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Affittacamere ed emergenza abitativa pre e post Covid19: testimonianza di M., 9 anni

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Il sesto contributo per la rubrica “virus e riproduzione sociale” inizia con una lettera scritta da una bambina di 9 anni, M., in occasione della mobilitazione del 26 giugno di Non Una di Meno. Insieme alla sua famiglia, composta da cinque persone, M. ha vissuto per più di due anni in una unica stanza di un affittacamere, posta dall’assistenza sociale come soluzione “provvisoria” alla loro condizione di emergenza abitativa.
L’invivibilità, l’umiliazione e la precarietà di una quotidianità costretta in pochi metri quadri sono state esasperate dalle condizioni determinate dal lockdown forzato dei mesi passati, con conseguenze ancora più pesanti sulla vita dei più piccol*. Proprio le parole di una di loro ha portato allo sviluppo dell’intervento qui riportato direttamente a seguito della lettera, entrambi letti nella piazza transfemminista di inizio estate.

“Durante questo lungo percorso dentro l’affittacamere mi sono sentita in trappola, che non si respirava. Si dormiva sempre con la finestra aperta anche se era inverno. Il bagno era sempre occupato, e per fare la doccia e la pipì si doveva fare la fila! e non se ne parla della sporcizia che si trovava! E studiavamo per terra o sul letto fino a che mamma ha portato una scrivania.
E poi è arrivata la quarantena e si doveva fare la video lezione tutti in una stanza! credo che siamo stati bravi ma è stata dura. Al Comune chiediamo di non chiudere tre bambini in una stanza come in TRAPPOLA, ai
servizi sociali chiediamo di pensare per il bene dei minori, finora per noi non l’hanno fatto.”
M.
Non è necessario aggiungere tante altre parole per raccontare il disagio di chi vive in una stanza di affittacamere perché in emergenza abitativa, un disagio già evidente prima della pandemia, ma che il confinamento ha esasperato.
Per le famiglie in affittacamere mancanza di spazio significa condividere bagno e cucina con persone sconosciute, significa ogni volta dover pulire sanitari e cucina prima di utilizzarli, significa vivere in una stanza senza avere mai uno spazio di intimità. Per bambini e bambine significa non avere un luogo adatto per giocare, per studiare, per ospitare amici, e il confinamento imposto dalla pandemia trasforma una stanza in una trappola.
Anche questa è violenza: è la violenza delle istituzioni…

– che non si assumono la responsabilità di portare avanti serie politiche per affrontare l’emergenza abitativa
– che sembrano non preoccuparsi che in ambiente promiscuo la salute fisica di minori è a rischio, e lo è aldilà del Covid
– che non garantiscono il diritto alla scuola per tutti e tutte: da marzo a giugno chi non aveva i dispositivi digitali e una rete internet NON ha fatto scuola! e a settembre, se le scuole ripartiranno, partirà con un passo indietro agli altri e alle altre compagne di classe.
Se prima della pandemia tante persone vivevano di lavori precari, non riuscivano a sostenere i prezzi di affitti esorbitanti per case spesso inadeguate, non riuscivano a garantire una vita dignitosa sé e ai propri figli, ora il numero di queste persone è aumentato e il Comune e la Società della Salute devono assumersi la responsabilità di una riorganizzazione di tutti i servizi. Le porte della Società della Salute non dovranno mai più essere chiuse, diversamente da quanto avvenuto nelle prime settimane di marzo: i servizi, in presenza o in remoto, dovranno essere garantiti SEMPRE perché sopperiscono a necessità primarie delle persone, che sia un contributo spesa,
una richiesta di accompagnamento per anziani o persone con disabilità, o per qualsiasi altra segnalazione di un bisogno.
Basta sprecare risorse nel pagamento di affittacamere, basta ricatti, basta soluzioni umilianti per la dignità umana, non chiediamo la carità, chiediamo solo quello che ci spetta perché noi per primi, e noi donne per prime, vogliamo conquistare l’autonomia per essere libere di riprenderci la nostra vita.

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