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Obama tira il fiato: il ‘Fiscal Cliff’ non passa per un pelo

Dopo l’intesa al Senato nella notte del 31 dicembre 2012 per evitare l’entrata in vigore dei tagli e quel che rimane del welfare statunitense, oggi si esulta per l’approvazione alla Camera del pacchetto varato al Senato che prevede l’aumento delle tasse per coloro che guadagnano oltre 400mila dollari l’anno o per le coppie che ne incassano oltre 450mila. Legge passata alla Camera dunque, con 257 voti a favore e 167 contrari, esorcizzando così l’incubo.

A far oscillare l’ago della bilancia in questa sfida tra repubblicani e democratici, le conseguenze che il Fiscal Cliff avrebbe comportato sull’opinione pubblica e sui mercati finanziari, che ancora una volta comandano su tutto, inseguiti da una ripresa fantasma che stenta a mostrarsi. Ma oltre i sorrisi amari dei repubblicani e quelli tirati dei democratici, la goccia di sudore non sembra essere ancora del tutto asciugata: il provvedimento infatti, tralascia – rinviando di 2 mesi – i tagli alla spesa pubblica. E allora, la tanto proclamata vittoria sul Fiscal Cliff è una vittoria – se così possiamo chiamarla – a metà, mentre i tagli indiscriminati e automatici alla spesa per 110 miliardi di dollari è ancora uno spettro che si aggira nell’economia americana. Tagli che indubbiamente saranno difficili da evitare. Anche se l’amministrazione statunitense cercherà (come?) di rendere dolce questa pillola amara, non si può tenere conto di quel ceto medio, ormai ex, che in seguito alla crisi si è vista declassata, impoverita e che cerca di ricomporsi con le lotte di un proletariato senza futuro.

Significativi e curiosi sono i continui richiami nei discorsi di Obama, ad una mitologica middle class che ormai si può considerare distrutta e vivente solo nei processi di polarizzazione. Ma a caratterizzare l’amministrazione attuale statunitense è certamente un risveglio non dei migliori: dal sogno “Yes we can!”, ora Obama si difende autoproclamandosi il “meno peggio”. Un contentino che ai cittadini e alle cittadine americane forse non basterà e che potrebbe caratterizzare una svolta verso la crisi della rappresentanza, riprendendo magari quelle istanze e quelle dinamiche processuali aperte/suggerite dal movimento Occupy.

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