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TEPPA – Documento conclusivo

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Pubblichiamo il testo conclusivo di “Teppa”, il festival delle resistenze metropolitane che si è tenuto a Roma, a La Sapienza il 20-21 Aprile, sperando di aprire una discussione sulla crisi della militanza antifascista e su quali nodi è importante e centrale ricominciare a ragionare.

A pochi giorni dalla fine del lungo percorso di “Teppa” è doveroso fermarsi un attimo per tirare le somme di quello che è stato, del percorso politico intrapreso e di dove esso ci ha portato. Il dibattito tenutosi il 20 aprile al Lucernario della Sapienza è stato estremamente importante per problematizzare i nodi con i quali avevamo aperto il dibattito stesso e ha inoltre favorito la creazione di altri interrogativi che speriamo abbiano una risposta nell’indicazione pratica che saremo, collettivamente, in grado di dargli.

Come già avevamo delineato nel documento di lancio del festival: la fase storica che attraversiamo restituisce una serie di nodi critici: allargamento della forbice sociale, crescita esponenziale della disoccupazione, sempre maggiore precarizzazione del mondo del lavoro, riduzione dei servizi minimi, destrutturazione del welfare e annullamento di qualunque tipo di ammortizzatore sociale. Questi nodi hanno una loro applicazione specifica e evidente nella metropoli: i centri delle città diventano esclusivamente i luoghi della vita economico-finanziaria mentre le periferia vanno sempre di più a caratterizzarsi come immensi agglomerati di cemento in cui stipare proprio quella larga fetta della popolazione improduttiva o destinata a forme di occupazione flessibili e “smart” che il mercato impone.

In queste zone parimenti, si assiste a una vera e proprio crisi della politica: con la fine del “partito di massa” spariscono ormai definitivamente tutti quei presidi istituzionali territoriali, sedi di associazioni, partiti, sindacati, che ricoprivano il ruolo di cinghia di raccordo tra la popolazione e il piano istituzionale della politica. Rapporto che è stato affidato a un sempre maggiore clientelismo fatto di favori e concessioni tra personaggi della politica locale e fette più o meno larghe della popolazione (es. municipalizzate Alemanno). Un metodo anche questo entrato in crisi come è emerso con l’inchiesta Mafia Capitale e che in realtà nessuno vuole mettere in discussione fino in fondo, né la magistratura né il Movimento 5 stelle. Il processo Mafia Capitale si sta rivelando un flop e le accuse di mafia mosse contro il cosiddetto mondo di mezzo stanno cadendo pezzo dopo pezzo. Per quanto riguarda il sindaco Raggi, invece, la vicenda dello stadio della Roma dimostra una chiara linea di continuità con le vecchie modalità di amministrare la Capitale. Quindi quando parliamo di crisi della politica parliamo sicuramente della possibilità di elargire le risorse di controllo delle sacche di disagio periferiche: l’ultimo scambio voti/posti di lavoro risale all’assunzione di massa degli autisti dell’Atac da parte dell’amministrazione Alemanno. Oggi le risorse clientelari sono poche ed è ancora peggio perché sta producendo una lotta fratricida per accaparrarsele scatenando quella famosa guerra tra poveri alimentata dalle propagande razziste di fascisti e polizia. Proprio in questo quadro, infatti, nascono e affondano le loro radici quei fenomeni a cui viene dato il nome di “populismi”, i quali, lungi dal relegarli in una dialettica formale delle parti, dovrebbero essere indagati a partire dalle condizioni reali della loro formazione, li proprio in quella crisi del welfare e politica che vivono le nostre città e i nostri quartieri.

Inoltre, avevamo individuato, nelle discussioni precedenti il festival, un altro nodo centrale nella discussione: quello che avevamo chiamato “crisi della militanza”: intendendo con questa parola il fatto che un certo modo di intendere la militanza, antagonista e antifascista, all’interno dei nostri quartieri sembra aver esaurito la sua potenzialità. Esperienze come quelle dei Centri Sociali, per esempio, che per decenni hanno rappresentato la possibilità dell’alternativa all’interno dei territori, possono essere messe in discussione alla luce delle criticità attuali. La dove esistono sono stati e sono porto franco nelle metropoli ma possono essere, oggi, presidi di resistenza se traslati anche al di fuori dell’autogestione e delle attività alternative che da sempre sono punto di forza di un’esperienza politica sotto costante attacco da parte delle amministrazioni comunali e governative in nome di una presunta legalità o per necessità inaccettabili di sanare debiti comunali a discapito delle conquiste comuni. Allo stesso modo di come le esperienze degli studentati occupati del post crisi all’interno della più grande lotta per il diritto all’abitare non abbia avuto la capacità di riprodursi nelle contraddizioni dello scenario metropolitano più ampio e sotto i colpi della repressione delle lotte sociali apparendo isolate e poco riproducibili.

Allora di quali strumenti dotarsi? Quali possono essere i metodi e le metodologie? Quali le pratiche che ci portino ancora una volta a poter incidere sulla nostra vita e su quella della collettività che con noi abita i territori? Non esistono, probabilmente, ricette certe, né l’intenzione di questo documento è quello di indicare una via, troppe ne sono già state indicate e troppe ci hanno portato di fronte a vicoli ciechi. Quello che si tenta di fare è, alla luce del confronto con realtà provenienti dal tutto il mondo, provare a costruire insieme una cassetta degli attrezzi che ci aiuti a leggere le contraddizioni del presente e ad agirle. L’esperienza delle banlieu francesi raccontate dal collettivo Antifa Paris Banlieu che ci ha raccontato, durante l’iniziativa, di come la lotta contro la legge sul lavoro si è trasformata in un legame importante tra centro e periferia contro lo stato di emergenza e la violenza della polizia. L’esperienza dei compagni della MM Boxe di Rio Claro (Brasile) che ci ha riportato come lo sport possa essere uno strumento indispensabile per il confronto quotidiano soprattutto con i giovani che abitano nelle periferie e uno strumento pedagogico faticoso ma efficace per la crescita collettiva verso il rispetto degli altri e contro la violenza di genere. L’esperienza delle realtà romane, non tutte, che hanno provato in questo confronto a inserire dubbi ma anche risultati positivi del proprio intervento quotidiano.

Infatti, nel provare a costruire questa metodologia si è partiti da un dato: i quartieri che viviamo e i territori che attraversiamo non sono luoghi vuoti, non devono essere interpretati come “secchi da riempire”; sono luoghi carichi di una storia e di senso di appartenenza. Riscoprire questa storia, una storia che spesso è storia partigiana, basti pensare all’importanza che ebbe la resistenza al nazifascismo nella creazione del senso di comunità all’interno delle borgate romane, è fondamentale per riuscire a risvegliare un tessuto di resistenza che si riorganizzi nei territori delle città. Partendo proprio da questa memoria storica pensiamo sia fondamentale e doveroso interrogarsi sul senso e il ruolo che deve avere il concetto di identità territoriale. Concetto che ha importanza primaria nella creazione di una comunità ma che comunque rischia spesso di diventare arma a doppio taglio prestandosi a veicolo di ideologie di stampo fascista e xenofobo. Risvegliare quindi un’identità che sia legata all’abitare un territorio e a volerlo difendere, una identità che si fondi appunto su quella memoria storica partigiana che è retroterra comune a tanti quartieri popolari che abitiamo.

Tutti questi nodi, individuati a partire da un rapporto stretto sia con i compagni venuti da fuori Italia, sia con tutte quelle realtà politiche nate e cresciute proprio in quei quartieri popolari e che sono la prova vivente di comunità nata da una memoria collettiva, rimangono aperti e problematici, non sono una ricetta preconfezionata e non vogliono esserlo, si portano dietro la necessità di essere messi immediatamente al vaglio della prova pratica. Sporcarsi le mani nelle contraddizioni del presente è la condizione necessaria e non sufficiente per riuscire a affrontare la miseria della politica e dell’economia moderna, penala marginalità o la sparizione di una certa opzione politica collettiva.

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