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Provincializzare l’eurocrisi

 

È da tempo che quasi ogni incontro dei vertici della Ue o della Banca Centrale viene spacciato come quello decisivo per la moneta unica giunta all’ultima spiaggia. Contano qui i ritmi parossistici e ultimativi dettati dall’informazione-spettacolo e dai “mercati”, ma anche una strategia di pressione che ogni volta di più deve ribadire le coordinate ammesse della scenografia della crisi. Sul banco degli imputati chi non vuole aprire i cordoni della borsa per “salvare” l’euro a rischio di riportare l’economia mondiale nelle secche della recessione; tutto intorno i questuanti della “periferia” europea che avendo imparato da bravi a svolgere i loro compiti a casa meritano di non essere immolati come la Grecia sull’altare dell’austerity proprio ora che hanno riscoperto la crescita; a lato lo zio d’America, saggio democratico e multiculti, che forse in gioventù ha vissuto un po’ troppo a credito ma ora riscopertosi verace keynesiano sta salvando il mondo con i più grossi stimoli monetari della storia se non fosse per… È possibile un’analisi di quanto accade restando dentro questo tipo di lettura semicaricaturale che va per la maggiore?

La riunione della Bce del due agosto ha rappresentato l’ennesimo momento di scontro e ridefinizione tra spinte contrastanti nel quadro di una crisi che è ben lontana dal vedere qualunque luce in fondo al tunnel. Ma per decifrarne attori e fattori determinanti bisogna disfarsi della narrazione che vuole l’eurocrisi come prodotto innanzitutto degli squilibri intraeuropei aggravati dall’egoismo di Berlino. Non che questo non c’entri ma la crisi è globale, è esplosa negli States e la strategia di Washington/Wall Street è stata ed è quella di spostarne l’epicentro via dal cuore dell’impero. Inutile parlare di finanza se non si parte dagli assetti determinati ed egemonici del sistema-mondo. Miope prendersela con Berlino – l’anti-merkelismo è oramai  un asylum ignorantiae, a destra come a sinistra – se si volge lo sguardo via da Washington.

 

Il vero convitato di pietra dei vertici europei è infatti Obama che ha detto chiaramente che l’Europa è il problema. Non è (solo) un escamotage per far dimenticare agli elettori per le prossime presidenziali il fallimento del fu promesso change. È che l’economia statunitense è letteralmente incartata, probabilmente già in recessione, col patrimonio dei ceti medi sceso del 30-40% e nessuna prospettiva di ripresa dell’occupazione. La bolla è stata duramente pagata all’interno, eppure non è bastato, mentre l’effetto degli stimoli federali e dell’enorme liquidità immessa dalla Fed  risulta a ogni nuova tornata sempre più flebile. Il keynesismo di soccorso alla finanza è miseramente fallito (i neo-keynesiani europei hanno le orecchie dure al riguardo). Se non si riesce a scaricare la crisi altrove le cose si mettono male. Di qui una duplice spinta convergente: da un lato le scommesse della finanza anglosassone contro i debiti sovrani europei, già gonfiati dai salvataggi statali delle banche, dall’altro le pressioni crescenti di Washington perché venga mutualizzato in qualche forma il debito europeo così da far attingere i mercati alle casse di… Berlino. Il debito si ripaga con il debito ipotecando gli asset altrui e manovrando con il dollaro moneta mondiale contro ogni potenziale rivale. Coi risvolti geopolitici del caso: rovesciamento della primavera araba e rinnovato patto con il sunnismo salafita, proxy war in Siria e venti di guerra sull’Iran (ma forse toccherà prima al Libano dove Israele potrebbe sfruttare il caos siriano per saldare i conti con Hezbollah), strategia pivot in Asia Orientale a evitare ogni “sganciamento” cinese dal doppio legame col debito Usa…

I tempi si fanno stretti per l’amministrazione statunitense, la Fed ha già messo in conto l’ennesima immissione di liquidità con un terzo quantitative easing, e non solo per dare una spintarella alla rielezione di Obama se è vero che i rally delle Borse ne dipendono oramai come da una droga. Da novembre, chiunque venga eletto, si aprirà comunque un vero e proprio dilemma per la potenza a stelle e strisce: continuare a tenere in vita le grandi banche zombie pena però una stagnazione economica alla “giapponese” oppure ripulire una parte del debito liquidando anche un bel po’ di finanza interna ma mettendo così a rischio la credibilità internazionale del dollaro? Con l’aggravante che anche ammesso che si possa dare concretamente questa seconda opzione – che comunque necessiterebbe di una spinta dal basso che la presidenza Obama ha così ben saputo evocare e subito congelare – è tutto da vedere se gli States siano oramai in grado di mutare un modello di accumulazione pesantemente sbilanciato sul lato della finanziarizzazione. In una battuta, è possibile a questo punto una crescita senza ripetute bolle? Ci sono i tempi per una radicale inversione di tendenza verso l’insourcing di produzioni delocalizzate e non comporterebbe ciò un duro scontro con Cina e gli altri Brics?

 

È in questo quadro che vanno inserite sia l’accresciuta pressione di Washington su Berlino sia la corrispondente resistenza tedesca. Ne ho tentato un’analisi complessiva nell’articolo Chicken Game: ancora sull’eurocrisi. In sostanza, all’economia del debito sotto il comando del dollaro, non in grado fin qui di tracciare un’efficace exit strategy dalla crisi, il governo tedesco sta in qualche modo contrapponendo – senza voler andare allo scontro aperto con Washington – una linea di mediazione. Merkel punta ad una ripartizione mondialmente concordata di parte degli “eccessi” di debiti/crediti esistenti nel mentre l’industria teutonica rafforza la propria base e i legami economici con Russia e Cina. È quello che abbiamo visto negli ultimi mesi: imposizione di un default “ordinato” alla Grecia con perdite parziali anche per le banche; accollamento dei debiti bancari sugli stati della “periferia” per bloccare con le ricette di risanamento una crescita ulteriore della bolla che aprirebbe ulteriormente le porte alla finanza transnazionale; riaccentramento dell’industria europea (assisteremo al salvataggio interessato di quanto residuerà dell’apparato produttivo italiano decimato da crisi, sottocapitalizzazione e deindustrializzazione alla Marchionne?); aggancio alla crescita cinese.

È una strategia tutt’altro che miope ma solo abbozzata e spesso contorta, con molti punti deboli e una lacuna essenziale. Tra i primi, decisivo è l’intreccio difficilmente controllabile tra una politica che non vuole fare grossi sconti agli stati europei in crisi in termini di mutualizzazione dei debiti – pena il sovvenzionare coi propri assets la bolla della finanza transnazionale e la politica della Fed americana – e però il non poter offrire ai paesi sottoposti alla cura rigorista ritorni immediati. Ne è un risvolto il montante sentimento antitedesco, i più avvertiti in Germania ne sono preoccupati, tra le popolazione europee che ne devono sopportare gli effetti devastanti. La lacuna essenziale: il non prospettare chiaramente (perché non preparati? paura che sfugga di mano?) la necessità di uno scontro con gli States propinando in assenza di ciò all’opinione pubblica tedesca, da parte sua ben predisposta, il refrain formiche nordiche/cicale meridionali con le “colpe” dell’eurocrisi ributtate sui Piigs. Su queste basi si stanno aprendo delle falle nella strategia tedesca – come nella vicenda del varo travagliato del nuovo fondo salvastati – falle che Merkel al momento pensa di poter ancora gestire. Ne risultano però amplificate sia le difficoltà per Berlino nel resistere alla crescente pressione statunitense e dei mercati, sia le oscillazioni tra mezze aperture verso le richieste di “aiuto” di Spagna, Italia, Grecia ecc. da un lato e il tener duro dall’altro sul no a eurobond, alla mutualizzazione dei debiti, a salvataggi senza rigide condizionalità per gli stati che li richiedono (nei prossimi giorni la Spagna, prossimamente l’Italia). La costruzione europea e la moneta unica rischiano così di incartarsi se non di rompersi definitivamente contro la volontà e a danno della stessa Germania che a ben vedere è l’unica forza in grado di salvarla dal caos globale.

 

Impossibile prevedere anche solo da qui a poco cosa succederà. Il vertice del due agosto ha ribadito nell’essenziale i no tedeschi, risposta chiara alle ingerenze d’oltre Atlantico: il nuovo fondo salva-stati dovrà attendere il parere della Corte costituzionale tedesca mentre gli acquisti Bce di bond spagnoli e italiani, rinviati nonostante il bluff di Draghi, saranno legati a condizionalità fissate da memorandum di intesa con i paesi interessati (come gli aiuti alle banche spagnole). Non è detto che a questo punto avremo la temuta tempesta d’agosto. Può essere che il tutto sia rinviato non essendo interesse né di Obama né di Wall Street il tirare troppo e subito la corda, vista la ritrosia tedesca, a rischio di incasinare l’appuntamento elettorale americano. Lo stillicidio della finanza continuerà in ogni caso, con effetti prevedibili in termini di ulteriore macelleria sociale e, in particolare in Italia, di prelievi sui risparmi con una qualche forme di consolidamento del debito pubblico. Viste però le criticità d’oltre Atlantico e visto che Spagna e Italia sono troppo grandi per fallire senza trascinare con sé la moneta unica così com’è oggi e troppo grandi anche per un salvataggio tedesco, la situazione potrebbe precipitare: verso una sottomissione ai diktat della finanza transnazionale e Usa o verso un’aperta guerra finanziaria giocata sulla pelle delle popolazioni o ancora verso un incasinamento generale…

 

Perché è importante articolare un quadro geopolitico della crisi “provincializzando” l’eurocrisi?

Innanzitutto perché la divaricazione crescente Washington/Berlino e dollaro/euro, al di là degli esiti, è indice importante di quanto profonda sia la crisi in corso, foriera di sconquassi nel quadrante atlantico quali non si vedevano dal secondo conflitto mondiale, per certi versi più di quanto non si dia al momento tra Stati Uniti e Cina (l’altro asse fondamentale dell’ordine mondiale post Ottantanove). Lo scontro è sulla ristrutturazione del rapporto tra produzione e finanza, fondamentale per scaricare altrove la svalorizzazione dell’immane massa di capitale fittizio che si è creata in questi decenni. Se è così, siamo solo agli inizi di processi di violenta ristrutturazione degli equilibri globali e di distruzione di capitali. Un modello è finito, indietro non si torna.

Ma dire geopolitica della crisi significa altresì saper articolare sui diversi poli, qui Obama/Merkel, le diverse strategie capitalistiche senza incorrere nell’errore di pensarle semplicemente intercambiabili. Per andare al cuore del problema, la monetizzazione del debito e la creazione di liquidità – in cui tanti “keynesiani” nostrani, anche a sinistra, vedono la panacea della crisi – è possibile non a tutti gli attori nella stessa misura e non con le medesime conseguenze. Un conto è stampare denaro con il dollaro, moneta mondiale che permette di scaricare sugli altri i deficit, un conto è immettere liquidità sui mercati in altra valuta con il rischio-certezza di aprire le porte alle scorribande della speculazione. Facile essere “keynesiani” con le risorse altrui!

Infine, e fondamentale per una risposta “dal basso a sinistra” alla crisi, c’è uno strettissimo rapporto tra geopolitica della crisi e geopolitica delle lotte. Non è solo questione di diversificazione geografica e sociale delle risposte sociali. C’è una questione di “programmi” e dinamiche possibili da articolare al terreno su cui si muovono le strategie capitalistiche nei diversi quadranti e nel loro intreccio/scontro. Non è uno dei fattori meno rilevanti ad aver pesato in negativo sulle risposte fin qui date [1] il fatto che a fronte delle politiche Ue non si riesca a uscire dalla falsa e sterile polarità austerity/”crescita” e rigoristi/keynesiani. Sui due poli Obama/Merkel si dislocano due exit strategy capitalistiche che in maniera diversa rappresentano entrambe un attacco e un’insidia per ogni prospettiva dal basso contro la crisi, contro ogni illusione di trovare nella sponda americana l’antidoto alle ricette di Bruxelles e Berlino (come invece cercano maldestramente di fare i due Mario salvaItalia). Del resto è facile avvertire anche solo di “pancia” che nessun keynesismo sociale è in vista – non ve n’è traccia manco negli States, dov’è finita la decantata “ripresa” americana? Nessuna “crescita” – del tutto complementare al risanamento dei bilanci pubblici e al giro di vite contro il lavoro [2] – può riportare le lancette all’indietro mentre gli eventuali interventi pubblici, se e quando possibili, non fanno che rialimentare il meccanismo del debito che ha condotto alla catastrofe in corso.

Non solo. La dinamica stessa dello scontro inter-imperiale sta inesorabilmente dislocandosi verso il terreno della “distruzione creativa” di capitali come conditio sine qua non del rilancio dell’accumulazione. Il che, specularmente in prospettiva antagonistica, richiama la capacità di saper accettare lo scontro in punto di riduzione del debito (paradossalmente tema finora più merkeliano che obamiano…). Come declinarlo fuori e contro ogni tentazione nazionalpopolare, o europeista, di sacrifici per il rilancio della competitività e di accettazione dei default dall’alto in vista? Come farne un terreno su cui costruire una prospettiva non di rilancio del sistema ma di lotta al debito in prospettiva antisistemica? Il campo di battaglia non possiamo scegliercelo a piacimento, né i programmi si fanno a tavolino. Con buona probabilità il nodo prossimo da affrontare, in alto e in basso, sarà quello, necessariamente spurio, del Chi paga? per i tagli durissimi in vista. L’importante è delineare da subito delle ipotesi di lavoro e tracciare una linea di tendenza antagonistica da far valere nelle reazioni sociali che covano, che saranno sì confuse ma anche promettenti. Promettenti perché questa volta l’emergere di risposte “riformiste” spontanee e potenzialmente “maggioritarie” si darà senza che una sinistra istituzionale, oramai dappertutto in destrutturazione, sarà in grado di organizzarle incanalarle svuotarle. Il che non toglie che al momento, mentre inizia ad avvertire che non può più vivere come prima, la gente comune ancora vorrebbe vivere come prima. Nuovi desideri si faranno avanti…

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