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Sfidare la modernità capitalista: cosa si è detto alla conferenza di Amburgo

Debbie Bookchin, figlia del pensatore politico statunitense Murray (uno degli ispiratori del pensiero confederalista di Abdullah Ocalan), ha ricordato le responsabilità occidentali nella strage della popolazione curda e dei suoi combattenti avvenuta tra il 2015 e il 2016 nel Kurdistan turco, a causa del legame tra Turchia e paesi Nato che provoca silenzio mediatico e censura su quegli avvenimenti. Reimar Heider, assieme ad Havin Guneser uno dei principali traduttori delle opere di Ocalan in Europa, ha invece spiegato come il movimento curdo proponga una critica dello stato-nazione che non rinuncia a trovare uno spazio positivo per il concetto di nazione stesso (tema di grande attualità per la situazione politica europea) attraverso l’idea di “nazione democratica” (che nulla ha a che vedere con le idee liberali di nazione e democrazia oggi egemoni in tutto il mondo).

Molti gli interventi delle militanti curde, come Halime Kurt (che è stata in prigione 10 anni), Haskar Kirmizigul, Zilan Yagmur, Ebru Gunay (avvocatessa di Ocalan, che ha pagato la sua attività con 5 anni in carcere), Hevin Tekin e l’archeologa Ozlem Ekinbas, che ha speso due anni nelle carceri speciali turche, o Hanim Engizek, che ne ha spesi molti di più ed ha affrontato il tema della decostruzione dei meccanismi attraverso cui la società è stata privata della propria autodifesa mentale e fisica, in tutto favore dell’assunzione complessiva della difesa pubblica da parte dello stato. Il tema della violenza statale e della risposta da parte del movimento di liberazione curdo in Turchia è stato affrontato anche da Fuat Kav, militante dagli anni Settanta e prigioniero politico per oltre vent’anni dal 1980, epoca in cui fu anche duramente torturato nella Turchia kemalista.

Tra gli interventi più interessanti, quelli di David Graeber, antropologo newyorkese, e del giornalista militante uruguagio Raul Zibechi. Entrambi hanno tentato di partire da una considerazione concreta e realistica di ciò che sta accadendo in Rojava, cercando di proporre osservazioni critiche utili alla rivoluzione. Se Zibechi ha raccontato come l’autogoverno indio in alcune aree del Sud America stia tentando di scongiurare il pericolo dell’accentrazione rivoluzionaria del potere attraverso un meccanismo di rotazione delle cariche istituzionali che è radicato nelle tradizioni di quelle comunità, Graeber ha descritto efficaciemente la conformazione del potere nella rivoluzione confederale come un meccanismo duale, in cui i consigli cantonali che costituiscono l’autonomia democratica vivono di vita parallela rispetto al disseminato potere popolare delle comuni e dei consigli cittadini, raccontando alcune sue esperienze in Rojava per mostrare come il protagonismo popolare può essere un antidoto alla degenerazione burocratica che può colpire qualsiasi rivoluzione.

Come Graeber ha fatto notare, tanto il sistema dell’autonomia democratica quanto quello delle comuni sono stati costruiti, in Rojava, “dalle stesse persone”. Si tratta del Tev Dem, il movimento organizzato/esercito civile di militanti politici che percorre la Siria del Nord supportando la costruzione di nuove istituzioni e trasmettendo competenze nella regione. Sull’importanza della componente soggettiva del processo rivoluzionario ha insistito Cora Reolofs, del movimento di solidarietà con il Rojava di Boston, che ha messo in luce come il processo rivoluzionario della Siria settentrionale, fatta salva la necessità dell’autodifesa e l’uso delle armi per necessità di guerra, sia un processo essenzialmente educativo, che punta a trasmettere conoscenze e rappresentazioni del mondo che possano fornire strumenti di scelta e autonomia alla popolazione, oltre che propiziare, attraverso questo, un mutamento di mentalità.

È seguito l’intervento di Saleh Muslim, co-presidente del Partito di Unione Democratica (Pyd), principale attore politico del Rojava, che ha affrontato il tema della necessaria rottura con la logica del militarismo. Saleh, che ha passato dieci anni nelle mani dei carcerieri siriani, subendo terribili torture, ed ha perso un figlio nella battaglia di Kobane, ha voluto così dimostrare qual è l’approccio che un movimento autenticamente rivoluzionario ha verso il tema della guerra. Ha ricostruito sul piano storico il tema dell’autodifesa individuale e collettiva, chiarendo come il tema della delega dell’autodifesa da parte della comunità sia emerso con la precisazione e l’emersione delle strutture statali nell’antica Mesopotamia, fino alla civiltà greco-romana e agli stati moderni, e come rompere con la concezione militaristica dell’organizzazione della vita associata, propria dello stato, sia tutt’uno con la necessità di costruire forme di convivenza sociale alternative a quelle capitalistiche.

Saleh ha inoltre risposto a una serie di domande emerse dalla platea, in particolare da alcune persone di formazione pacifista, che si sono dette “imbarazzate” dal supporto Usa e russo fornito alla rivoluzione confederale sul piano militare, e hanno chiesto di essere “rassicurati” sul fatto che non si tratta di una “strumentalizzazione politica”. Saleh ha risposto, come aveva già fatto durante il workshop del giorno precedente (interamente riportato da Infoaut – Saleh Muslim (Pyd): “Armi chimiche? Non solo il regime. Occorre ripensare l’idea di terrorismo”), che nel contesto militare siriano la politica delle alleanze è una necessità, a causa dell’aggressione turca sempre più feroce, della guerra in corso contro l’Isis e della possibile aggressione futura da parte del regime. Il rapporto con Usa e Russia non è politico, nel senso che non riguarda un supporto alle riforme sociali in corso nella regione, che qualificano la rivoluzione, nè riguarda materie umanitarie o economiche, che pure sarebbero importanti (gli Usa non si oppongono neanche al blocco dei confini operato dai loro alleati turchi e curdo-iracheni), ma soltanto militari, e non è una scelta dettata da simpatie politiche, ma una necessità dettata dall’urgenza di proteggere la popolazione dalla violenza dell’Isis, del regime e della Turchia.

Saleh ha anche risposto a un attivista anarchico che aveva preso la parola dopo un messaggio video-registrato di Mustafa Karasu, dirigente del Pkk e del Kck, in cui il guerrigliero aveva criticato la visione liberale ed ecologista-liberaldemocratica di alcuni movimenti europei, chiarendo che non esiste democrazia autentica per i popoli senza ricostruzione dei legami sociali, ossia senza socialismo, e aveva aggiunto che il limite, invece, delle visioni anarchiche è di cedere all’individualismo. L’attivista si era alzato al termine del video per dire che tale messaggio non era rispettoso per gli anarchici, perchè diversi tra essi sostengono la rivoluzione del Rojava, anche combattendo. Saleh Muslim ha tenuto a chiarire che la critica di Mustafa non costituiva una mancanza di rispetto, tutt’altro, perchè la critica reciproca è fondamento della discussione tra compagne e compagni e non può essere considerata un problema, dev’essere anzi valorizzata: è un modo per riuscire, insieme, a rendere l’azione più efficace e la teoria politica di tutte e tutti più forte.

Tra i messaggi video che sono stati proiettati durante la conferenza anche quello di una comandante ezida delle Ybs irachene, le unità di resistenza di Singal. La città, abitata quasi interamente dalla minoranza religiosa ezida fino al 2014, è stata occupata dall’Isis in quell’anno, che vi ha compiuto un massacro. Di recente è stato invece il presidente autoritario del Kurdistan iracheno, Massud Barzani, ad aggredire militarmente le unità ezide e il Pkk loro alleato usando le milizie Peshmerga a lui fedeli, causando diversi morti. La comandante ha dichiarato in un collegamento skype in diretta dai monti Sinjar che la popolazione ezida ha formato i propri consigli di autogoverno e non intende essere governata nè dagli arabi nè dai curdi, e difenderà la propria libertà a qualunque prezzo, senza aspettare un nuovo massacro.

Un altro video ha visto come protagonista un combattente internazionale delle Ypg, dal volto coperto con una kefiah, che si è congratulato con l’uditorio della conferenza per la quantità di alternative al capitalismo che erano state discusse. Tuttavia, non senza una certa amichevole ironia, ha anche dichiarato che, se esistono e sono state teorizzate così tante alternative al capitalismo, vuol dire che è il momento di passare all’azione, e un modo è anche raggiungere il Rojava. Ha aggiunto che il Rojava deve diventare oggi ciò che la Palestina è stata negli anni Settanta per i militanti rivoluzionari europei: un luogo di esperienza, discussione, dibattito, apprendimento, un vero e proprio laboratorio politico liberato.

Infine Fewza Yusuf, co-presidentessa della Confederazione Democratica della Siria del Nord, ha spiegato il profondo significato storico dell’affermazione dell’istituzione che co-presiede. In un medio oriente segnato dall’assenza di autonomia popolare, dalla spartizione dei territori tra regimi nazionalisti o religiosi, e comunque brutali, e milizie fanatiche e settarie, la Confederazione rappresenta un esperiemento diverso, che nessuno degli attori regionali intende tollerare, ma che, con la sua insistenza sul rinnovamento delle forme decisionali e di produzione economica, rappresenta l’unica proposta sociale e politica in grado di assicurare una soluzione stabile ai problemi del medio oriente. Il suo intervento ha mostrato ancora una volta come la rivoluzione confederale non vada intesa come rivoluzione curda, ma come progetto che coinvolge concretamente migliaia di arabi, turcomanni e cristiani, e sia quindi un modello per una convivenza tra le diverse identità su un piano comune di autonomia e autogoverno.

La conferenza si è chiusa con una dichiarazione di solidarietà incondizionata a tutti i prigionieri politici in Turchia e a coloro che si trovavano impegnati al 62esimo giorno di sciopero della fame, oltre che al prigioniero Abdullah Ocalan. In serata, in seguito ai risultati del referendum in Turchia, nel vicino quartiere di Schanzen alcune centinaia di giovani tedeschi e curdi hanno affrontato per circa mezz’ora le forze di polizia.

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