre valori e modi di essere che considera talvolta estranei ai propri orizzonti esistenziali. Tra gli zadisti, d’altra parte, non mancano quelli che non vedono l’ora di separarsi da questa gente, e proseguire da soli una battaglia che sembra basarsi più sulle forme di vita che sull’accumulazione di forza sociale per bloccare il progetto, o per distruggere il suo mondo.
Le frizioni si vedono in molti campi, e attraversano la stessa zona occupata. Ai primi di gennaio alcuni zadisti si sono accordati con il coordinamento e hanno lanciato il “FestiZAD”, tre giorni di concerti e iniziative sui terreni espropriati, cui hanno partecipato 20.000 persone da tutta la Francia e dall’estero per assistere ai concerti di Kenny Arkana, di molti altri artisti e dei dj techno, reggae e dub delle più diverse tendenze. I partecipanti, tuttavia, hanno potuto toccare con mano che non per tutti erano i benvenuti. Da un lato, la polizia ha impedito l’accesso all’area attraverso le strade, così che decine di migliaia di persone dovessero attraversare chilometri di fango e fili spinati (l’ACIPA ha offerto un servizio medico d’urgenza per chi si è sentito male o si è ferito). Dall’altro, vari raggruppamenti zadisti non si sono mostrati più accoglienti; centinaia di manifesti sono stati affissi con frasi del tipo: “Se vuoi essere il benvenuto, vieni dopo il festival” oppure “Questo è un luogo di lotta, non di divertimento!”. Secondo Henriette questo atteggiamento è stato inaccettabile: “Il FestiZAD era un momento per tutti i giovani francesi di partecipare alla lotta nella forma della festa, poche settimane dopo avervi partecipato in altre forme con l’operazione Asterix: non si può pretendere che la Francia intera viva sulla ZAD, né che essa appartenga soltanto a chi ha fatto la scelta di viverci. Altrimenti, che luogo di lotta sarebbe?”.
Non manca chi vive la ZAD, secondo Alexandra, “accontentandosi di ciò che sembra un soddisfacimento immediato, esistenziale; per questo temo – dice – che vi siano anche tendenze alla ghettizzazione”. Qui non esiste ciò che, in Valsusa, è il Movimento, che firma le proprie dichiarazioni e, attraverso i comitati e le assemblee, parla di sé e di ciò che lo riguarda. L’ACIPA, l’ADECA, la Confederation Paysanne e il coordinamento non hanno, come avveniva fino a qualche anno fa, una sorta di esclusiva della lotta e della sua rappresentazione; da quando è nata la ZAD iniziative e programmi contraddittori possono avere luogo sullo stesso terreno, non senza lacerazioni e reciproche accuse. Il coordinamento appoggia pubblicamente la ZAD (fenomeno in sé illegale) e ha sostenuto i manifestanti anche dopo duri scontri con la polizia, ma rifiuta, ad esempio, di appoggiare tutte le azioni portate avanti in nome dell’opposizione all’areoporto. “Ci sono stati casi – racconta Henriette – in cui associazioni di residenti hanno preso le distanze da alcune azioni compiute da gruppi di individui, anche contro l’occupazione, sostenendo che le azioni vanno condivise, compiute nell’interesse generale della lotta, ecc.”. All’assemblea, non a caso, il presidente del coordinamento ricorda (tra applausi e fischi) che, se ognuno è libero di lottare come crede, il coordinamento assicura solidarietà, sul piano della repressione, soltanto a ciò che avviene nel quadro di azioni che sono state condivise.
Fino alla fine del dialogo
Il carattere impuro della lotta No Tav ne ha fatto, in Italia, l’unica ripresa efficace sul terreno della forza, della contrapposizione, dell’autonomia dei movimenti. L’accostamento spaesante, e cionondimeno unificante, di diverse idee su cosa significa opporsi “all’aeroporto e al suo mondo” ha costruito analogamente, in Francia, un centro di resistenza, lotta, immaginario e ricomposizione politica che promette maggiore continuità rispetto ad altre – potenti ma fugaci – mobilitazioni d’oltralpe. In tutti e due i casi, il dominio del capitale finanziario sulle forme di vita, non soltanto umane, e sui territori è messo in discussione più nella pratica che con le teorie; i legami tra delega rappresentativa democratica e devastazione, tra mandato politico formale e mandato reale dell’interesse capitalista sono messi a nudo e criticati in modo efficace. A Notre Dame come in valle, una generazione di giovani indisponibile all’accettazione dei rapporti sociali esistenti si confronta con il gigante-stato e il gigante-capitale, non meno che con il gigante-comunicazione, e con quegli oggetti più o meno misteriosi della tradizione rivoluzionaria che sono “la classe” “il popolo” “lo stato”, la stessa “rivoluzione”.
Molto di ciò che sapremo produrre in Europa nei prossimi anni – sul piano dei conflitti sociali – dipende dall’esito di queste lotte, anzitutto in rapporto al forgiarsi di nuove energie, nuove intelligenze e nuove soggettività. A Notre Dame des Landes “cittadini” e “rivoluzionari” non hanno scelto di mescolarsi fino in fondo, come è accaduto nei comitati valligiani, strutture al tempo stesso informali e organizzate, ma continuano – come in Europa accade da decenni – a guardarsi e a parlarsi da fronti diversi e spesso distanti, separati da un’alternativa netta tra statuto giuridico del sindacato (o dell’associazione) e rifiuto di ogni sedimentazione organizzativa, talvolta persino collettiva. La discussione è aperta, qui come in valle e in ogni dove, su quale sia la strada vincente contro le Grandi Opere, su quali siano le priorità e le strategie, su che cosa, a ben vedere, sia “il mondo dell’aeroporto” da cui ci vogliamo liberare. Non saranno le discussioni, tuttavia, ma l’azione e la sua efficacia, a decidere l’esito tanto delle battaglie contro le grandi opere, quanto di quella contro il mondo che le produce.
“L’ACIPA è un’organizzazione legale e nonviolenta, quindi è incompatibile con la lotta per la libertà” dice Nicolas, originario di Poitiers, abbandonando la ZAD dopo il weekend di festa e di lotta. “Tuttavia – aggiunge – se vorremo organizzare grandi manifestazioni, loro saranno indispensabili: solo loro garantiscono grandi numeri”. “Non bisogna diffidare di chi ha un lavoro e una famiglia, e magari i capelli grigi” gli risponde Gilles, attivo nei movimenti francesi fin dal 1968; “Molti di loro sono stati radicali in gioventù, in molte forme, e quelle memorie possono produrre comportamenti forti anche oggi”. Anna, italiana, si accosta e interviene nella discussione: “Sono proprio i cittadini di sinistra il problema: sono quelli che hanno l’ideologia del dialogo con le istituzioni e della non-violenza. Molto meglio sono le persone comuni, che non hanno ideologia e, se si dicono non-violenti, intendono che non sono dei pazzi che farebbero del male al prossimo senza motivo; ma quel genere di persone, pacifico ma non stupido, abbiamo visto in Val Susa che è pronto a rispondere se si sente attaccato, ed è pronto a resistere accanto ai compagni quanto sente che è giusto!”. Gilles e Nicolas sembrano un po’ stupiti da questa prospettiva, ma si dicono d’accordo. Dovranno metterla alla prova assieme a tutti gli altri, probabilmente, quando la “Commission du Dialogue” avrà terminato la sua messinscena, e la gendarmerie farà il suo ritorno in grande stile.
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