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Tortura, polizia & Alba Dorata: scene dall’Inferno greco

D. Iniziamo col descrivere cos’è successo al corteo motorizzato.

R. Il 30 settembre, era una domenica, si è svolto il terzo corteo motorizzato antifascista. A settembre ce ne sono stati altri due: il primo nei quartieri di Metaxouryio, Ayio Pavlo e Omonia; il secondo a Monastiraki, Ermou e Thisio. Quella serata, siamo partiti da Exarchia verso le 8 e abbiamo guidato fino a piazza Amerikis e vie limitrofe. L’obiettivo della parata era quello di supportare gli immigrati, colpiti da un pogrom razzista pochi giorni prima. Quando siamo passati in questi quartieri c’era grande eccitazione da parte dei migranti. Hanno levato in alto i pugni, applaudito, fatto il gesto della vittoria e ci hanno ringraziato. Questo è successo poco prima che ci attaccassero: è l’ultima immagine che ho prima dell’aggressione della polizia.

Le moto erano circa 80?

R. Sì, con due passeggeri su quasi tutte le moto, quindi circa 150 persone.

E la polizia?

Non si vedeva bene, era notte e avevamo i loro fari puntati addosso. Nella zona dove i fascisti hanno distrutto i negozi degli immigrati c’erano molti poliziotti ad attenderci. Ci siamo fermati in via Filis e abbiamo intonato dei cori. Non so come tutto sia cominciato, perché la parata era molto rumorosa e la strada stretta, con le moto sparse dappertutto. Dalle retrovie del corteo ho sentito botti e spari. La polizia aveva seguito la manifestazione, e si trovava proprio in coda. Così è iniziato l’attacco. Si è scatenato il caos. C’era fumo ovunque, non riuscivamo a vedere nulla. Le granate stordenti esplodevano dietro di noi, su di noi, dappertutto. La polizia manganellava i dimostranti. Le macchine erano parcheggiate ai lati della strada. Molte moto erano bloccate e non riuscivamo a muoversi, a causa della dimensione del corteo. Il tutto è durato pochi minuti. Abbiamo cercato di evitare di essere ulteriormente aggrediti: ma io e il guidatore siamo stati fermati da una volante della polizia, poco lontano da quella via. Siamo stati portati al quartier generale della Polizia. Appena arrivata lì, ho visto altre 13 persone, alcune in condizioni critiche, che erano state pesantemente malmenate. C’era molto sangue. Alcuni non erano in grado di camminare.

Precisamente, dove vi trovavate?

Eravamo al sesto piano, nel corridoio. C’erano due panche. Qualcuno era ammanettato e perdeva sangue. Abbiamo chiesto dei fazzoletti per tamponare le ferite, ma non ci hanno portato nulla. Io avevo un pacchetto di fazzoletti, e così ho provato a tamponare un po’. Ma i fazzoletti non erano abbastanza: non era solo uno, erano in molti a perdere sangue. Quando abbiamo chiesto della carta, un agente ci ha risposto: «Non avrete nulla, resterete così come siete». Col passare del tempo sono arrivati diversi poliziotti dell’unità Delta.

Di fianco ad una delle panchine c’era una piccola scrivania, e gli agenti erano radunati lì. Ci hanno chiamato per nome e hanno appuntato su un foglio i nostri indumenti e la nostra descrizione sommaria. Così facendo hanno avuto il tempo di falsificare i verbali, ad esempio su luogo e circostanze dell’arresto. L’abbiamo capito solo in seguito, quando abbiamo visto le accuse che ci venivano mosse. Tutte completamente false, a partire dagli errori sul luogo dell’arresto per arrivare a quelli sulle descrizioni. Nemmeno quelle sono riusciti a fare!

D’accordo, le accuse sono campate per aria. Hanno avuto l’ordine di reprimere il corteo e arrestare chiunque […]. Il crimine, essenzialmente, consiste nell’aver partecipato ad una marcia anarchica e antifascista.

Sì, il loro obiettivo era impedire che si facesse un corteo, soprattutto nello stesso posto in cui era stato fatto il pogrom. Le accuse sono fasulle non stanno in piedi. Tuttavia, ciascuno di noi era conciato davvero male. Ad esempio, un ragazzo era stato aggredito con un taser. L’hanno colpito sulla schiena. Lui ci ha detto che il suo corpo si è come paralizzato ed è crollato a terra. Quando l’abbiamo visto al Direttorato Generale il ragazzo aveva un buco sulla schiena, una ferita profonda causata dal taser.

Intanto, mentre noi aspettavamo sulle panche, le ore passavano. Non avevamo acqua. Non avevamo nulla, dato che ci avevano requisito tutti i nostri effetti personali. La nostra richiesta di avere dell’acqua è stata respinta. Abbiamo trovato una piccola bottiglia di plastica nel cestino, e un’altra sotto la panca. Le riempivamo soltanto quando uno di noi riusciva ad andare in bagno, accompagnato da un poliziotto. Se usavi scuse diverse, i poliziotti non ti facevano nemmeno andare in bagno. Così facendo abbiamo bevuto un sorso a testa ogni due o tre ore.

Lì vicino c’era una stanza in cui entravano gli agenti del Delta, uno alla volta, per fare rapporto. Erano più o meno in 30 – la maggior parte concentrati attorno a quella scrivania di cui parlavo prima, il resto sparso nel corridoio. Ci hanno detto un sacco di robe, è difficile ricordare. Comunque, le minacce erano di questo tipo: «Ora vedrete contro chi vi siete andati a mettere»; «Vediamo se vi viene ancora voglia di fare una manifestazione antifascista»; «Vi siete messi contro Alba Dorata, e adesso ve la facciamo vedere. Anche noi siamo di Alba Dorata»; «farete la fine dei vostri nonni a Grammos e Vitsi [Il riferimento è ad una battaglia della guerra civile greca, nda.]». A noi ragazze hanno rivolto apprezzamenti a sfondo sessuale, con un linguaggio molto volgare.

Quante ragazze eravate?

Due. Hanno convogliato la loro ira su di noi. Ci hanno dedicato la loro attenzione per diverse ore, insultandoci e minacciandoci. Hanno fatto i nomi di combattenti morti come Lambros Fountas [ anarchico ucciso il 9 marzo 2010 dalla polizia, nda], Alexandros Grigoropoulos [un ragazzino di 15 anni ammazzato a sangue freddo da un agente il 6 dicembre 2010, nda] e Christoforos Marinos [un anarchico “trovato morto” su un battello nel luglio 1996, nda], dicendo che noi saremmo andati a trovarli presto. In mezzo a tutto ciò c’era un agente della Delta, alto e con il braccio sinistro fasciato. […] Camminava tra di noi, ci pestava i piedi con gli scarponi, fumava e ci scenerava addosso. Poi ha tirato fuori il cellulare e ha cominciato a riprenderci e fotografarci. Diceva: «Abbiamo i vostri indirizzi, i vostri nomi, le vostre facce, e adesso passiamo tutto ad Alba Dorata». Se cercavamo di resistere – a parole – lui rispondeva con pugni e calci.

Lui in persona?

Lui è quello che ci ha picchiato per la maggior parte del tempo, ma anche altri gli hanno dato una mano. Insultavano, ci tiravano pugni e sbattevano le nostre teste contro il muro. Ma la tortura non si limitava alle botte: c’erano anche minacce e umiliazioni. Non potevo sopportare l’accanimento su quelli che già sanguinavano. Quello messo peggio era uno con la testa fracassata, che perdeva sangue da ore: soffriva di continuo e chiedeva un medico, ma ogni volta che parlava si prendeva altre botte.

Siccome era passato molto tempo, […] abbiamo provato a chiudere gli occhi e riposare qualche minuto. Eravamo sfiniti, soprattutto quelli feriti. Ad un certo punto, il ragazzo con la testa sanguinante ha chiuso gli occhi e si è addormentato. Non gliel’hanno permesso. I poliziotti gridavano: «Svegliati, tu non dormi, stai in piedi». Un altro, colpito in faccia, sanguinava dalla fronte e da un braccio. Altri erano stati picchiati sulla schiena, e avevano i segni del manganello.

Durante l’arresto erano stati sbattuti a terra, immobilizzati e pestati. I poliziotti hanno anche cercato di togliere i caschi con furia inaudita, rischiando di soffocarli, dato che i caschi sono allacciati al collo. I segni delle manganellate erano su tutto il loro corpo: schiena, pancia, gambe, braccia. […] Io tenevo la testa piegata per non farmi fotografare dai cellulari dei poliziotti. L’agente del Delta si è avventato su di me, mi ha tirato i capelli e mi ha alzato la testa per fotografarmi la faccia. La prima volta che ci ha provato, uno degli arrestati seduti vicino a me ha protestato. L’hanno picchiato. La seconda volta ho protestato io, e sono stata picchiata. Siccome mi proteggevo il volto con le braccia e i gomiti alti, mi ha colpito sul collo – e ovunque riuscisse ad assestare colpi. Mentre mi schiaffeggiava mi tirava anche i capelli.

Sempre lo stesso poliziotto? Quello che diceva di fare le foto e mandarle ad Alba Dorata?

Sì, me lo ricordo perché aveva una fasciatura al braccio. […] Si è avvicinato una terza volta, minacciandomi e dicendomi di sapere dove abito. Io non ho alzato la testa, e lui ha ripreso a picchiarmi. È stato a quel punto che sono scoppiata. L’ho spinto via, ho cominciato a urlare e gridare di lasciarci in pace, che non avevano alcun diritto di farci queste cose. A causa delle mie urla un agente in borghese, forse un commissario, è venuto in corridoio e l’ha bloccato, invitando gli altri Delta che avevano già fatto rapporto ad andarsene.

Questo vuol dire che la maggior parte di loro aveva già testimoniato da diverso tempo, e che erano rimasti lì per continuare tutto ciò. Anche lui se ne è andato. Dimenticavo: non era l’unico a riprendere e scattare foto. Gli altri poliziotti, quelli seduti alla scrivania, filmavano i loro colleghi mentre ci facevano quelle robe. Le aggressioni fisiche erano finite, ma tutto il resto è andato avanti. Ci puntavano un laser rosso negli occhi non appena cercavamo di chiuderli per riposare un attimo. Spegnevano le luci e ci puntavano addosso una torcia, dicendo che «è così si fa un interrogatorio», oppure «ora vi facciamo vedere come si fa». Si divertivano anche con l’aria condizionata, mettendola al minimo o sparandola al massimo. Ho smesso di chiedere di andare in bagno perché ogni volta che ci andavo i poliziotti  mi ricoprivano con i più terribili commenti sessisti, insultanti, e minacciosi. […]

Quando è finito tutto questo?

Verso le 7 di mattina, quando i Delta se ne sono andati. Siamo stati arrestati poco dopo le 9 di sera. Per tutto questo tempo non abbiamo potuto metterci in contatto con un legale. Gli avvocati sono arrivati lunedì, alle 3 di pomeriggio. Siamo rimasti al sesto piano del Direttorato Generale circa 19 ore. Il compagno ferito è stato portato in ospedale solo la mattina del lunedì. Gli hanno dovuto mettere i punti in testa e incerottarlo. Aveva un braccio rotto. Gli altri feriti non sono andati da un dottore: sono andati direttamente dal medico legale, martedì.

Mi sono dimenticata di dire che mentre eravamo al sesto piano ci è stato chiesto di entrare in un ufficio per la perquisizione corporale (per cui serve spogliarsi). Ce l’avevano già fatta domenica sera. Poi ci hanno portato in Procura, e il procuratore ci ha detto fino a giovedì eravamo in stato di fermo. Quando siamo tornati al Direttorato Generale ci hanno portato al settimo piano, dove ci sono le celle.

Siamo stati convocati di nuovo per l’ennesima perquisizione. Ho protestato, dicendo che non aveva senso, visto che fino ad allora ero stata guardata a vista dagli agenti. La poliziotta mi ha detto che queste erano le regole e mi ha accompagnato in una stanza. Sono entrata e ho aspettato che chiudesse la porta. Ma lei ha detto che la porta non si chiudeva, e che avrebbe proceduto ugualmente alla perquisizione. […] Proprio di fronte alla porta c’era una scrivania, sulla quale stava lavorando un poliziotto. Altri agenti entravano e uscivano dagli uffici e dalle celle.

Racconti simili li hanno fatti anche quelli che sono stati fermati e arrestati lunedì davanti al tribunale, durante una manifestazione a vostro sostegno.

Sì, 25 persone sono state fermate. Una era una ragazza giovane: l’hanno portata nella cella dove stavamo noi. […] La solidarietà che abbiamo ricevuto ci ha dato una grandissima forza. Vedere i nostri compagni ci ha rincuorato. Senza una tale solidarietà, non credo che ce l’avremmo fatta.

Infine, ci tengo a dire che la ragione per cui stiamo raccontando le torture della polizia non è per fare le vittime. Lo Stato ha sempre tentato di terrorizzarci in ogni modo, e con tutti i mezzi possibili. Mettendo in risalto questi fatti, puntiamo a diventare più consapevoli e uniti contro la brutalità a cui siamo sottoposti.

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