Ritorno al futuro: agenda Monti ora e sempre
di Nicola Casale, Raffaele Sciortino
Le mosse che hanno agitato di recente la scacchiera del quadro politico italico mostrano una logica meno contorta di quanto possa, o vogliono, far sembrare.
A fronte di una evidente caduta di consensi, con ampi settori di popolazione sempre più in dubbio sul senso dei sacrifici e sulla reale possibilità di uscire dal tunnel, Monti coglie al volo l’occasione dell’astensione in parlamento del pdl per dimettersi, prendendo in contropiede anche l’inossidabile Napolitano. Poi rivendica, in un’intervista a Repubblica (9/12), la piena e solitaria paternità della mossa e quasi invocando la puntuale punizione dello spread dichiara la propria preoccupazione non soltanto rispetto ai berluscones ma “più in generale”. L’inaffidabilità del quadro politico italiano con le elezioni alle porte comprende, a chiare lettere, anche il pd.
Bersani non è “inaffidabile” in sé, nè per l’alleanza a “sinistra” slavata in partenza. Ma ai mercati non va bene neanche quel minimo di aspettative per correzioni, non importa quanto al ribasso, dell’attuale corso politico-economico che una vittoria elettorale del centro-sinistra comporterebbe (i rottamatori interni non bastano). Così il segretario pd, gongolante per lo “straordinario successo democratico” (!) delle primarie, si ritrova ora a piagnucolare contro una candidatura diretta del premier. Del quale può però men che mai permettersi di criticare qualcosa (nell’intervista al Wall Street Journal dichiara Vendola tappezzeria da parete, rivendica la bontà della riforma Fornero e si impegna a rispettare tutti gli impegni presi con la Ue). Può solo promettere un accordo con il centro subito dopo la “vittoria”.
E’ qui che il cavaliere viene obiettivamente in “soccorso” al professore oltre che a se stesso. Non servono teorie complottiste. Basta l’obiettivo comune: la “sinistra” (sic!) non deve vincere o, se vince, non deve governare senza la direzione di Monti. Attento certo ai suoi interessi privati ma sempre capace di incunearsi e far leva su nodi reali, Berlusca è consapevole di non poter imporsi (da solo) alle prossime elezioni ma sa di poter creare grandi difficoltà alla “sinistra” anche solo imponendole una risicata maggioranza al senato. In prima istanza offre la sua base elettorale al bocconiano per riunificare un centro-destra vittorioso (rivendicando, giustamente, la continuità con le proprie delle politiche di Monti su pensioni, sanità, mercato del lavoro, art. 18). In seconda istanza è disposto a cavalcare da destra, o anche solo agitare, l’anti-montismo che monta nella società. Un suo “ritorno” alzerebbe a breve il prezzo della ricontrattazione con Bruxelles e Berlino e darebbe una scossa ai settori sociali di destra con base proprietaria, sempre più preoccupati di essere chiamati a pagare un po’ di più, e per questo decisi a promuovere la crescita scaricandone i costi esclusivamente sui soliti noti. Sul medio-lungo termine, per quando le cose volgeranno inevitabilmente al peggio, Berlusca si prepara a sollevare la bandiera anti-tedesca, ideale per far passare in un clima da “salvezza della patria” e, perché no, “anti-finanza” misure ancora più dure che non potranno risparmiare a quel punto neanche i ceti medi proprietari. (Il terreno in questo senso glielo sta preparando anche una certa “sinistra” buona a tuonare solo contro Berlino dimenticando Washington e il $, oltre che Roma e Vaticano). È su questo sfondo che Berlusca offre il suo appoggio avvelenato. Cerca così di condizionare e intorbidare il risultato elettorale, anche grazie al porcellum gelosamente custodito da tutti i partiti per paura dei grillini, mentre ricorda alla sua marmaglia chi è che comanda.
Il vertice Ppe della scorsa settimana a ben vedere ha registrato per l’Italia questa situazione di forzata “coesistenza” a destra, facendo buon viso a cattivo gioco nei confronti del cavaliere di cui farebbe volentieri a meno. L’endorsement pro Monti è stato plateale, forse troppo?, a riprova delle chiare collusioni internazionali dietro la sua mossa. L’iniziativa sembra effettivamente passata nelle mani del professore che sta tentando, pur nei modi da “tecnico”, un’operazione di egemonia sul centro-destra e al contempo di neutralizzazione se non disarticolazione del centro-sinistra. Monti si fa “partito” allora? Non è detto che questa strategia si realizzi, per lo meno già al prossimo passaggio elettorale. Il professore, e non solo per problemi di “comunicazione” e incapacità di affondare il coltello, ha grossi problemi nel crearsi una base sociale ampia – non basta il centro anche se la chiesa cattolica è già corsa in suo aiuto – e più va avanti più rischia di mettersi contro tutti. “C’è un’Italia dietro Mario Monti?”, si chiedeva non a caso il Corsera di qualche giorno fa.
Nell’ipotesi peggiore ci si prepara dunque nelle alte sfere a un esito elettorale in cui un centro-sinistra vittorioso ma indebolito, dall’esterno e dall’interno, sarà costretto dai fatti e dalla sua inconsistenza politica a rimettersi nelle mani di Monti e della sua agenda, del resto con la disponibilità di una base elettorale mezzo stordita e mezzo incarognita. Qui una potente mina l’ha già innescata il successo di Renzi alle primarie. Il rottamatore non aspetta altro che potersi fiondare, con un pezzo del partito, in un nuovo schieramento di centro che capitalizzi le riforme montiane rilanciandole in un senso ulteriormente anti-proletario. Può accadere prima delle elezioni, ma anche subito dopo, con il sicuro fallimento di un governo Bersani-Vendola. Insomma, la disarticolazione del pd è, a queste condizioni, solo questione di tempo. Non c’è da piangerci su, viene anzi da sorridere a vedere come i vari “cespugli della sinistra” – vecchi semivecchi e neonati presuntamene alternativi – siano all’inseguimento del centro-sinistra che insegue il centro che insegue la destra, alla rincorsa dell’”imperdibile” occasione elettorale senza avere la minima idea di quanto bolle in pentola.
Il bello è che la possibilità di esplosioni sociali, confuse quanto si vuole, non è affatto remota neanche in Italia. Qui i tornanti peggiori della crisi stanno tutti davanti. A scala globale sta volgendo al termine la fase uno della crisi, segnata da un keynesismo finanziario combinato con austerity sociale: salvataggio della finanza via indebitamento degli stati a danno delle popolazioni, con l’obiettivo di evitare la svalorizzazione dell’immane massa di capitale fittizio accumulatosi, epicentro gli States, nei decenni della finanziarizzazione ascendente. La sospirata crescita non si è fatta vedere, la bolla si è semplicemente spostata sui debiti sovrani. È così in arrivo la seconda fase, quella dello scontro tra i diversi attori globali sul terreno della fin qui rinviata cancellazione di parte della finanza speculativa. Saranno botte da orbi. La Grecia è servita da primo laboratorio, con la guerra sotterranea tra Berlino e Washington/Wall Street sulla ripartizione in alto dei costi degli haircut “ordinati” che non è più sufficiente scaricare solo in basso.
L’Italia, col suo alto debito pubblico, gli appetibili risparmi privati e un non indifferente residuo apparato produttivo, sarà plausibilmente uno dei prossimi terreni dello scontro. Segnali e primi shock in questo ultimo anno e mezzo non sono mancati. La pausa intervenuta negli ultimi mesi è dovuta esclusivamente agli interventi della Bce pro titoli di stato e banche e alla tregua armata tra dollaro e euro in occasione delle elezioni statunitensi, ma è una pausa che sta finendo. In questo quadro, qualunque governo dovrà non solo procedere sulla linea montiana ma dovrà quasi sicuramente affrontare il problema di una pesante patrimoniale e/o quello di un consolidamento del debito pubblico, con manovre possibili solo in un quadro di rinnovato nazionalismo e ricerca del nemico esterno. A sinistra invece si fantastica di riedizioni fuori tempo massimo del keynesismo: quello in salsa green o benecomunista, rispettabile magari negli intenti ma del tutto incapace di afferrare l’oggetto dello scontro; e quello statalista dei vari “europeisti a stelle e strisce”, se non direttamente nazionalista e neoprotezionista, che prepara il terreno a una destra anti-euro e anti-Germania assai meglio attrezzata. Bisognerà tornarci su ma è evidente che è solo rompendo con questi presupposti che si può iniziare a discutere della costruzione di una soggettività politica antisistemica in raccordo con le dinamiche di conflitto che di certo non mancheranno.
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