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São Paulo: Quando si conosce una città?

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Sampa è la città più popolosa dell’emisfero australe, terza megalopoli al mondo con un’area metropolitana di 20 milioni di abitanti seguendo molte statistiche, ricopre un territorio collinare e fa da perno a un sistema di aree metropolitane da 29 milioni di persone. Sebbene oggi, fatta eccezione per Lagos, le megalopoli coi maggiori tassi di crescita urbana si trovino tutte in Asia, São Paulo tiene il passo dello sviluppo esponenziale delle nuove “città-Stato” globali.

 

La capitale paulista produce da sola il 25% del PIL brasiliano – che, è bene ricordarlo, è uno Stato federale dalle dimensioni continentali e con oltre 200 milioni di abitanti – e nell’ultimo decennio ha avuto un incremento di popolazione di oltre il 9%. Questo processo ha rinforzato il continuo sfrangiamento dei confini che caratterizza l’espansione degli ultimi decenni, in quest’area passata precocemente e in fretta da città a metropoli tra gli anni Quaranta e Ottanta – assieme solo a Buenos Aires per ciò che riguarda l’America Latina.

Fondata alla metà del XVI secolo da missionari gesuiti, São Paulo venne ufficialmente riconosciuta all’inizio del XVIII, ma solo nel secolo successivo iniziò ad affermarsi all’interno dell’impero portoghese grazie all’esportazione di caffè. Le piantagioni sempre più smisurate della pianta divennero, tra il 1880 e l’inizio del XX secolo, il luogo di lavoro per le massicce ondate migratorie che, tra i vari paesi, videro un enorme afflusso italiano e giapponese. Tutt’oggi milioni di paulisti possono rintracciare un parente italiano, ed è presente uno dei quartieri giapponesi più grandi al mondo. I complessi intrecci che si definirono con la forza lavoro nera sono piuttosto scarsamente indagati, ma con la crisi del commercio del caffè (determinata soprattutto da un crollo del suo prezzo) i proprietari terrieri iniziarono a investire nell’industria, determinando forti migrazioni urbane caratterizzate da una netta linea del colore, conservata nella prevalenza bianca delle aree centrali della città. Ancora oggi Sampa è il centro industriale e finanziario più importane dell’intera America Latina.

Difficile fare un ritratto della città, estesissimo ammasso di strutture e con una trama a-centrica più che poli-centrica. Una Los Angeles writ large, quattro volte più grande come popolazione, costruita però in verticale e senza nessuna griglia urbanistica a definirne un ordine leggibile. Ma i paragoni sono ingenerosi, o come minimo estremamente riduttivi. São Paulo è una ratatouille di tante città dalla quale è difficile ricavare un’identità, ma solo assonanze, rimandi e fratture. Molte delle sue architetture più imponenti cercano di sublimare il senso di spaesamento proponendosi come frammenti di città esse stesse, congiungendo molte funzionalità e cercando di produrre dimensioni di comunità e di inserirsi e valorizzarsi all’interno del flusso urbano.

Guardandola dall’alto dell’Edifício Itália, una delle vedute più alte della città, ci si rende subito conto che non ha nessun senso fotografarla per provare a trasmetterne l’immagine, non ci sono punti di riferimento, landmark paesaggistici prorompenti, direzioni chiare. Solo la notte alcune illuminazioni si stagliano, ma di giorno la distesa urbana corre a vista d’occhio a 360°, rimandando un senso di sbigottimento e “pienezza” alla prima vista che lasciano sospesi. Solo qualche collina lontana e particolarmente alta ne definisce un vago perimetro – incerto, sincopato, non lineare, provvisorio.

Tante città/quartiere in una sola accostate dunque, ma anche tanti scenari di città del mondo che qui si rincorrono. La già citata Los Angeles, ma anche le repentine salite e le assurde discese a là San Francisco, zone di Downtown che palpitano basse come pueblo messicani, la zona di Vila Madalena ricorda alcuni quartieri “rivitalizzati” di Miami… eppoi gli scenari global del centro finanziario e dei ponti e opere delle archistar; le strade povere tipicamente latinoamericane coi loro baretti con tavolini e sedie di plastica colorata; le favela uguali a tante altre, coi loro mattoni, i raccoglitori di acqua blu sui tetti, i teloni; le vie di locali nelle quali, non fosse per le sonorità portoghesi della lingua e per una prevalenza di sonorità sambeggianti, si attraversano in un continuo déjà vu; i tipici linguaggi metropolitani delle tag e i negozietti alla moda…

Ma ci sono anche le specificità locali, nell’in-formità di São Paulo che non cerca assetti stabili. La sua crescita s-regolata ha impresso un’urbanizzazione che scorre su sottofondi inquieti e su spruzzate di edifici che compongono una cacofonia edificativa difficile da rintracciare altrove, come fossero individui in una folla solo apparentemente ferma. Questo inno all’architettura come gesto solitario non sottolinea solo la nemesi del sogno progressista dell’urbanistica che a queste latitudini si era provato a realizzare con la costruzione ex novo della capitale Brasilia alla fine degli anni Cinquanta, ma nasconde anche quello che in realtà è il trionfo dell’edilizia su entrambe le precedenti discipline. I risultati sono bizzarri, talvolta terribili, tal altra sinceramente belli e inaspettati, come quando nelle giornate di cielo azzurro le poche grandi nuvole candide costruiscono ambienti morbidi col loro spalmarsi riflesse sui grattacieli di vetro che dialogano con gli alberi tropicali e i graffiti. Atmosfere ovattate e vagamente oniriche, sempre in lieve movimento, dove è la vastità degli spazi a guidare l’andatura, il gioco tra pieni e vuoti a definirne le ritmiche. Si vaga in immensi parchi artificiali dove la natura urbana estremamente eterogenea dei palazzi luccicanti e abbandonati, ricurvi e rettilinei, post-moderni e dai ghirigori coloniali, di varie altezze e intensità, forma una dimensione unica.

Tra questi parchi di cemento, vetro e acciaio si annidano curati giardini tropicali dal buio colorato e quieto, musei, locali a non finire, persone che compongono sempre lunghe file, strade di varia dimensione, altezza, ampiezza e fattura, arterie ricche e blocchi miserevoli, fini particolari artistici e strutture diroccate. Al mercato più grande della città si vedono frutta e verdura buonissime e misteriose, si assaggiano i panini alla mortadella di cui vanno molto fieri presentandoli come specialità – alti una spanna con fette spessissime, formaggio e pomodori secchi; un po’ ovunque si griglia in strada. Dalla storica pinacoteca si vede un palazzone popolare altissimo e colorato e la più antica stazione delle metropolitana, le cui centinaia di chilometri si snodano sotto superficie in varie linee talora antiquate e altre volte invece modernissime, con invasività pubblicitarie che non si trovano nemmeno nella subway newyorkese. Un locale all’aperto sospeso su una lunga arteria stradale è al contempo stato ricavato sotto un ponte stradale. Da qui si ascolta musica che sfuma nelle macchine che sfrecciano sopra e sotto con un fruscio acqueo.

São Paulo ha suoni, odori e colori tutti suoi, pastello per lo più, chiari con prevalenza di un bianco cenere negli edifici che si mischiano spesso a graffiti, tanti, ovunque, enormi e minuscoli – anche se il ricco sindaco di lontane origini genovesi João Doria vuole cancellarli in nome di una città più bella. Forse però è anche questa struttura cromatica che non le ha fatto assumere connotazioni da Gotham city o quei tratti cupi alla Blade Runner, come invece spesso accade guardando città come Londra o Milano. Ciò non toglie che complessivamente la città sprizzi, se si può mobilitare tale concetto, un fascino indubbiamente duro. Nel quale l’assenza di storia, scientemente cancellata di generazione in generazione, non viene valorizzata se non in pochi luoghi da panorami ultra-moderni o dai forti contrasti urbani che invece caratterizzano altre metropoli del cosiddetto sud globale.

La visuale notturna dall’alto inoltre ha una peculiarità perché non evoca quel movimento omogeneo e magnetico che usualmente rimandano queste estese concentrazioni urbane, anche perché moltissimi edifici vengono spenti di notte, mentre numerosi altri sono più semplicemente abbandonati – in tal modo inframmezzando di nero il mare di luci del classico landscape della notte metropolitana, qui invece rarefatto e meno vibrante. Si dice d’altronde che São Paulo abbia più palazzi vuoti che persone che vivono per strada, nonostante queste ultime siano una moltitudine numerosissima e a tratti disperata, come si vede quando col buio la si vede accampata in tende, o attorno a fuochi sotto i cavalcavia, in piccoli gruppi sui marciapiedi, ma spessissimo anche come individui sdraiati sul cartone, o anche semplicemente buttati in terra, senza nulla sotto, né addosso, né con loro. Vale anche qui, eccome, la legge per cui ciascuna metropoli si costituisce su diseguaglianze che storicamente crescono e si fanno sempre più mozzafiato negli ultimi decenni. Inoltre, a differenza di Rio de Janeiro, la città paulista riequilibra le geometrie politiche classiche. Laddove a Rio infatti le os pobres stanno in alto e le classi più abbienti in basso, qui si parte invece dall’alto delle colline con importanti vie dello shopping e di grattacieli come Avenida Paulista, e scendendo in basso veloci a causa della pendenza le strade si fanno repentinamente più fratturate, man mano si nota un terriccio bruno-arancio depositato ovunque, buche, case umili, baretti piccoli che vendono poche birre e cibo dozzinale, ritagli di favela, cambiano i volti che divengono più scuri e meno spensierati. Inoltre a São Paulo, seppur inframmezzate in particolari geroglifici con quartieri benestanti, le favela e i quartieri più popolari stanno tutti “in periferia”, fissando le geometrie alto/basso e centro/periferia che invece appunto sono molto più sfumate e confuse nella metropoli carioca.

Rispetto a quest’ultima, meno ricca e più plebea, la crisi sembra qui molto meno sentita, nonostante in molti dicano che lo spirito del Brasile capofila dei BRICS col quale si era aperto il nuovo millennio sia ormai un ricordo. Con più capitali e meno violenta São Paulo, anche perché il trafico e il controllo delle favela sono monopolizzati dal PCC (che non è una riedizione di brigate comuniste ma il Primeiro Comando da Capital), che impone il suo ordine. Le sue élite sono anche molto più staccate dal contesto e dalla cultura “dal basso” della città, come simbolicamente rivelato dal fatto che queste competono con New York e Tokyo per il ruolo di capitale mondiali per il tasso di elicotteri pro capite, con la ristretta classe multimilionaria che aggira traffico e pericoli della città snodandosi dai circa cento eliporti. La maggior parte delle persone si muove invece su strade spesso intasate e dalle geometrie mosse con le decine di migliaia di autobus o coi cinque milioni di automobili. Lasciarsi perdere guardando le immagini in sequenza che scorrono dal finestrino di una di queste è forse uno dei modi migliori per sentirsi parte della città, ricostruendola mentalmente e al contempo lasciandola fluire dentro. Sennò si fa su e giù dalle fermate della metropolitana, passando tra il non-luogo sotterraneo ai mille diversi mondi che si aprono di fermata in fermata una volta in superficie. Oppure la si gira a piedi, unico modo per poterne davvero cogliere l’orografia ondulata e dalle movenze complesse, i numerosi dislivelli. Morfologici e sociali.

Quello che lascia São Paulo è una sensazione strana, di una città estrema, che tende a fuoriuscire dal concetto stesso di città, eppure al contempo rimanda a un qualcosa di noto nella sua dismisura controllata. Non esistono forse al momento le parole giuste per inquadrare sinteticamente queste nuove polarità planetarie globalizzate, che lasciano, infine, una domanda: quando si conosce una città oggi? Da quali prospettive va guardata, a quale “altezza”, per quanto tempo, seguendo quali ritmi, focalizzandosi sulle circolazioni o sulle zone di stasi, guardandone l’integrazione tra globale e locale o indagandone le specificità, abbandonandosi come flâneur o attraversandole come mappe grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia, vivendone gli interstizi o adottando un punto di vista esterno?

nc

 

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