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Su un ordinario sabato di democrazia: Welcome to Minniti’s land

Stato di emergenza all’italiana

Nel gennaio 2015, dopo gli attacchi a Charlie Hebdo, le autorità francesi decisero di dichiarare “l’état d’urgence”, una forma di stato di eccezione che dà ampi poteri alle autorità amministrative per gestire l’ordine pubblico. Tra le misure previste, la possibilità di vietare manifestazioni, effettuare perquisizioni e fermi senza mandato, emettere misure di limitazione della libertà di movimento come l’obbligo di firma o l’allontanamento dal territorio. Nonostante le vive emozioni suscitate dagli attentati, un ampio dibattito pubblico si sviluppò allora su quanto un’estensione cosi evidente del potere delle forze dell’ordine non snaturasse l’ordinamento democratico e repubblicano. Certo, assicurava il governo, le misure erano destinate esclusivamente agli estremisti islamici ma diverse voci obiettarono che potevano facilmente essere estese prima agli attivisti politici e poi ai comuni cittadini.
Dopo gli attentati di Londra, il Ministro Minniti ha deciso mutatis mutandis che era il momento di decretare “l’urgence” anche nel nostro paese. Presentato sotto forma di un’efficiente macchina tecnico-organizzativa e quindi scevra di ogni politicità, la misura non ha suscitato alcuna polarizzazione all’interno della cosiddetta “società civile” che anzi, in toto, l’ha accolta a braccia aperte prima e ne ha lodato l’efficacia poi. Non serve essere un astuto 007 o un esperto analista dei movimenti salafiti per sapere che lo Stato islamico non ha mai attaccato alcun summit di capi di stato, vertice di governo o riunione di responsabili politici. A cosa servivano quindi i 5’000 agenti schierati a Roma il 25 marzo? Per qualsiasi essere pensante era evidente da subito che l’immenso dispositivo di polizia e il sequestro del centro di Roma aveva come unico scopo scoraggiare manu militari la possibilità di esprimersi contro il summit.

Jihadist-bloc: la chimera politica dell’ordine pubblico

Fin da subito, la volontà politica da parte di questura e prefettura è stata quella di confondere manifestazioni e attentati. Due pericolose variabili da gestire in una giornata “complicata” (per chi?). Un atteggiamento senz’altro vergognoso da parte del Ministero dell’interno ma che stupisce poco. Massimizzare le risorse e ridurre i danni, si potesse evacuare tutto la città sarebbe ancora meglio. L’elemento interessante è come questa retorica sia stata ripresa in maniera imbarazzantemente pedissequa da parte di tutta la stampa nazionale, ridotta ad ausiliare della questura non solo negli intenti ma anche nello stesso perimetro del discorso. In un gioco di mimesi con gli apparati di polizia, la sola maniera in cui è stata affrontata la giornata del 25 marzo è stata quella della garanzia che “tutto fili liscio”. Per chi? Ma per loro, ovviamente, per i 27 capi di Stato venuti a festeggiare una Roma agghindata a loro uso e consumo. Il che spiega perché fenomeni che ci si potrebbe azzardare a definire come testimoni di una certa “vitalità democratica”, per esempio dei cortei per contestare il governo, siano stati tranquillamente associati a degli attacchi indiscriminati per uccidere civili. Come scrive Mattia Feltri dalle pagine della stampa con un beffardo sospiro di sollievo “A sera si rincasa con Roma più bella di prima: non è successo niente, ci abbiamo rimediato una gran bella figura”. Per il giornalista italiano la politica si fa dentro al palazzo, fuori c’è solo la gestione dell’ordine pubblico. Fuori non deve succedere niente.

Del buon uso della paura

Si palesa quindi, per le autorità, un buon uso del terrore, alla faccia della retorica che chiede dopo ogni attacco jihadista di “non farsi prendere dalla paura”. È il terrore che sconsiglia la partecipazione e che lascia le persone a casa, passive ed immobili davanti alle sfilate dei potenti, nonostante sia pacifico che il loro paese va a scatafascio. Fin da subito giornali e autorità hanno provato a costruire il corteo da una parte come luogo repellente e impossibile da abitare, spaventando i suoi potenziali partecipanti, dall’altra ad isolarlo dalla città, andando bottega per bottega a consigliare di chiudere, parlando con i residenti dei barbari che avrebbero devastato quartiere e monumenti. A garanzia della pericolosità del corteo c’era l’apparato poliziesco stesso, quelle migliaia di agenti che testimoniavano fattivamente del pericolo rappresentato dalla manifestazione. Una sorta di verità circolare in cui le autorità garantiscono della pericolosità dei loro oppositori e lo dimostrano schierandogli un esercito contro.
In questo contesto ha ben poco senso parlare di libertà di manifestare. C’è di certo una possibilità formale di riunirsi e di marciare da un punto A a un punto B, ma le autorità decidono secondo la loro sensibilità innanzitutto qual è il punto A e qual è il punto B. Poi quale tenuta è consona per il manifestante e quali accessori sono ammessi. Va bene la giacca ma non il k-way, va bene la sciarpa ma non lo scaldacollo, va bene la forchetta ma non il coltello, van bene i coriandoli ma non i fumogeni. Colui che non è il manifestante che la polizia vuole in piazza viene cacciato dalla città per una durata variabile tra 1 e 5 anni (per queste motivazioni sono stati emessi 24 fogli di via nella sola giornata di sabato). Infine, qual è la velocità a cui il corteo può muoversi. Non troppo in fretta ma neanche troppo lento. Per ammissione della stessa polizia, è quando, per i gusti del commissario, una parte del corteo ha rallentato troppo che si è deciso di spezzare la manifestazione facendo avanzare contro i partecipanti un centinaio di agenti e una decina di mezzi blindati.
Più che di manifestazione si può parlare di marcia a ritmo forzato le cui modalità e i cui partecipanti sono in tutto e per tutto decisi dalle autorità che gli stessi manifestanti contestano.

Prevenzione e manifestazione

Si è lodato molto anche l’opera di “prevenzione” da parte del Ministro Minniti. Qualcosa di per sé bizzarro, ma che non ha suscitato nessun tipo d’interrogativo. Prevenire un attentato, prevenire una manifestazione… cosa cambia? Non sono, in fondo, la stessa cosa? Perché nonostante le autorità assicurino il contrario ciò che andava prevenuto, evidentemente, era la manifestazione stessa. Anche qui la repressione preventiva testimonia non solo dell’efficacia delle forze dell’ordine ma anche degli eccellenti livelli democratici raggiunti. Sabato sera blogger del PD, giornalisti e questura snocciolavano raggianti il numero dei controlli e delle punizioni collettive inflitte ai manifestanti. Duemila fermi preventivi prima di un corteo non sono considerati un pericoloso segnale per la “democrazia”, anzi sono proprio la garanzia che la democrazia è in marcia. Che avranno poi da manifestare questi manifestanti? Sotto, sotto c’è qualcosa che puzza anzi se si potesse, la prossima volta, perquisirli tutti raggiungeremmo il rischio zero…
Inutile pensare che esistano esagerazioni in questo senso che avrebbero creato chissà quale scandalo. Se i controlli fossero stati il triplo e non fosse stato trovato neanche uno spillo ciò non avrebbe rappresentato un problema per nessuno tranne che per i fermati. Semplicemente perché per il manifestante esiste, in questa fase, la presunzione di colpevolezza, né più né meno.

Una macchina che deve girare

La sproporzione tra le risorse investite a Roma e il carattere tutto sommato modesto della giornata, sembra suscitare più di una perplessità. Sui giornali emerge qualche malcelata delusione, ci avevano promesso il sangue non si è visto neanche un gomito sbucciato. Ciò che sembra sfuggire ai più (dei giornalisti non ci stupiamo di certo) è che l’apparato poliziesco è una macchina industriale che deve produrre. Si tratta in fondo dell’unica industria che può creare da sola la propria domanda, basta dire, per esempio che “c’è un progetto per devastare Roma”, come ha fatto la Questura della capitale, e il gioco è fatto. In realtà, i servizi di intelligence conoscevano benissimo i “rischi” della giornata del 25 marzo. I grandi eventi sono una ghiotta occasione su cui lucrare non solo per i servizi di catering ma anche per gli apparati di polizia. Il costo del dispositivo di Roma del 25 marzo si cifra diverse milioni di euro che ricadono anche a pioggia sui sottoposti: indennità di trasferta e straordinari fanno sempre comodo. Su questo si innesta una riflessione sull’investimento che Minniti sembra voler fare sui “suoi”. Sui giornali i responsabili hanno tenuto particolarmente a sottolineare la “professionalità” (?) degli agenti e da più parti, in piazza e in caserma, si sentivano gli stessi capi-plotone a fine giornata complimentarsi con i “ragazzi” per “l’eccellente lavoro” (quale? Aver giocato al cellulare? Essersi ammazzati di caffè al bar?). Evidentemente una “europeizzazione” della gestione di piazza richiederebbe avere un materiale umano adeguato e non quella semplice banda di macellai che sappiamo essere i reparti della celere. Bastava però vedere il nervosismo e la voglia di menare le mani da parte degli agenti intervenuti sabato durante il corteo per capire che non sarà impresa facile.

Abbiamo visto sabato scorso in opera non una gestione dell’ordine pubblico ma il governo attraverso la polizia dell’unico fenomeno realmente politico che attraversa questo paese: il dissenso. L’inimicizia verso l’amministrazione, la rabbia contro la politica, l’odio verso le istituzioni bollono nelle viscere della società italiana, come un magma incandescente che preoccupa ogni giorno chi deve garantire lo status quo democratico, quello in cui chi sta sopra decide e chi sta sotto sta a cuccia. Che un piccolo frammento di questo dissenso si possa manifestare nelle strade ed essere riconosciuto come tale è qualcosa di assolutamente inaccettabile. È questa la terra di Minniti.
Centinaia e centinaia di manifestanti (presunti, perché in piazza non sono mai potuti arrivare) sono stati fermati per un non conforme orientamento ideologico decretato dalle segnalazioni di polizia: militanti politici, protagonisti di lotte nei comitati popolari. Sì, fa disgusto, ma non sorprende. Un corno del problema rispetto alla fitness for purpose dell’apparato di normalizzazione approntato il 25 marzo contro la variabile del dissenso risiede qui: le secche in cui ci muoviamo ci lasciano contare. Soltanto nell’accumulo di forza sociale, materiale, immaginifica e politica risiede la possibilità di far tornare a montare la marea e diventare burrasca.

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