Regionali 2015, una prima battuta d’arresto del renzismo?
A pagare la lontananza di massa dal seggio è stato il PD, uscente con un consenso dimezzato rispetto ad un anno fa e in evidente crisi di capacità attrattiva rispetto all’ipotesi del Partito della Nazione, che vedeva in Liguria un tentativo di debutto. Se il progetto renziano era quello di dare il la ad una nuova balena bianca, capace di svuotare di senso allo stesso tempo l’esistenza di un “centro-destra moderato” e di partiti “antisistema” come M5S e LegaNord (per non parlare della “sinistra” già svuotata da anni) il progetto sembra pesantemente fallito.
Addirittura il PD – Toscana esclusa – crolla a livello di consenso in regioni tradizionalmente a suo appannaggio come l’Umbria, dove si afferma al lumicino; vince sì in 5 regioni su 7, ma le candidate più marcatamente filorenziane, Paita e Moretti, vengono sconfitte pesantemente in Liguria e in Veneto, mentre a vincere in Campania e Puglia sono personaggi come De Luca ed Emiliano fortemente legati agli intrecci politico-affaristici dei loro territori più che espressione diretta del PD; gente che controlla il partito sul piano locale, rendendolo proprio comitato elettorale, più che il contrario.
De Luca, al centro della vicenda degli “impresentabili” di qualche giorno fa, sembra essere l’incarnazione della modalità con cui lo stesso Renzi ha gestito nel passato il suo rapporto con le urne: basta vincere, non importa con chi e con quanto. Peccato che si inizia a perdere, come dimostra la Liguria, dove la vicenda delle primarie-farsa si è unita ad un’amministrazione regionale uscente sciagurata (basti pensare alle conseguenze della gestione dell’alluvione e al vaso di Pandora che scoperchiò rispetto al sistema di potere locale, tra affari spregiudicati, relazioni dubbie, appalti pilotati), scaricando tutto il suo peso proprio su Renzi che vi aveva puntato tutte le sue carte.
E chissà che succederà ora con l’elezione campana: per legge dovrebbe essere lo stesso premier a dimissionare De Luca immediatamente, dopo averlo sostenuto finora; l’alternativa sarebbe una sorta di decreto ad personam che scavalchi la legge Severino, con le ovvie ricadute di popolarità su un tema sempre più sensibile come quello della corruzione sul quale il Movimento 5 Stelle potrebbe guadagnare ancora più consenso.
Si rafforza fortemente intanto la Lega, soprattutto al centro Nord, diventando decisiva in Liguria, stravincendo in Veneto nonostante la scissione di Tosi ed ottenendo buoni risultati in regioni storicamente del PD come Umbria e Toscana. E’ evidente come lo smembramento di Forza Italia nelle varie correntucole affaristiche locali – che prima Berlusconi riusciva a contenere sotto la sua ala – abbia fatto diventare Salvini l’unico, al momento, a poter pensare di poter ricreare sotto la sua ala un centrodestra competitivo.
Un centrodestra che sarebbe però sempre più di ispirazione lepenista, basato sulla verve salvinista nello sfruttare il malcontento diffuso spostandolo verso posizioni xenofobe e nazionalistiche; progetto che però sembra fortemente ancora inadeguato quanto a possibilità di poter diventare maggioritario, strutturandosi simbioticamente in opposizione a Renzi e alle sue politiche, e per questo impossibilitato ad avere l’appoggio dei poteri forti dell’Ue che per gli eventuali compagni di viaggio di Salvini (Area Popolare, Forza Italia) è condizione imprescindibile; e soprattutto ancora debole, inesistente, al Sud dove ha ottenuto percentuali risibili pagando una storia politica impossibile da cancellare con qualche comizio, peraltro contestatissimo come quasi tutti quelli effettuati dal segretario leghista.
Tiene anche il Movimento 5 Stelle, che ottiene buoni risultati pressochè ovunque e si consolida anche in terreni scivolosi come le amministrative; ovunque si aggira intorno al 20%, è primo partito in diverse regioni e dimostra di riuscire a resistere sulle sue posizioni, anche utilizzando un atteggiamento meno aggressivo nei toni e nelle pratiche (più utilizzo della televisione e meno dei grandi palchi, disponibilità a collaborare su alcuni temi specifici con gli altri partiti..). Il “movimento” sembra essersi dato delle forme di radicamento territoriale, in controtendenza a tutti gli altri partiti, elemento che a distanza di due anni dal boom delle Politiche del 2013 sembra aver pagato sul lungo periodo. E chissà che in una fase di disoccupazione prolungata, di riforme della scuola, di crisi economica che non accenna a diminuire, un M5s che continua a battere sul tema del reddito di cittadinanza e barricadero su un tema forte come la formazione non possa ulteriormente crescere nei consensi drenando ulteriormente il PD renziano..
E’ evidente ad ogni modo che jobs act, disoccupazione giovanile alle stelle, crisi economica che non smette di farsi sentire aldilà di zerovirgolapiù zerovirgolameno di crescita sembrano aver abbastanza messo in soffitta l’appeal da rottamatore di Renzi, per quanto all’orizzonte ancora non ci siano alternative possibili reali sul piano maggioritario. Ad ogni modo, rimane evidente che questi risultati contano poco su un piano alto di governance: sullo stile americano, la quantità dei voti conta poco o niente, ciò che conta è prenderne uno in più: l’appeal iniziale di Renzi è servito proprio a permettere, sotto l’effetto oppiaceo dell’illusione del “giovane al comando”, che lo scollamento tra rappresentati e rappresentanti divenisse strutturale. Gran parte del prossimo Senato, se passasse l’Italicum, sarebbe oltre che inutile anche rappresentativo di poco o nulla, dati i livelli di astensione: anche questa è una vittoria di Renzi, per quanto possa ora iniziare per il ducetto di Pontassieve una nuova fase, probabilmente meno felice di quella appena conclusa.
Uno svuotamento di ogni democraticità delle istituzioni, quello del primo anno di Renzi, che si serviva dello stesso spauracchio di Salvini per legittimare l’idea che il premier fosse comunque il meglio possibile, nonostante una serie di riforme dalla durezza adamantina quanto a impatto sociale; mentre il consenso nei confronti di questa operazione inizia a sgretolarsi, si inizia ad intravedere uno spazio nel cui lanciarsi: e non è quello di una neo “sinistra” istituzionale nata già morta, ma quello dell’organizzazione e del conflitto in ambiti dove la traiettoria renziana sembra poter andarsi a schiantare, in primis il mondo della scuola che sembra poter avere nei prossimi mesi potenzialità di mobilitazione tutte da esplorare.
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