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Abolito con decreto il Sindacato e i diritti dei lavoratori. Incredibile, ma vero

Purtroppo lo avevamo ampiamente previsto. La ricetta di questo governo è ormai nota:

a) si prende un obiettivo qualsiasi tipo la distruzione dei diritti più elementari dei lavoratori,
b) si inserisce in un maxidecreto cacciuccato all’interno del quale si introducono riforme idiote in grado di catturare l’attenzione dei media e di quegli allocchi dell’opposizione.
c) si fa discutere tutto il paese delle riforme idiote
d) si ritirano le riforme idiote
e) rimane ferma solo la riforma obiettivo che, tuttavia, siccome siamo stati magnanimi con la revoca delle riforme idiote, viene inasprita e corretta in favore degli interessi dei più forti.
Et voilà, il gioco è fatto. E’ successo con la somministrazione di lavoro, con l’arbitrato e sta succedendo ancora con l’abolizione dell’efficacia dell’art. 18 alla quale è stata aggiunta in extremis la soppressione sostanziale del sindacalismo confederale. L’art. 8 della manovra aggiuntiva, di quel Decreto 138/11, è il perno della riforma intorno al quale sono comparse e poi scomparse un centinaio di poco credibili intuizioni per la soluzione della crisi. Si tassano in via straordinaria i redditi superiori a 90.000 euro. Anzi no, non li tassiamo più. Si aboliscono il 25 aprile, il 2 giugno e il primo maggio. Anzi no, li teniamo. Si aboliscono le province e si accorpano i comuni. Anzi no, va tutto bene così com’è. Abolisco l’art. 18. No, non è vero, anzi, si, è vero.
E l’opposizione, di qualsiasi tipo, da quella bollita e priva di qualsiasi credibilità del PD, che addirittura frena sullo sciopero generale, a quella dei centri sociali più estremisti, ha cominciato a parlottare e a balbettare su queste clamorose minchiate e non ha visto questo bluff clamoroso dell’accoppiata Tremonti-Marcegaglia.
Ovviamente, come detto, in cambio del ritiro di tutte le leggi-minchiata, il Governo ha stretto ancora di più sulla riforma del diritto del lavoro ed ha introdotto il testo definitivo, quello che aveva preparato sin dall’inizio ma che se fosse stato presentato nella sua stesura completa avrebbe suscitato polemiche e reazioni feroci. Oggi, invece, venduto come risultante dell’incontro tra opposte fazioni, come merce di scambio con la scampata eliminazione del 25 aprile, assume una sua dignitosa presentabilità.
Il provvedimento passato in commissione si conferma nel suo nucleo centrale stabilendo che, “fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro”, le specifiche intese aziendali e territoriali “operano anche in deroga alle disposizioni di legge” ed alle “relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Le intese valide, però, a differenza di quanto stabilito nella versione “Soft” della riforma, saranno non solo quelle “sottoscritte a livello aziendale o territoriale da associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, ma anche quelle sottoscritte dalle associazioni “territoriali” “con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati” che potranno avere ad oggetto: “le mansioni del lavoratore, i contratti a termine, l’orario di lavoro, le modalità di assunzione, le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro”.
L’emendamento approvato in Commissione, cioè, prevede che anche i sindacati percentualmente più rappresentativi a livello territoriale possano sottoscrivere accordi con le aziende. Possono sottoscrivere le intese o le “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”, ovvero le “loro rappresentanze sindacali operanti in aziende” e le intese, si ribadisce, avranno “efficacia per tutti i lavoratori, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alla presenze sindacali”.
Vi risparmio l’analisi sull’esclusione dell’operatività degli accordi di cui sopra per le lavoratrici madri, che, per quanto sacrosanto è solo il frutto di un intervento di Nostro Signore e dei suoi rappresentanti in Parlamento.
Vi invito, invece a riflettere sulla portata epocale di questa novità legislativa. Come già spiegato nel mio precedente intervento (138/11 del 13/8/11: l’apocalisse del diritto del lavoro) a cui vi rimando, ci potranno essere aziende, ad esempio, che, ricattando le rappresentanze sindacali interne con i livelli occupazionali in tempo di crisi, otterranno il placet su accordi che prevederanno, in caso di licenziamento, unicamente un risarcimento del danno in favore del lavoratore limitandolo a poche mensilità, al posto della reintegra e del risarcimento. E per aziende diverse si potranno avere situazioni differenti per cui in una il lavoratore che ha subito il licenziamento illegittimo si prenderà tre mensilità di risarcimento, in un’altra 5, in un’altra ancora 8 a seconda della forza contrattuale della RSU o dei sindacati territoriali. Questo schema, poi, si applica anche alla possibilità di utilizzare sistemi audiovisivi (fino ad oggi fortemente limitato), alla conversione dei contratti precari in contratti subordinato a tempo indeterminato, alle mansioni (e quindi al divieto di demansionamento) e all’orario di lavoro (e quindi ai suoi limiti). Ci troveremo aziende dove un lavoratore sarà costretto a lavorare con strumenti tecnologici che ne misurano la produttività, mentre in altre questo sarà vietato, lavoratori che possono passare da inquadramenti direttivi a semplice manovalanze ed altre dove questo non sarà possibile. Ci saranno aziende dove l’uso del contratto a termine e del contratto a progetto sarà indiscriminato e dove in caso di contratti precari illegittimi la conseguenza non sarà più la trasformazione in contratto subordinato a tempo indeterminato ma altro, magari ancora una volta un banale risarcimento.
Ebbene, non è più solo questo. Questi stravolgimenti senza precedenti della vita delle lavoratrici e lavoratori italiani non potranno essere introdotti solo a seguito di un accordo con i sindacati maggiormente rappresentativi, e quindi, si presume, maggiormente competenti sul piano nazionale ma, sostanzialmente con chiunque, con il primo gaglioffo che passa da quelle parti. Spieghiamo perché.
Prendiamo un’azienda media di una provincia (o, perché no, di un piccolo comun) del sud italia dove storicamente il livello di sindacalizzazione dei lavoratori è basso. Il datore di lavoro che voglia introdurre dei peggioramenti pesanti a danno dei lavoratori quali, ad esempio, l’eliminazione della reintegra nel proprio posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, non potrà farlo se non in combutta con la RSU. Se questo “imprenditore” volesse, potrebbe architettare la creazione di un Sindacatino territoriale composto da impiegati e operai compiacenti che in cambio avrebbero privilegi e certezze, far guadagnare a questa organizzazione consenso con mezzi leciti e meno leciti per poi, una volta insediata una maggioranza di componenti della RSU nella propria azienda, scrivere le regole del diritto del lavoro aziendale.
E’ chiaro anche a coloro che non sono inclini ad osannare il Sindacalismo Confederale che in un contesto come questo la presenza di tali associazioni garantirebbe dei livelli minimi di tutele ed una armonizzazione a livello nazionale dei diritti. In questo modo, invece, in provincia di Varese ed in provincia di Livorno, avremmo due ordinamenti diversi con tutto ciò che ne consegue sul piano della concorrenza. Se a Benevento si licenzia con facilità si ricatta più agevolmente e quindi si produce di più, l’azienda di Torino, dove è maggiore la sindacalizzazione, non minaccerà più la delocalizzazione in Romania ma a Benevento fino a quando gli operai stessi si vedranno costretti a chiedere al sindacato di accettare l’accordo al ribasso pur di non perdere il posto di lavoro.
In tempi di crisi, vere o supposte, l’unico obiettivo di Confindustria e di questo Governo è l’abbattimento del costo del lavoro che si realizza solo con l’eliminazione del ruolo del sindacato e della sua funzione quasi che la crisi fosse stata determinata dai lavoratori dipendenti.
Inutile dire che lo sciopero generale in questo contesto è sacrosanto e dovrà vedere l’adesione e la partecipazione attiva di tutte e di tutti come momento iniziale di costruzione di una strategia complessiva per la destituzione di questa classe politica e per la creazione di un progetto di ristrutturazione del diritto del lavoro che abbia come unico fine quello di abrogare sic et simpliciter tutte le norma approvate negli ultimi dieci anni in questa materia.
Ribadisco che la debolezza dell’azione sindacale e politica degli ultimi anni è dovuta principalmente alla totale assenza di un progetto politico alternativo a quello del centro destra che, in quanto tale, sta solo facendo il suo lavoro che consiste nello smembramento del diritto del lavoro in favore dei ceti più ricchi che rappresenta. Quello che manca è il progetto della sinistra, l’alternativa a questo disastro, la possibilità concreta di sperare in un paese migliore. Nessuno lotta davvero se non sa con precisione per cosa e per chi.

Marco Guercio
5 settembre 2011

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